«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot
Cade, così, il limite di una casistica troppo ancorata all’esemplificazione particolare, effimera e contingente, per quanto riguarda gli uomini della “materia” e gli uomini della “forma”; dal momento che la fenomenologia ideale eterna, da Vico instaurata, insegna a interpretare dall’interno le modalità, o le ‘guise’, delle crisi ricorrenti, come «analogie dell’esperienza sofistica» ( “1994”. Critica della ragione sofistica, Bari 1997, capo X, XII e XII della Parte seconda, alle pp. 89-99 ).
Quel che, in verità, nessuno mai dice è il fatto che esiste una “doppia barbarie della riflessione”: la prima è quella della lettera a Gherardo degli Angioli, della autobiografia e della giovanile De nostri temporis studiorum ratione, per la quale la “barbarie” consiste nella pedagogia “cartesiana” del raziocinio, che mortifica la poesia e la fantasia e il senso nei giovani («filosofia che professa ammortire tutte le facoltà dell’animo che li provengano dal corpo, […] e di una sapienza che assidera tutto il generoso della migliore poesia»; mentre i giovani debbono educarsi mediante «esempi che devono apprendersi con vivezza di fantasia per commuovere»). Questa “barbarie della riflessione” è, però, senza malizia, viltà, tradimento e insidia. L’altra forma di “barbarie della riflessione” appartiene al Vico maturo, quando il filosofo ha capito che – nel corso delle nazioni e della civiltà – esiste una stagione ben peggiore della iniziale “barbarie del senso”, materiata di «malnata sottigliezza d’ingegni maliziosi» e di «malizia riflessiva» (ed è nella Conchiusione della Scienza Nuova seconda, dianzi citata). Questa seconda tipologia appartiene al Vico – per dir così – “pre-orwelliano”, dis-topico, «nato a debellar tre mali estremi: tirannide sofismi ipocrisia» (per dirla con l’amato fra’ Tommaso Campanella); pre-visione geniale che smentisce la meccanica ripetitività della vita delle nazioni e dei periodi storici, dal momento che non c’era nella età di “barbarie del senso”. La prima forma di barbarie della riflessione (o pedagogia cartesiana) è un “errore”. La seconda forma (o «malizia riflessiva»), come errore coscientemente voluto, è il “sofisma”, o somma di sofismi (con l’accrescersi degli “ingegni maliziosi” che interagiscono a più livelli).
Sommario: 1. Diritto e morale in Vico. 2. “De Constantia Jurisprudentis”, 3. Diritto Universale e teoria della storia. 4. Significati delle “guise” e delle “modificazioni della mente umana” nel Vico e nella modernità. 5. Importanza dell’avverbio nello stile di Vico ( e altri ‘autori’). 6. ‘Ed quando si sommano più e opposti errori che si forma il declino delle nazioni’. 7. La doppia “barbarie della riflessione”. 8. Casi storici di “declino delle nazioni”. 9. La “barbarie della riflessione” in Donald Verene e altri teorici: economia ed etica. 10. Misericordia Carità Diritto.
1. Diritto e morale in Vico
Nella celebre Filosofia di Giambattista Vico del 1911, Benedetto Croce si occupa distesamente, al Capitolo VIII, di Morale e diritto, al IX, della Storicità del diritto ed al VII, di Morale e religione, risalendo alla ripresa vichiana di Cicerone: «E ottimamente Cicerone diceva ad Attico, epicureo, di non poter istituire con lui ragionamento intorno alle leggi, se prima non gli concedesse che vi sia provvidenza divina» ( cfr., rispettivamente, le pp. 94-100; 101-108; 87 della nuova edizione del “Corpus” delle Opere di Benedetto Croce, Edizione Nazionale, a cura di Felicita Audisio, Bibliopolis, Napoli 1997 ). Continua a leggere →
A proposito delle relazioni che intercorrono tra gli elementi che costituiscono i cosiddetti “sistemi complessi”, Vincenzo De Florio ha recentemente definito l’interazione simultanea degli opposti con il termine di “resilienza” (De Florio V., 2015) 1. Le teorie scientifiche, gli ambiti specifici all’interno dei quali esse sono prodotte e i contesti più ampi e variegati della società in cui queste dottrine sono applicate costituiscono, nel loro insieme, un sistema complesso. In questi sistemi, teorie e ambiti, metodi e contesti, interagiscono simultaneamente in maniera non necessariamente simmetrica. La relazione “resiliente” tra la dottrina darwiniana e i contesti ideologici che di questa si sono avvalsi è il caso eclatante di cui tratto in questo articolo. Per discutere di questo fenomeno di resilienza dovrò riferirmi ai contesti storici, sociali e ideologici all’interno dei quali la dottrina darwiniana è stata manipolata, nella consapevolezza del fatto che l’analisi del contesto originale è metodologicamente essenziale per comprendere – senza tuttavia che la ricostruzione storica ne rappresenti una giustificazione – lo svolgimento dell’intricata vicenda.
4. Una socievolezza impossibile: lo sguardo che deforma
Se guardiamo bene alle nostre spalle e alla diagnosi rousseauiana riguardo l’origine della disuguaglianza (di cui manca una vera e propria prognosi ma che si può implicitamente intuire come inasprimento e deteriorarsi delle condizioni determinanti per la stessa), nonostante le tante corde fatte vibrare, sembra però sfuggire un nesso essenziale, un punto di cruciale importanza che vale l’intera argomentazione: per quale motivo i selvaggi, semplicemente accalcandosi sull’uscio delle prime abitazioni, se così si può dire, iniziano a classificarsi in modi diversi, a “trasfigurarsi”, nel bene e nel male? Entra qui in gioco, come accennavamo prima di sfuggita, il meccanismo della stima e dell’onore. Ma come s’innesca esattamente tale sfaccettatura di valori da attribuire e da sottrarre prima inesistenti? Perché, inoltre, ciò che poteva anche essere immaginato in maniera sporadica e saltuaria negli incontri vis-à-vis dei singoli selvaggi (pensiamo a quelli guidati dagli impulsi sessuali, fra gli altri), solo nella pluralità degli sguardi e nell’hic et nunc di un luogo fisso s’invigorisce e mette radici così profondamente? Continua a leggere →
3. Il rapporto fra Rousseau e il giusnaturalismo in relazione al secondo Discours
Finora abbiamo cercato di ripercorrere le tematiche dominanti e principali del secondo Discorso rousseauiano, seppure in modo desultorio e per certi versi approssimativo; ma già da quanto detto sorgerà forse spontaneamente un senso di confusione nel tentare di classificare Jean-Jacques Rousseau fra i giusnaturalisti o meno: a prima vista sembrerebbe un’ipotesi da scartare per il semplice fatto che la loi naturelle riscontrata dal filosofo rimane irraggiungibilmente utopica, separata dalla storia delle civiltà nei loro atti fondativi come una via ormai sconnessa e non più percorribile. Per tali motivi commentatori autorevoli hanno voluto stabilire che «Rousseau si può considerare come l’ultimo giusnaturalista1», denotando un caso estremo anche il contrattualismo dell’opera principale di Rousseau (visto più come un da farsi progettato per il futuro dell’umanità che a guisa di ricostruzione filosofico-storica2). Continua a leggere →
Proseguendo nella descrizione del lato morale dell’homme naturel, il filosofo ginevrino fa seguire alla constatazione tecnica della non-necessità della socievolezza per la sopravvivenza le sue conseguenze più intimistiche; difatti i filosofi, a detta di Rousseau, hanno troppo spesso raffigurato lo “stato di natura” nei suoi ipotetici conflitti e nelle forme arcaiche di società senza soffermarsi minimamente sulla lunga gestazione nel ventre della solitudine degli individui. Non nella socievolezza, bensì nell’isolamento, si trova l’essenza naturale del vivere umano: l’intersoggettività è, per Rousseau, solo un’aggiunta: «effettivamente, è impossibile immaginare perché mai un uomo in questo stato primitivo avrebbe avuto bisogno di un altro uomo più di quanto un lupo o una scimmia abbiano bisogno del loro simile1». Continua a leggere →
Contando poco sull’onore che ho ricevuto, avevo, dopo l’invio, rifuso e accresciuto questo Discorso fino a farne in qualche modo un’altra opera: oggi ho sentito l’obbligo di ristabilirne il testo che fu premiato. Ci ho fatto solo qualche nota e ci ho lasciato due aggiunte facilmente riconoscibili che forse l’Accademia non avrebbe approvato1.
È così che Rousseau, nella prefazione al Discours che gli valse il premio dell’Académie des sciences, arts et belles-lettres di Digione, introduce il suo scritto; un’annotazione di primo acchito meramente tecnica ed apparentemente marginale, che assume tuttavia una valenza peculiare per chi si accinge a far seguire alla lettura dell’opera del 1750 quella seconda fatica letteraria, del 1754, che non gli valse nessuna premiazione se non quell’ingresso effettivo nel mondo dei filosofi per quanto concerne l’argomentazione complessa ed articolata e lo spettro vasto di fenomeni affrontati (storici, intersoggettivi, morali). Continua a leggere →
In this article we’ll analyze some of the ‘methaphorogical’ processes, illustrated by the German philosopher Hans Blumenberg in his work “Paradigmen zu einer Metaphorologie” (1960). Particularly, in the first chapter we’ll step into the concept of “Truth” and its power in the metaphoric sense of “light”, “revelation” and “human labour”; the second will concern two of the most important paradigmatical shifts at the threshold of modernity: from an organicistic view to a mechanicistic one, and from the Tolemaic astronomic organization to the Copernican model. In the end of the essay, there’ll be a general presentation of Blumenberg’s hermeneutic method of philosophical research. Continua a leggere →
«Per quanto quel che segue possa dunque essere costituito da minutissimi pezzi, lacerati, chissà, dallo stesso autore in uno dei suoi momenti peggiori, se essi non hanno esaltato solo la sua voce ricevono impresso uno stampo e un ferreo sistema dalla realtà stessa delle cose, come succede a ogni pensiero che non si sia gingillato con se stesso» [M. Sgalambro, DMP].
«L’unità non è un luogo; il frammento è un luogo, è tutti i luoghi, e l’unità lo abita inapparente» [G. Ceronetti, TP].
Il filosofo francese Jean-François Lyotard (1924-1998) è noto soprattutto per il suo libro di rottura La condizione postmoderna (Feltrinelli, Milano, 2002) intendendo la modernità finita dopo la Seconda guerra mondiale, in particolare negli anni ’60. Perno del concetto è l’avanzare della tecnologia robotica e la conseguente spersonalizzazione della classica personalità umana. Quest’ultima è ben rappresentata dall’Umanesimo e dalla scienza susseguente, culminate con le sistemazioni intellettuali effettuate dal razionalismo inglese e dall’Illuminismo francese di metà ‘700, in concomitanza con l’avvento della Rivoluzione industriale. Continua a leggere →