«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot
[M. Cacciari, Generare Dio, il Mulino, Bologna 2017]
In questo saggio, che inaugura per “il Mulino” la collana Icone – pensare per immagini, il filosofo Massimo Cacciari dimostra ancora una volta la sua indiscussa capacità filosofica di approcciare quesiti radicali, quali quelli che informano l’intera civiltà occidentale alla luce del signum cristiano, spingendosi con le dovute precauzioni e la necessaria modestia oltre l’isola del ‘conoscibile’ (di kantiana memoria) per affrontare la distesa marittima che naturaliter interpella ciascun Essere umano. L’autore infatti va definendo tra le righe di queste pagine uno studio della iconadi Maria, che fin da subito si mostra interpretando irriducibilmente un suo proprio divenire:«l’icona di Maria diviene; si accompagna a quella del Figlio, ma ancora più di questa sembra sfuggire a ogni astratta tipizzazione». Accompagnando il Figlio, ella accompagna anche la Voluntas Dei, rendendo possibile «il primo atto della kénosis del Signore» (p. 7). Continua a leggere →
Si è chiuso da poco tempo il Giubileo straordinario della Misericordia indetto da Papa Francesco, ma ancora, inevitabilmente, resta aperta l’interrogazione su come poter intendere e interpretare la misericordia divina. Con quali parole, ad esempio, converrebbe tratteggiarla senza tradirla in pieno. Una delle poche certezze circa una tale riflessione è che ‘misericordia’ rimandi directe a un qualche cosa di fragile, facile da sgualcire con mere banalizzazioni, e che si mostra del tutto disarmato di fronte ai tentativi moderni di annichilimento. Forse per ciò stesso essa, qualunque ‘cosa’ sia, sembra aliena alla condizione umana esplicata nel contemporaneo e che si muove all’insegna di un continuo accrescimento della potenza. E nondimeno, a tutt’oggi, ‘misericordia’ smuove e impone l’interrogazione su di sé, non appena vi si porga pazientemente l’orecchio.
Ecco, in conformità con quanto detto, nella Divina Commedia Dante fornisce storie di persone nel tentativo – coraggioso – di mostrare per immagini quel che ‘misericordia’ forse è. Non un discorso di matrice scolastica, soppesato logicamente, bensì una semplice esposizione di esperienze di misericordia. Un’operazione, quella condotta dal poeta fiorentino, che pretende di prendere forma al riparo da qualsiasi disputatio avanzata serratamente, dando luogo così a un ‘sussurrare’ sulla misericordia che tanto ricorda il ‘balbettio’ ammesso da Hans Jonas su Dio. Entrambi, in certo qual modo, desiderano dare voce alla possibilità – e non alla certezza matematicamente conquistata. Non v’è qui, infatti, dimostrazione di spinoziana memoria, more geometrico. Continua a leggere →
La storia del pensiero europeo ha archiviato un numero enorme di testi, la maggior parte dei quali presenta una corporatura ben piazzata, quasi a voler scoraggiare i più a prenderne seria visione. Questa prolifera produzione è facilmente spiegabile: esplicitare ‘tutto’ in maniera perfecta è già di per sé impossibile, soprattutto poi se addirittura all’interno di questo ne va della nostra stessa presenza. Interrogarsi è infatti difficile, costoso. Capirsi è perlopiù illusionistico. Tuttavia l’uomo non è mai indietreggiato di fronte a questo improbus labor, a tale profonda e radicale investigazione dell’esser-ci. Così gli scaffali delle biblioteche danno da secoli ospitalità ai vari tentativi che egli ha eroicamente cercato di portare a termine in seno a una tensione, più o meno sincera, di intelligere la cosa. Una continua lotta da parte di quest’ultimo perpetrata contro la sua natura di in-fante – incapace di dire compiutamente circa se stesso. Continua a leggere →
Cosa ha da spartire il Dio cristiano con la vita degli uomini sulla terra? Perché mai – se Dio rimane quell’“onnipotente” che tutto fa a suo piacimento, senza dover dar conto a nessuno, nemmeno ai più alti ideali del bene da lui stesso propugnati – dovremo preoccuparcene? La religione ha qualcosa da dire all’uomo perché questi se ne giovi, o è al contrario una specie di fardello che, per dovere, l’uomo non può caricarsi sulle spalle, a dispetto di ogni ragionevolezza? Ma poi: è solo un problema del cristianesimo, o non lo è forse di tutti i monoteismi? E infine: che ne sarà del Dio onnipotente – che per il suo essere “al di là del bene e del male” fa pensare più a Nietzsche che al Vangelo – all’alba di un terzo millennio sempre più insofferente – e motivatamente – al principio di autorità? Mentre le religioni monoteiste continuano a mietere vittime su scala globale, e proprio per mano di coloro che sembrano prenderle maggiormente sul serio… Continua a leggere →
«Certo non è una filosofia, io aborro la filosofia, è tanto tempo che non dice più niente di interessante» [Jacques Lacan]
Che la filosofia non abbia oggi più alcun senso e dunque che non se ne possa né parlare né, tantomeno, scrivere è drammaticamente evidente a chiunque, della filosofia, abbia conservato una visione netta, scevra dai compromessi, “hegeliana”, se a questo qualificativo attribuiamo valore di “olistico” e “assolutizzante”: «Severino e la non esistenza del dolore: mi immagino suo antagonista in un dibattito televisivo, mentre gli sferro un violentissimo calcio nei coglioni. “Ora, Maestro, è forse nella condizione migliore per illustrarci – gli chiederei un istante dopo, con argomentazione volgare – quella sua teoria sul dolore eternamente oltrepassato dalla gioia, essenza nascosta dei mortali“» [Antonio Moresco, Lettere a nessuno]. Continua a leggere →
In this article we’ll analyze some of the ‘methaphorogical’ processes, illustrated by the German philosopher Hans Blumenberg in his work “Paradigmen zu einer Metaphorologie” (1960). Particularly, in the first chapter we’ll step into the concept of “Truth” and its power in the metaphoric sense of “light”, “revelation” and “human labour”; the second will concern two of the most important paradigmatical shifts at the threshold of modernity: from an organicistic view to a mechanicistic one, and from the Tolemaic astronomic organization to the Copernican model. In the end of the essay, there’ll be a general presentation of Blumenberg’s hermeneutic method of philosophical research. Continua a leggere →
«La terribile domanda “chi sono davvero” vive allora in me come un corpo totalmente nuovo, cresciutomi dentro con una pelle e degli organi che mi sono del tutto sconosciuti. La sua soluzione è richiesta da una lucidità più profonda e più essenziale di quella del cervello. Tutto ciò che è capace di agitarsi nel mio corpo, si agita, si dibatte e si rivolta in maniera più potente e più elementare che nella vita quotidiana. Tutto implora una soluzione» [Accadimenti nell’irrealtà immediata, p. 12].
> di Giancarlo Vianello*
In Occidente, il processo di emancipazione, o di presunta tale, dell’umanità, che si sviluppa con la modernità, si accompagna al rifiuto radicale della cosmovisione[1] precedente, che è in blocco retrocessa al rango di superstizione. Questo processo emancipativo, inoltre, si connota nei termini di sviluppo della capacità operative e performative e, alla fine, in mera logica di dominio, che ha inaridito il mondo. In termini generali, questo è stato il destino dell’Occidente, che ha prodotto il mondo come lo vediamo oggi. Eppure, anche all’interno di questo processo storico travolgente, sono presenti intuizioni di segno opposto. Una della più emblematiche è rappresentata dal mito dell’anima mundi, dall’idea che il mondo sia una realtà animata unitaria.
Il termine anima, come è noto, deriva dal greco ànemos, soffio, e, similmente, psyche deriva dal greco psychein, respirare. Entrambi i termini sottolineano la natura vitale del fenomeno: l’anima individuale è un frammento di vita, è compartecipe alla vita. Proprio in questo senso, Platone[2] parlava di immortalità dell’anima, poiché era originata dal soffio divino, era un frammento dell’anima del mondo. Continua a leggere →
Ogni movimento di dissacrazione, di violazione del sacro, comporta tre elementi: un fattore fisico o ideale intoccabile, poi un movimento che infrange i confini, che spezza le barriere imposte, supera una soglia invalicabile e infine un elemento (che può incarnarsi in una persona, o in una cosa, o in un animale, o in un luogo) che si opponga a quello sacro, che sia fuori dai confini fissati dal sacro, fuori dal perimetro di ciò che si reputa inviolabile. Il movimento di dissacrazione si ha quando l’opposto dell’intoccabile viene ad unirsi o perfino ad identificarsi con l’intoccabile. Ciò che è da sottolineare in via preliminare è che lo strato ideale, sacro, una volta dissacrato, appare fragile, come un velo che nasconde altro. La sua natura è ambigua: fino a che sta in sé, opponendosi al profano, non sembra poter essere scalfito, sembra granitico, ma non appena viene dissacrato, profanato mediante l’identificazione con l’opposto, ecco che mostra la sua estrema fragilità. Tanto che ci viene da dubitare sul fatto che sia effettivamente sacro. Ci diciamo: se si unisce con il suo opposto o si identifica con esso, allora già dall’inizio deve avere qualche legame con esso, oppure fin dal principio deve essere altro da quello che finge di essere o da come lo abbiamo fino a qui ritenuto.
«Per quanto quel che segue possa dunque essere costituito da minutissimi pezzi, lacerati, chissà, dallo stesso autore in uno dei suoi momenti peggiori, se essi non hanno esaltato solo la sua voce ricevono impresso uno stampo e un ferreo sistema dalla realtà stessa delle cose, come succede a ogni pensiero che non si sia gingillato con se stesso» [M. Sgalambro, DMP].
«L’unità non è un luogo; il frammento è un luogo, è tutti i luoghi, e l’unità lo abita inapparente» [G. Ceronetti, TP].
«Quando Nietzsche annuncia che Dio è morto, significa che Nietzsche deve necessariamente perdere la propria identità. Poiché quel che qui viene presentato come catastrofe ontologica corrisponde esattamente al riassorbimento del mondo vero e apparente da parte della favola: nel cuore della favola vi è una pluralità di norme o piuttosto non v’è nessuna norma che sia propriamente tale, poiché il principio stesso dell’identità responsabile è ad essa, in senso proprio, sconosciuto finché l’esistenza non si è esplicata o rivelata nella fisionomia di un Dio unico che, in quanto giudice di un io responsabile, strappa l’individuo ad una pluralità in potenza. Dio è morto non significa che la divinità cessa di essere una spiegazione dell’esistenza, ma piuttosto che il garante assoluto dell’identità dell’io responsabile svanisce dall’orizzonte della coscienza di Nietzsche il quale, a sua volta, si confonde con questa scomparsa»[1]
Al paradigma del “divenire come Dio” in età contemporanea si sostituisce quello diametralmente opposto della “morte di Dio”, la loro opposizione misura la distanza tra l’epoca passata e quella presente.
La morte di Dio annunciata da Nietzsche in Die fröhliche Wissenschaft[2], se interpretata come fa Pierre Klossowski in questo passo e negli altri suoi scritti come fine dell’Io responsabile identitario, può essere letta sia come possibile spiegazione dell’evento tragico che ha colpito il filosofo tedesco (la sua follia), sia come verità a contrario del mito della Genesi. Continua a leggere →
«Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» [GENESI 3, 6-7]
«All’uomo disse: “Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto, polvere tu sei e in polvere tornerai”» [GENESI 3, 17-19]
«Il Signore Dio disse allora: “Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e dei male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre!”. Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita » [GENESI 3, 22-24][1]
1. Ab ovo
Alla fine dei tempi, o a quella che si percepisce come tale, come anche nelle epoche di profondo mutamento, spesso traumatico, si rende necessario interrogare l’origine per comprendere se non siano presenti fin da principio i segni della fine e per cercare strumenti allo scopo di penetrare meglio ciò che si vive. Ciò che sta idealmente all’inizio della nostra cultura è il racconto della Genesi, della creazione del mondo da parte di Dio. Oggi, dopo l’evento della morte di Dio, che dobbiamo intendere storicamente come fine di un’epoca ed apertura di un’altra ancora incerta nei suoi orizzonti, ci troviamo forse oltre la dialettica, classica nella nostra cultura, di origine e fine. Ciò significa che il ritorno all’origine avviene oggi in modo differente rispetto ad una volta: rileggere la parola della Bibbia può avere un che di ironico quando non si crede più alla verità, non solo letterale, ma anche spirituale e allegorica, del suo racconto. Tuttavia, io penso che il nuovo possa essere edificato solo attraverso la contezza di ciò che ci lascia orfani, più o meno smarriti e più o meno felici; probabile che una nuova interpretazione dell’origine possa acclarare la verità che permea la nostra epoca o almeno rendere palese ciò che la perdita dell’origine tende a far diventare inconscio. Continua a leggere →