Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot


Lascia un commento

Finitudine – La disperata ricerca di un senso

Quando parla di finitudine[1], Telmo Pievani – scienziato e filosofo al tempo stesso, lombardo di nascita, newyorkese di formazione, padovano di adozione – sembra voler fare riferimento a quella stessa caducità cui si riferiva Giacomo Leopardi, per esempio nel lamento in cui sospira … e fieramente mi si stringe il core / a pensar come tutto al mondo passa … (La sera del dì di festa), o quando confessa … io mi metteva a piangere la sorte umana e la miseria del mondo (Zibaldone). La finitudine, dice Pievani, è il trionfo delle tiranniche leggi della termodinamica. È l’ineludibile trionfo del disordine sull’ordine. È il progresso estremo (o la regressione) della materia verso quel nulla quasi circolare, da cui tutto sembra essere emerso e in cui tutto sembra concludersi, e attorno al quale tanto inutilmente si arrabattano i fisici per capire che fine farà tutta quanta la materia.

Ma il tema vero attorno al quale si dipana il pensiero di Pievani non è la finitudine in sé. Di questa, dice Pievani, bisogna che ce ne facciamo, razionalmente, una ragione. Non c’è via di scampo. La finitudine è la contidio sine qua non, è il framework esistenziale, in cui si colloca il tema veramente centrale: quello del senso, vale a dire al significato del tutto e del particolare, e in questo tutto e in questo particolare, la vita: la vita ovunque si sia sviluppata, la vita di ogni specie e di ogni essere e, in primis, la vita di ciascuno di noi. Dov’è il senso, dunque, se tutto è destinato a finire?

Continua a leggere


Lascia un commento

Conversazione sulla pandemia tra scienza e linguaggio [parte seconda]

>Maria Vittoria Calvi* e >Piero Borzini*

5. Metafore e narrazione

Benché come esperienza diretta sia estranea a buona parte delle attuali generazioni di europei, la guerra è uno degli eventi più spesso associati alla paura collettiva, e le innumerevoli testimonianze e narrazioni di chi l’ha vissuta fanno parte della nostra “memoria culturale”, per dirla nei termini proposti da Jurij Lotman (1985), a cui abbiamo attinto nel tentativo di dare un senso alle nostre emozioni. Ciò che la pandemia ha in comune con la guerra è il senso di una crisi profonda, che genera paura, e riporta a un passato che si credeva illusoriamente superato. D’altra parte, va considerata la complessità di un quadro metaforico in cui convivono, in una sorta di “continuum semiotico”, le figurazioni del super-eroe evocate da Trump che invita alla battaglia, i ricordi di chi la guerra l’ha vissuta davvero e le percezioni del singolo individuo di fronte a un evento traumatico.

Il frame della guerra diventa uno strumento per esprimere le proprie emozioni, come ben si vede nella testimonianza di un infermiere di una RSA, raccolta dal Corriere della sera:

Ma oggi, qui, tutti, io e i miei “colleghi” ci sentiamo come Enea con Anchise sulle spalle. Il peso ci grava addosso e noi lo sopportiamo, sempre più curvi, abbozzando un sorriso. Ogni giorno ci vestiamo da guerra, con l’armatura e gli scudi per diventare immuni e così siamo irriconoscibili. Entro in reparto e mi immedesimo nello sguardo della signora Angela, “Mimì”. Cosa vede? Un alieno? Un essere strano che però ha una voce amica e un gesto dolce: Vincenzo, ma sei tu?” (“Io, infermiere in una RSA in dialogo con le lacrime”, Corriere della Sera, 3 maggio 2020). Continua a leggere


1 Commento

Conversazione sulla pandemia tra scienza e linguaggio [parte prima]

>Maria Vittoria Calvi* e >Piero Borzini*

Introduzione

In questo articolo, si snoda un dialogo intorno alle problematiche comunicative legate alla diffusione della pandemia prodotta dal virus SARS-CoV-2. A partire dalle diverse competenze e prospettive disciplinari, i due autori si scambiano domande e riflessioni critiche riguardanti la centralità della scienza nel discorso pubblico, il ruolo dei mezzi di comunicazione, l’uso del linguaggio figurato nella narrazione della pandemia, il potenziamento della comunicazione digitale e le possibili conseguenze di carattere cognitivo, fino ai problemi sollevati dalla didattica a distanza.[1]

  1. La voce dello scienziato

Nella fase iniziale dell’emergenza sanitaria, abbiamo assistito a un fenomeno nuovo: la comparsa degli scienziati sulla scena pubblica, chiamati in causa dai politici per intervenire nei processi decisionali. Tutti ascoltavano con trepidazione le loro voci e i loro pareri, nella speranza che la Conoscenza Scientifica potesse sconfiggere il nuovo e invisibile “nemico”, che in pochi giorni ha fatto saltare ogni certezza. Perfino gli abituali denigratori della Conoscenza Scientifica sembravano chiusi nel silenzio. Ma, di certezze, gli scienziati ne avevano ben poche, come è normale che succeda di fronte a un fenomeno nuovo: e così, le aspettative hanno lasciato il posto alla sfiducia, alimentata da un acceso dibattito tra scienziati che, talvolta, non hanno saputo valutare l’impatto mediatico di affermazioni più consone alla comunicazione tra specialisti.

Fuori dall’Italia, le cose non sono andate molto meglio: alcune ricerche confermano, ad esempio, che anche in Spagna i sentimenti negativi della popolazione sono stati alimentati dal flusso di informazioni contraddittorie, mentre un’efficace comunicazione del rischio richiederebbe chiarezza e trasparenza (Heras-Pedrosa, Sánchez-Núñez e Peláez, 2020). Resta però aperta una questione di fondo: come conciliare la cautela dello scienziato con il bisogno di certezza? Come infondere fiducia senza sacrificare il dibattito? Come orientare il cittadino in mezzo al concerto stonato di voci discordanti? Continua a leggere


Lascia un commento

Le Afriche di Marinetti – Un saggio di Milena Contini

Le Afriche di Marinetti – Viaggio nelle pagine africane del “barbaro” futurista profuma ancora di inchiostro. Milena Contini, che insegna letteratura italiana all’Università di Torino, l’ha pubblicato or ora per i tipi di Aracne (Roma, luglio 2020).

Ad eccezione di un breve periodo (1920-1924) di critica al fascismo, considerato un regime “passatista” e compromesso con la borghesia liberale, Filippo Tommaso Marinetti, aderì caldamente al Partito Fascista, indossandolo come un abito che, col passare degli anni, cadeva sempre meglio sulle sue spalle. Marinetti si autodefiniva “sansepolcrino” poiché aveva partecipato da protagonista all’atto di fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento che si erano costituiti a Milano il 23 marzo 1919 durante una adunata tenutasi in piazza San Sepolcro. Questa sua adesione al Partito Fascista fa sì che su nome di Marinetti sia tuttora presente un’etichetta con scritto a chiare lettere, giustamente, “maneggiare con cautela”. Milena Contini riesce nell’impresa in modo egregio: maneggia Marinetti con la dovuta cautela ma scava con grande autorevolezza tanto nel personaggio che nella sua sterminata produzione letteraria, drammaturgica e pubblicistica. Basti pensare che per esplorare l’Africa (le Afriche) declinata da Marinetti, essa esplora oltre cento (centodieci per l’esattezza) tra opere e articoli dell’autore futurista.

A chi, come me, ha frequentato il liceo negli anni sessanta, la scuola ha insegnato ben poco di Marinetti. Erano anni ancora troppo vicini alla caduta del regime per poter parlare serenamente della cultura di quel periodo, soprattutto se gli esponenti di quella cultura sostenevano, ciascuno con le proprie sfumature, l’ideologia fascista. Ciò vale non soltanto per Marinetti, ma anche per altri grandi artisti, come il pittore Giacomo Balla e Umberto Boccioni, straordinario scultore. A scuola imparammo solo della loro appartenenza a un movimento d’avanguardia, quello futurista, che avrebbe avuto importanti conseguenze nel panorama artistico europeo. Delle arti figurative e dei loro innovativi linguaggi qualche esempio ci fu mostrato, ma sull’arte letteraria, quella della parola, fu steso un pudico velo poiché la parola, quella di Marinetti in particolare, era un veicolo troppo esplicito di violenza. Una violenza che non era solamente rivoluzionaria ma aveva anche la parvenza di una violenza per la violenza, tale da assurgere a dichiarazione politica, estetica e filosofica.

Per quanto riguarda Marinetti, a scuola ci fu negata ogni possibilità di prendere un contatto diretto, fisico oltre che intellettuale, con le vette espressive e poetiche dell’autore futurista. Fummo istruiti sulle innovazioni dell’espressione linguistica, drammaturgica e artistica introdotte da Marinetti. Tra queste, l’aver “liberato” le parole dalle stantie e “passatiste” regole grammaticali e sintattiche a favore dell’immediatezza simbolica e della vitalità espressiva. Tuttavia ci fu precluso qualunque contatto col testo. Come spiegare agli adolescenti che eravamo che quel nuovo lirismo fatto di immagini geniali quanto crude, fatto di inimmaginabili metafore, ricco di colori, di odori e di sapori andava a braccetto ed era tutt’uno con una quasi delirante idolatria della violenza, della guerra e del fascismo? Come spigare, “ex catedra” che Marinetti intendeva liberare il mondo dalla “fetida cancrena di professori, di archeologi, di ciceroni, di antiquari”? Come spiegare che quella rivoluzione linguistica ed espressiva destinata a sedimentarsi in tutta l’arte del Novecento creava anche i presupposti perché si realizzassero nuove stucchevoli retoriche dal sapore fastidiosamente reazionario? Impossibile insegnare tutto ciò a degli imberbi ragazzotti. Era più semplice stendere un velo di silenzio e, a conti fatti, assieme all’acqua sporca è stato buttato via anche il bambino.

Milena Contini strappa questo velo e ci mostra tutto. Lo fa con stile e con la fredda professionalità del caso, senza per questo negarsi e negarci il piacere talora esplosivo delle vette espressive del poeta. Lo fa prendendo le dovute distanze ma senza reticenze, mostrandoci Marinetti nella sua più totale nudità. La sua più alta poetica assieme agli abissi più turpi. Ci mostra come la biografia si mescoli inscindibilmente con l’arte, come la psicologia si intrecci col vissuto, come le espressioni si intreccino con le filosofie soggiacenti, portino queste il nome di Henri Bergson, di Georges Sorel o di Friedrich Nietzsche.

Marinetti nacque in Africa, ad Alessandria d’Egitto, dove viveva una consistente e operosa comunità italiana. Ci visse a lungo, fino alla tarda adolescenza, imparando il francese e l’arabo, con tanto di espressioni gergali popolari. L’Africa vissuta da adolescente riempirà le sue vene con le sensazioni estreme che, a quell’età, il mare, la sabbia, il sole, i profumi, gli odori, le storie e i miti possono dare a un ragazzo. Tutto ciò gli apparterrà per sempre e uscirà a fiotti nelle sue opere. Trasferitosi in Europa, in Francia e in Italia, tornerà più volte in Africa, come giornalista e come combattente, approfondendo sempre più il suo intimo rapporto col continente africano assorbendo altri odori, altri sapori, altri miti. Tutto ciò costituirà un archivio di memorie che conserverà vive nel fisico oltre che nell’intelletto. Milena Contini estrae, ad una ad una, queste memorie dagli scritti del poeta futurista e le accompagna, parafrasandole a dovere, con la sua voce narrante. Chi legge finisce col rimanere sommerso da un profluvio di espressioni, immagini, metafore fulminanti, ma anche di colori, odori, sapori che escono quasi vivi (ma talora anche morti e putrefatti) da quella penna geniale.

Se ne ricava un’immagine di un’intellettuale raffinatissimo e nel contempo ripugnante. Ci si domanda (parlo per me) come riescano a coesistere nella stessa persona le più elevate raffinatezze linguistiche, espressive e poetiche, con le peggiori bassezze. Un divino poeta che non esista a mescolarsi con la feccia del fascismo più bieco e che riesce a coniugare le vette poetiche con la peggior misoginia e il maschilismo più spietati, con una ossessione sessuale va ben oltre i livelli della patologia e con una altrettanto patologica ossessione per la crudeltà, il sangue, l’antropofagia, sbudellamenti, evirazioni, fallofagia et simila.

Leggendo queste pagine viene spesso da pensare alla natura umana e a come in questo strano animale la sostanza del bello si mescoli con la più infima sostanza del male, del brutto, dell’osceno. Le due sostanze si mescolano ma non si fondono. Nell’intelletto dell’uomo, il bello e il brutto non si miscelano come i colori che, mescolati tra loro danno luogo a un mediocre colore intermedio. Si mescolano piuttosto come un conglomerato di pietre, nel quale ogni pietra resta quello che è e dal quale se ne può estrarre a piacimento l’una o l’altra. È così che nello stesso individuo coesistono il bene e il male, il bello e il brutto, il divino e il satanico. Marinetti non provava remore ad accostare, in una sola riga, il divino e l’osceno.

Viene anche da pensare (continuo a parlare per me) che il divino e l’osceno siano categorie mentali cui ciascuno di noi dà il peso e il valore morale che vuole. Ognuno di noi si dà una scala mentale su cui dispone i propri valori: diciamo che pongo a cento il massimo del bello e a zero il massimo del brutto (l’osceno). La scala dei valori (che corrisponde in fondo a una scala dei voleri o dei desideri) non è universale, uguale per tutti. Quel che per me, per le mie esperienze, la mia educazione, i miei desideri, si colloca, diciamo, sul dieci, per altri – portatori di altre esperienze, educazione e desideri – può collocarsi, diciamo, sul settanta. Su scale metriche identiche, i valori pesati sulle singole scale individuali di ciascuno sono incommensurabili. Pertanto, i giudizi etici e quelli estetici non vanno presi con eccessiva rigidità ma neanche con eccessiva rilassatezza. E questo vale anche per il giudizio che si vuol dare a un poeta e a un uomo come Marinetti.

André Gide lo definì un vanesio. Giudizio tranchant sul quale si può convenire, ma nel poeta futurista c’è senz’altro di più, molto di più.

Un’opera che dall’argomento specifico porta il pensiero del lettore a indagare sul tema particolare ma invita anche a viaggiare lontano è un’opera che val la pena di essere letta. Le Afriche di Marinetti è una di queste.   

* Piero Borzini (1950), alle spalle una carriera ospedaliera dedicata all’immunologia, al trapianto, alla terapia rigenerativa. Da una ventina d’anni si dedica ad argomenti all’interfaccia tra scienze biomediche, epistemologia, sociologia, antropologia, linguistica, evoluzione biologica e culturale. Su questi temi ha pubblicato alcuni saggi. Collabora saltuariamente con Methodologia-on-line e con la rivista PaginaUno. Tiene un blog (doveosanolegalline) dedicato ai rapporti tra scienza e società: https://doveosanolegalline.blogspot.com/