«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot
«Nessuno dispone delle soluzioni generali ai problemi globali». Questa affermazione di Raimon Panikkar, filosofo del dialogo, è ormai un dato di fatto: solo dall’incontro e dal confronto possono emergere le soluzioni ai problemi che ci attanagliano: l’ambiente, la povertà. La guerra. Il dialogo non è più una possibilità, ma una necessità.
Da questa consapevolezza nasce la nuova collana dell’editore Pensa Multimedia, “Pratiche dialogiche”, diretta da Riccardo Mazzeo
Cari amici, lettori, collaboratori, «Filosofia e nuovi sentieri», per impegni sopraggiunti, riprenderà le pubblicazioni a ottobre, anziché a settembre. Resta fermo l’invito (che qualcuno ha già colto) a caricare i vostri contributi in piattaforma. Ricordiamo che la casella filosofiaenuovisentieri@gmail.com è sempre attiva (vi risponderemo alla ripresa). A presto
Abbiamo appreso qualcosa anche sul piano collettivo, oltre che personale? Michel Houellebecq è chiaro al riguardo: «Non credo neanche per mezzo secondo alle dichiarazioni del genere “Nulla sarà più come prima”. Al contrario, tutto resterà esattamente uguale». Ma non sono in molti a pensarla così[21]. Siamo stati sommersi dai commenti di chi ha voluto vedere nell’evento pandemico un’occasione per riflettere sullo stile di vita cosiddetto occidentale: riguardo al lavoro (sempre più diffusamente agile, nelle previsioni), all’economia (che dovrebbe recuperare una sobrietà — ove mai ne abbia avuta una — foriera di ritmi meno forsennati e una maggiore giustizia distributiva), alle relazioni umane (che sembrerebbero tornare a essere un valore fondante, a dispetto delle mille tecnologie che ci tengono a distanza dietro gli schermi), al ruolo dello Stato: «Oggi le persone chiedono allo Stato di funzionare sempre di più e sempre meglio, e si pentono di aver permesso che si tagliassero la sanità pubblica e la ricerca, e si affidasse al mercato tanta parte, quasi tutta, della loro vita. E scoprono l’impossibilità di salvarsi da soli. Essere responsabili verso gli altri, aiutare gli altri a salvarsi, è la condizione per salvare se stessi» (Andrea Ranieri, Il prezzo della pandemia). Un rilievo particolare ha assunto il problema ambientale: qualcuno ha visto il virus come messaggero di una natura intenzionata a prendersi una specie di rivincita sull’uomo ovvero, in termini meno antropomorfici, di una natura che torna a una vita meno inquinata dalle mille deiezioni umane. Così ad esempio Galimberti[22]: «Sono assolutamente convinto che c’è una stretta correlazione fra l’espandersi di questo virus e il modo in cui abbiamo ridotto la Terra. Non possiamo fare della Terra quello che vogliamo, siamo passati dal suo uso alla sua usura. Fenomeni come la deforestazione, la strage animali, la contaminazione delle acque e dell’aria, tutto c’entra in quello che sta accadendo. [La Terra] si sta vendicando, la trattiamo troppo male». Nello stesso solco Paolo Giordano, nel suo Nel contagio, profetizza — seppur in maniera scientifica; con la scientificità che ci si può permettere in un volumetto di sessanta pagine — che non solo avremo altre crisi come questa, ma che «quanto sta accadendo con la Covid-19 accadrà sempre più spesso. Perché il contagio è un sintomo. L’infezione è nell’ecologia».
In un certo senso, tuttavia, lo sfaccendato — o meglio: il complottista che è in lui — ha ragione. Ci ricorda qualcosa. Qualcosa che tutti conosciamo, ma che nella vita di ogni giorno mettiamo fra parentesi perché è una realtà dura con cui fare i conti. E lo è perché infrange uno dei tabù fondamentali su cui è fondata la nostra immagine dell’uomo moderno: quello dell’individualità.
La verità è che il singolo, nei fatti, conta davvero poco. Troppo poco. Tanto poco da essere, nel totale, irrilevante. Il boicottaggio alla multinazionale criminale di turno da parte del singolo che smette di acquistarne i prodotti non serve a nulla. Servono a poco le azioni collettive, figuriamoci le iniziative personali. Se non vado a votare alle prossime elezioni, lo scenario politico del mio Paese non cambierà di un soffio. Sacrilegio: inorridisce la coscienza civica di ogni democratico perbene. E giustamente: non è retorica affermare che c’è chi ha dato la vita affinché io potessi oggi dire queste cose (e scegliere se andare o no a votare alle prossime elezioni). Ma qual è la verità? S’è detto prima: il singolo non conta. Nella somma dei numeri generati dalla massa, il suo contributo al totale è, come dicono i fisici, trascurabile. Come una cifra decimale troppo lontana dalla virgola perché si possa prenderla in considerazione. “E che accadrebbe se tutti facessero come te?” si dice. Appunto. Se tutti facessero in un certo modo: solo la massa può ottenere un reale impatto sociale.
Riassumendo, i sintomi più evidenti dello sfaccendato sono:
— Claustrofobia. Stare a casa sua gli provoca sofferenza, per quanto strano possa sembrare: la casa dovrebbe essere il posto dove si sta meglio in assoluto; dove ci si trova insieme alle persone con cui di è scelto di vivere, in mezzo alle proprie cose, nelle migliori condizioni per stare a proprio agio. Eppure.
— Inedia. Più tempo ha a disposizione, meno sa che farsene: non sa gestirlo perché non è in grado di esercitare in prima persona la propria libertà.
— Miopia. Si lamenta in maniera sproporzionata, con i toni più sostenuti, delle proprie condizioni di vita non ottimali, ben sapendo che — lì fuori, tra coloro che sono costretti a uscire — c’è gente che rischia la vita per assistere gli altri. Fino a riferire disturbi che è perfino difficile definire tali (come il velleitario e tanto diffuso: “Non riesco più a leggere”).
— Abulia[19]. Irrigidito nella convinzione dell’altrui soverchieria (le lobby, i “poteri forti”…), si abbandona al complottismo, persuaso che non ci sia niente di meglio da fare. Poco o nulla abituato all’azione sociale e men che meno collettiva, immagina che niente possa produrre effetti reali nel mondo. Non gli resta che l’ultima, sistematica lagna organizzata: smascherare le trame più occulte… restandosene dietro allo schermo di un computer.
Tuttavia, come abbiamo già visto, non si tratta di sintomi da COVID-19. Lo sfaccendato li aveva anche prima; erano solo meno evidenti. È questo il vero motivo per cui val la pena parlarne: non per criticare preferenze e stili di vita che non ci appartengono; ma per capire se, sotto di essi, si celi un problema più profondo e inquietante.
Proprio come l’uomo della folla, anche quest’uomo — lo sfaccendato — er lasst sich nicht lesen: si può fare a meno di conoscerlo, senza rimpianto. Come una canzone che non viene mai cantata, costui non ha niente da offrire a nessuno.
Una cosa è importante chiarirla: non c’è nessun “noi” e “loro”, come nell’Essi vivono di Carpenter. Non si sta parlando qui di certe persone in particolare; né di un tipo umano in generale. Quello che sta emergendo non è un identikit; è più — per rimanere nell’ambito della crime story — un aspetto del profilo del ricercato. Un aspetto che può venir giustapposto a una miriade di altri e che è trasversale al sesso, all’età, al grado di istruzione, al reddito e via discorrendo. Chiunque può essere un buon padre di famiglia e uno sfaccendato; un’ottima moglie e una sfaccendata; un serial killer e uno sfaccendato. Una persona qualunque… e uno sfaccendato.
Impressionante (e doppiamente, se si considera che il libro è stato celebrato in patria con il Premio Nadal nel 1993, per poi venir tradotto in Italia nel 2018) osservare la somiglianza tra la città descritta da Rafael Argullol in La ragione del male e la situazione globale — noi ci soffermeremo su quella italiana, che abbiamo toccato con mano — da COVID-19.
«Prima che gli strani avvenimenti se ne impadronissero, si trattava di una città prospera che faceva gioiosamente parte della regione privilegiata del pianeta. Era una città che, a giudicare dalle statistiche pubblicate regolarmente dalle autorità, poteva essere ritenuta a maggioranza felice». È così che cominciamo a conoscere, all’inizio del romanzo, la città teatro della storia: una città apparentemente “normale” e, anzi, di quelle in cui tanti agognano vivere (fino a morire in mare per raggiungerne le coste, potremmo dire con la nostra coscienza attuale). Una città fondata sulla «pace, il benessere, l’ordine e la libertà». Sempre uguale a se stessa, sorda alle notizie che vengono da fuori e, in generale, a tutto ciò che turbi il regolare e solito fluire delle cose.
Nell’“Uomo della folla” di Edgar Allan Poe, il narratore racconta di come, incuriosito dall’aspetto insolito e inquietante di un vecchio, si sia messo a seguirlo in ogni vicolo, strada, anfratto di Londra per un giorno intero; prima di rendersi conto che, anche ove mai l’avesse raggiunto, sarebbe stato inutile: «Il vecchio — mi dissi alla fine — è il genio tipico del delitto profondo. Egli non vuol restare solo. È l’uomo della folla. Invano continuerei a seguirlo; poiché nulla di più riuscirei a sapere di lui e delle sue azioni». Per il narratore, quest’uomo è come quel libro di cui si è detto che er lasst sich nicht lesen[8]: non si lascia leggere. (Anche nel senso di: non val la pena leggerlo, perché non ha niente da dire).
In che modo questo ha a che fare con l’uomo-sintomo della pandemia, che abbiamo etichettato “sfaccendato”? Anche alla luce di quanto fin qui premesso, non è difficile da individuare: lo sfaccendato è un uomo che non sa che farsene del proprio tempo, della propria vita. Passa la giornata a infornare cibo che basterebbe per sé e per un’altra quarantina di persone; o sui social network, a mandare vecchie foto “di quando ancora si poteva viaggiare”, video demenziali e barzellette insulse e ritrite sulle mogli e sui mariti costretti in casa con i rispettivi mariti/mogli, o ancora a inoltrare jingle a tema “Mi sono rotto le scatole”. Com’è possibile che non si abbia consapevolezza di quanto sia brutto dire: non so come passare il tempo? È l’ammissione del fatto che non sai che fartene di te stesso. Insomma: la vita è un’occasione preziosa e unica. Non è un po’ come dire che non si vede l’ora che finisca, per liberarsi dalla noia[9]?
Uomini e donne che devono muoversi se no impazziscono. C’è chi ha rifiutato il lavoro agile per poter uscire di casa “per necessità lavorativa”. Gente che, per lo stesso motivo, è andata a lavorare senza retribuzione. Sembrano boutade ma non lo sono.
Quando, a volte, mi sono messo a considerare le varie agitazioni degli uomini, i pericoli e le sofferenze a cui si espongono, nella Corte, in guerra, da cui nascono tanti litigi, passioni, imprese coraggiose e spesso ingiuste, ecc.; ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola cosa: l’incapacità di starsene tranquilli, in una camera. Un uomo, che ha abbastanza mezzi per vivere, se sapesse starsene con piacere a casa sua, non ne uscirebbe per andare sul mare, o all’assedio di una fortezza. Non si comprerebbe così a caro prezzo un grado nell’esercito se non si trovasse insopportabile non muoversi dalla città, e si cercano le conversazioni e i divertimenti dei giochi soltanto perché si è incapaci di starsene con piacere a casa propria.
Non è certo una novità di questi tempi, quindi, anche se nessuno è riuscito a scoprire quali siano le radici di tale incapacità, a causa della quale gli uomini sono disposti a mettere a repentaglio la loro stessa incolumità. Condizione che è arrivata ad alterare la percezione della situazione generale: di fronte al sacrificio di professionisti, in primo luogo quelli del personale sanitario, è assurdo che chi resta a casa possa lagnarsi senza al contempo vergognarsi per la propria posizione privilegiata.
A Raimon Panikkar e Maurice Bellet maestri della durezza e della pienezza della vita
Entriamo in un mondo strano, un mondo a testa in giù. Nelle aziende, l’assenteismo assunse proporzioni catastrofiche. Il personale non contestava né rivendicava alcunché. Semplicemente, non ci andava più. Non era uno sciopero, era una fuga. […] Chi contemplava la natura, chi scriveva poemi in prosa, chi imparava il greco antico, o la matematica, o a suonare l’organo, chi faceva pesca a spinning, scriveva un diario o corteggiava sua moglie, chi allevava i suoi figli, chi passeggiava in campagna ascoltando i suoi pensieri. […] Ora cominciamo a prendere consapevolezza, piuttosto diffusamente, ciò che fino a quel momento si era tenuto accuratamente nascosto: cioè che l’80% del lavoro umano non serve a niente, se non a mantenere la gente al lavoro.
(Maurice Bellet, Octone, pp. 12-13)
La condizione di segregazione coatta della maggior parte della popolazione mostra con evidenza, almeno nelle società a capitalismo avanzato d’Occidente, un dato ben noto agli analisti dei sistemi produttivi. Ovvero, che il lavoro sociale necessario al funzionamento del sistema generale, grazie allo sviluppo dell’automazione, rende sempre meno necessario il coinvolgimento nella produzione della maggioranza della popolazione, e anzi, è sufficiente una quota molto limitata dei lavoratori per garantire la sussistenza di ampi strati di popolazione.
(Pierre Dalla Vigna, I non-luoghi del Coronavirus)
Marzo 2020
A causa dell’incipiente epidemia di “coronavirus”[1] (di seguito “virus”) cominciano le restrizioni al movimento, stabilite per legge, con le quali i cittadini italiani vengono sostanzialmente confinati in casa propria al fine di evitare il diffondersi del contagio.
Con le dovute eccezioni: il personale sanitario (medici, infermieri…) resta in servizio, così anche quello addetto alla sicurezza (forze dell’ordine, protezione civile ecc.). L’industria si ferma, salvo quella essenziale (come nel caso delle aziende riconvertite alla produzione sanitaria), così anche la distribuzione (anche qui con l’eccezione di farmacie, alimentari ecc.). Il lavoro agile — o smart working, all’inglese — svolto da casa propria, diventa la modalità ordinaria di lavoro per la pubblica amministrazione[2] e molte aziende private vi fanno ricorso scoprendone i vantaggi. Insomma: di casa esce solo chi vi è costretto, dal lavoro o dalla indifferibile necessità.
Non è questa la sede per stabilire se l’ipotesi dell’evoluzionismo radicale di Sheldrake sia valida, né se si accordi o meno con i risultati della scienza moderna; lo stesso autore – che risponderebbe di sì a entrambe le domande – evidenzia come si tratti non di una conclusione ma di un punto di partenza, dell’apertura di un nuovo fronte della ricerca scientifica, circa il quale l’indagine è appena cominciata. Tuttavia, questa breve trattazione non vuol neanche limitarsi a offrire una suggestione in tal senso: è intesa invece come presentazione di una possibilità concreta basata su di uno studio scientifico accurato.
Sul piano filosofico, la filosofia di Raimon Panikkar è il supporto più valido per l’idea di evoluzione radicale di Rupert Sheldrake: essa è infatti in grado di pensare una realtà interamente viva e intrinsecamente libera, capace tanto di conservarsi quanto di innovarsi; ed è, al contempo, compatibile con la scienza moderna.
L’idea che il processo del divenire rimanga inalterato – non si corrompa, cioè, né muti in alcun modo la sua forma – mentre ogni cosa del mondo si trasforma fino ad estinguersi, è suggestiva, e prelude a una filosofia volta a rintracciare il fondamento stabile di ogni movimento. Questo approccio, tuttavia, è suscettibile di discussione, in un mondo regolato dalle leggi dell’evoluzione: se infatti le interpretazioni dell’evoluzionismo possono essere applicate all’intero universo, anziché al mero sviluppo delle specie viventi, ci si troverà di fronte a una realtà che muta così radicalmente da coinvolgere, in ciò, lo stesso processo del mutamento. Al riguardo, le ricerche del biologo inglese Rupert Sheldrake trovano terreno fertile nell’ontologia relazionale del filosofo indo-catalano Raimon Panikkar, in un binomio in grado di coniugare fruttuosamente le frontiere della scienza con quelle della metafisica.
(Questo articolo esce in occasione della pubblicazione dell’ultimo volume dell’Opera Omnia di Raimon Panikkar in italiano, Spazio, tempo e scienza, Jaca Book; nel quale Panikkar parla di Rupert Sheldrake come di un innovatore della scienza).
Una precisazione preliminare. È opinione di chi scrive che la realtà vada necessariamente pensata in una maniera che si accordi tanto con la prospettiva della scienza quanto con quella della filosofia. Non perché la filosofia debba ridursi ad ancilla scientiae (né perché abbia bisogno del supporto delle evidenze della scienza); né perché la scienza abbia, dal canto suo, la necessità di appoggiarsi a una determinata filosofia. Per inciso, è innegabile che entrambe abbiano sempre tratto giovamento dal reciproco confronto, anche quando si sono trovate, storicamente, in contrapposizione.
Il punto di partenza di questo scritto è il seguente: l’evoluzione afferisce soltanto alle specie viventi o coinvolge, più in generale, lo sviluppo dell’intero universo?