> di Giuseppe Brescia*
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La doppia “barbarie della riflessione”
Quel che, in verità, nessuno mai dice è il fatto che esiste una “doppia barbarie della riflessione”: la prima è quella della lettera a Gherardo degli Angioli, della autobiografia e della giovanile De nostri temporis studiorum ratione, per la quale la “barbarie” consiste nella pedagogia “cartesiana” del raziocinio, che mortifica la poesia e la fantasia e il senso nei giovani («filosofia che professa ammortire tutte le facoltà dell’animo che li provengano dal corpo, […] e di una sapienza che assidera tutto il generoso della migliore poesia»; mentre i giovani debbono educarsi mediante «esempi che devono apprendersi con vivezza di fantasia per commuovere»). Questa “barbarie della riflessione” è, però, senza malizia, viltà, tradimento e insidia. L’altra forma di “barbarie della riflessione” appartiene al Vico maturo, quando il filosofo ha capito che – nel corso delle nazioni e della civiltà – esiste una stagione ben peggiore della iniziale “barbarie del senso”, materiata di «malnata sottigliezza d’ingegni maliziosi» e di «malizia riflessiva» (ed è nella Conchiusione della Scienza Nuova seconda, dianzi citata). Questa seconda tipologia appartiene al Vico – per dir così – “pre-orwelliano”, dis-topico, «nato a debellar tre mali estremi: tirannide sofismi ipocrisia» (per dirla con l’amato fra’ Tommaso Campanella); pre-visione geniale che smentisce la meccanica ripetitività della vita delle nazioni e dei periodi storici, dal momento che non c’era nella età di “barbarie del senso”. La prima forma di barbarie della riflessione (o pedagogia cartesiana) è un “errore”. La seconda forma (o «malizia riflessiva»), come errore coscientemente voluto, è il “sofisma”, o somma di sofismi (con l’accrescersi degli “ingegni maliziosi” che interagiscono a più livelli).
Lottare duramente, per ridar impulso al “ricorso” nelle cose civili, nella storia delle nazioni, richiede, allora, ampia ed accresciuta analisi “diagnostica”, con approfondita fenomenologia, vuoi dell’errore, vuoi delle possibilità di riscatto e ripresa: Pratica di questa Scienza (par. 1405-1411).
Egli scrive: «Ma tutta quest’opera è stata finora ragionata come una mera scienza contemplativa d’intorno alla comune natura delle nazioni. Però sembra, per quest’istesso, mancare di s o c c o r r e r e a l l a p r u d e n z a umana, ond’ella s’adoperi perché le nazioni, le quali vanno a cadere, o non rovinino affatto o non s’affrettino alla loro roina; e ‘n conseguenza mancare nella p r a t i c a, qual dee essere di tutte le scienze che si ravvolgono d’intorno a materie le quali dipendono dall’umano arbitrio, che tutte si chiamano ‘attive’» (1405).
«Cotal pratica ne può esser data facilmente da essa contemplazione del corso che fanno le nazioni; dalla qual avvertiti, i sappienti delle repubbliche e i loro principi potranno con buoni ordini e leggi ed esempli richiamar i popoli alla loro acmé, o sia stato perfetto. La pratica, la qual ne possiamo dar noi da filosofi, ella si può chiudere dentro dell’accademie. Ed è che ‘n questi tempi umani, ne’ quali siam nati, d’ingegni scorti ed intelligenti, dee qui, nel fine, guardarsi a rovescio la figura proposta nel principio; e che l’accademie colle loro sètte de’ filosofi non secondino la corrottella della setta di questi tempi, ma quelli tre princìpi sopra i quali si è questa Scienza fondata – cioè: che si dia provvedenza divina; che, perché si possano, si debbano moderare l’umane passioni; e che l’anime nostre sien immortali – e quel criterio di verità: che si debba riverire il comun giudizio degli uomi, o sia il senso comune del gener umano, del quale Iddio, che non lascia sconoscersi dalle quantunque perdute nazioni, non mai desta loro più forte riflessione che quando esse son corrottissime. Perché, mentre i popoli son ben costumati, essi operano le cose oneste e giuste più che ne parlano, perché l’operano, più che per riflessione, per sensi: ma, quando sono guasti e corrotti, allora, perché mal soffrono internamente sentirne la mancanza,non parlan d’altro che d’onestà e di giustizia ( come naturalmente avviene ch’uomo non d’altro parla che di ciò ch’affetta d’essere e non lo è ); e, perché sentono resister loro la religione ( la qual non possono naturalmente sconoscere e rinniegare ), per consolare le loro perdute coscienze, con essa religione, e m p i a m e n t e p i i, consagrano le loro scellerate e nefande azioni. Onde sono que’ due orrendi umani fenomeni che si leggono sulla storia di Roma corrotta: uno di Messalina, la qual aveva appo il balordo e scimonito Claudio tutto l’agio, licenza e libertà di sfogare l’intiere notti nel chiasso la sua insaziabil libidine, ma, nel tempo stesso ch’era maritata con l’imperatore, vuol godersi Caio Silio con tutta la santità e celebrità delle nozze; l’altro è di Domizio Nerone, ch’aveva svergognata la maestà dell’imperio romano col far il musico per gli pubblici teatri, e co’ sagrifici ed augùri e tutte l’altre cerimonie divine volle maritarsi nefariamente a Pittagora» (1406).
«Per tutto ciò i maestri della sapienza insegnino a’ giovani come dal mondo di Dio e delle menti si discenda al mondo della natura, per poi vivere un’onesta e giusta umanità nel mondo delle nazioni. Ciò vuol dire che l’accademie, con tai princìpi e con tal criterio di verità, addottrinino la gioventù che la natura del mondo civile, ch’è ‘l mondo il qual è stato fatto dagli uomini, abbia tal materia e tal forma quali essi uomini hanno; laonde ciascuno di essi due princìpi, che ‘l compongono, sia della stessa natura ed abbia le stesse propietà c’hanno esso corpo ed essa anima ragionevole, delle quali due parti la prima è la materia e la seconda è la forma dell’uomo» (1407).
«Le propietà della materia sono d’essere informe, difettuosa, oscura, poltrona, divisibile, mobile ‘altro’ come Platon la chiama, o sia sempre da sé diversa; e per tutte queste propietà essa materia ha questa natura d’esser disordine, confusione e cao, ingordo di distruggere tutte le forme. Le propietà della forma sono d’essere perfezione, luminosa, attiva, indivisibile, costante, o sia che, quanto più può, si sforza di persistere nel suo stato, nel qual è (che è quello onde Platone suol appellarla ‘l’istesso’); per le quali propietà la natura della forma dell’uomo è d’essere ordine, lume, vita, armonia e bellezza» (1408).
«Quindi la materia (ch’è ‘l corpo del mondo delle nazioni ), per la propietà d’essere informe, sono gli uomini che non hanno né proprio consiglio né propia virtù; per la propietà d’esser difettuosa, sono gli uomini viziosi, perché tutti i vizi altro non son che difetti; per la propietà dell’oscurezza, sono gli uomini i quali traccurano, nonché la gloria (ch’è un lume grande e strepitoso), anco la lode ( ch’è un lume quieto e picciolo); per la propietà d’essere neghittosa ed infingarda, sono tutti i poltroni, dilicati, molli e dissoluti; per la divisibilità sono gli uomini che non vanno appresso ad altro che alle loro propie particolari utilità (le quali dividono gli uomini) ed a’ corporali piaceri o sieno gusti de’ sensi (i quali tanti sono quanti son gli uomini); per la mobilità, sono tutti gli uomini stolti, che sempre si pentono, non mai sono contenti del medesimo, sempre amano ed affettano novità (che, in una parola, si chiama ‘volgo’, di cui è aggiunto perpetuo quello d’esser ‘ mobile’); per lo disordine e la confusione, sono gli uomini che, per tutte queste propietà della materia, ridurrebbono, quanto è per essi, il mondo delle nazioni al cao de’ poeti teologi (qual è stato da noi truovato essere la confusione de’ semi umani), e ‘n conseguenza alla vita bestiale e nefaria, quando questa terra era un’ infame selva di bestie» (1409).
«Per lo contrario, la forma e la mente di questo mondo di nazioni, per la proprietà d’esser perfezione, sono gli uomini che possono consigliare e difendere sé ed altrui, che son i saggi e i forti; per l’attività, sono gli uomini industriosi e diligenti; per la propietà d’esser luminosa, sono gli uomini che s’adornano privatamente di lode, p u b b l i c a m e n t e di g l o r i a; per l’indivisibilità, sono gli uomini i qual in ciascuna loro azione o professione sono tutti occupati con tutte le potenze e con tutta la proprietà: il c a v a l i e r e nell’arti cavalleresche, il l e t t e r a t o negli studi delle scienze, il p o l i t i c o nelle pratiche della corte, ciascun ar t e g i a n o nell’arte sua; per la costanza, sono gli uomini s e r i o s i e g r a v i; per la propietà d’essere ‘lo stesso’, sono gli uomini u n i f o r m i, c i r c o s p e t t i, c o n v e n e v o l i e d e c o r o s i; e ‘n fine, per quelle d’essere ordine, bellezza ed armonia, sono gli uomini che, compiendo ciascuno i doveri del suo ordine proprio, cospirano all’armonia e bellezza delle repubblichecon tutte queste belle v i r t ù c i v i l i, si sforzano di c o n s e r v a r e gli Stati. Il quale sforzo non potendo essi celebrare per loro debole corrotta natura, la provvedenza ha posto tali ordini alle cose umane, che loro il promuovano le religioni e le leggi a s s i s t i t e dalla forza dell’armi. La qual forza incominciò tra’ gentili dalla forza di Giove con le religioni, la quale promosse lo sforzo de’ pochi più robusti giganti a fondare l’umanità. Alla qual forza i pochi forti sono tratti per natura e, ‘n conseguenza, con piacere, perché promuove loro lo sforzo, ch’è connaturale de’ forti; e i molti deboli vi son tenuti dentro a dispetto, perché non dissolvano l’umana società. Ch’ è lo s p i r i t o di t u t t a q u e s t’ o p e r a» (1410).
«Così, con questi princìpi di metafisica discesi nella fisica e quindi per la morale i n n o l t r a t i all’iconomica, o sia nell’educazione dei giovani, sien essi guidati alla buona politica e con tal disposizione d’animi passino finalmente alla gi u r i s p r u d e n z a (la qual perciò noi nella Scienza nuova prima proponemmo alle università dell’Europa doversi trattare con tutto il complesso dell’umana e divina erudizione, e, ‘n conseguenza, ponemmo sopra a tutte le scienze), perché i giovani da erudirsi, così disposti, apparino la pratica di questa Scienza, fondata su questa legge eterna, c’ha posto la provvedenza al mondo delle nazioni: ch’allora son salve, fioriscono e son felici, quando il corpo vi serva e la mente vi comandi; e sì mostrar loro il vero bivio di Ercole ( il quale tutte le gentili fondò ): se vogliamo entrare nella via del piacere con viltà, disprezzo e schiavitù loro e delle loro nazioni, o in quella della virtù con onore, gloria e felicità. IL FINE» (1411).
È evidente che il Vico parte dalla conoscenza concreta degli uomini e delle loro passioni, di virtù e vizi civili, per organizzare, con precise “figure”, una fenomenologia dell’errore e delle varie forme di “operosità” che si oppongono a questa fenomenologia facendo combaciare la analisi “diagnostica” di “materia” e “forma”, “disordine” e “ordine”. E sono, per la materia: l’esser informe, difettosa, oscura, poltrona, divisibile, mobile e “altro” (con il comun denominatore d’esser “disordine”, che è definito – si badi – “ingordo di distruggere tutte le forme”); e per la forma dell’esser sociale e civile: la perfezione, luminosità, attività, indivisibilità, costanza, e la permanenza nello “stesso”. Ancor più notevolmente, in questa ‘mise à pointe’ dell’efficacia della Scienza nuova, si intravedono gli indizi sia del circolo delle forme di attività spirituale, sia dell’irruenza del “vitale” che sempre lo insidia, intervenendo a sconvolgerlo (incremento dell’ultimo Croce, prosecutore, più che erudito interprete, del Vico). Fulcro del “circolo” spirituale, come «regina delle scienze», è la “giurisprudenza”.
«Così, con questi princìpi di metafisica diiscesi nella fisica e quindi per la morale innoltrati all’iconomica, o sia nell’ educazione dei giovani, sien essi guidati alla buona politica e con tale disposizione d’animi passino finalmente alla giurisprudenza». Ogni parola del Vico è oro colato. La ‘discesa’ della metafisica nella fisica definisce bene il rapporto tra la ‘teoria’ e la ‘prassi’. L’inoltrarsi della ‘morale’ nell”economica’, o ‘iconomica’, rappresenta il passaggio tra la sfera di volizione dell’universale e quella delle volizioni del particolare, la cui forma economica è affine a quella pedagogica («o sia, l’educazione dei giovani», dice il Nostro), ed il cui vertice è istituito nella forma giuridica (la “giurisprudenza”, ancora una volta al sommo di tutte le scienze): dunque non in senso limitativo o spregiativo; ma anzi come caratterizzazioni salienti del medesimo campo d’attività e virtù. Ed è sommo acquisto che il Croce vorrà poi sviscerare e dipanare appieno, a più riprese, nel proprio sistema filosofico, la cui “quadripartizione” non sorgerebbe senza la “leva” originaria del “rapporto tra le forme”: un “rapporto tra le forme” che, a sua volta, vede nella smagliante genialità del Vico la iniziale propria giustificazione.
* Giuseppe Brescia, Presidente della Libera Università “G. B. Vico” di Andria, Preside titolare nei Licei, Medaglia d’oro per i benemeriti della Scuola nel 1990 e Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica, dopo la fase filologica (La poetica di Aristotele e Croce inedito, del 1984), ha espresso un sistema in quattro parti: Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva in due volumi (Bari 1999); Epistemologia come logica dei modi categoriali (2000); Cosmologia come sistema delle scienze di frontiera (1998) e Teoria della tetrade (2002). Ha lavorato all’innesto tra umanesimo storicistico epistemologia ed ermeneutica, dando valore attrattivo ai tempi del “tempo” e della “Lebenswelt”; alle Ipotesi e problemi per una filosofia della natura (1987), L’azione a distanza (1990) e Pascal matematico (1991); alle attualizzazioni dei problemi del male e del sofisma (Critica della ragione sofistica, 1997; Ipotesi su Pico, 2000 e 2011; Il sogno di Castorp e il progetto di Pico, 2002; Il vivente originario. Saggio sullo Schelling, Milano 2013; I conti con il male, 2015).
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