Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot


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Archetipo junghiano e senso comune vichiano

di Giuseppe Brescia*

L’archetipo, forma originaria, principio primo e ricorrente nel mondo dell’inconscio collettivo e dei miti o fiabe d’ogni tradizione e cultura, è “scoperta” di Carl Gustav Jung. «Denomino primordiale l’immagine», scrive Jung,«quando essa ha carattere arcaico. Parlo di carattere arcaico quando l’immagine presenta una cospicua concordanza con noti motivi mitologici». «Questi archetipi, la cui intima essenza è inaccessibile all’esperienza, rappresentano il precipitato del funzionamento della psiche nella serie degli antenati, cioè le esperienze dell’esistenza organica in genere, accumulatesi attraverso milioni di ripetizioni e condensatesi in tipi» (Tipi psicologici, del 1921). Trattandone per esempi di preminente interesse filosofico, si avverte viva la esigenza di approfondirne il complesso significato. «L’archetipo è un modello innato, facente parte del nostro patrimonio genetico. È un simbolo che ci porta a comportarci in un determinato modo» (Intervista concessa a Richard I. Evans dell’ Università di Houston, Texas, nell’ agosto 1957). Nel contempo, per quel che riguarda il “Patriarca” della filosofia moderna e contemporanea (così, “Altvater”, lo chiamava Wolfgang Goethe), che è Giambattista Vico, viene in soccorso la splendida definizione del “senso comune,” o “sensus communis”, ad offrire schiarimento e conferma per la nozione archetipale. «Idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbono avere un motivo comune di vero» (Scienza Nuova seconda, del 1744, Libro I.II. XII, Degli Elementi), “degnità” o “assioma” (come dice Vico) che sembra – oggi – non solo avallare, ma sostanziare di ulteriori ragioni, la “scoperta”, o “riscoperta”, junghiana. «Le idee uniformi e analoghe, fiorite ed espresse presso popoli che non si sono direttamente o indirettamente mai conosciuti tra loro; orbene, tali idee debbono evidentemente avere un motivo comune di vero, o attingere ad un fondo comune di verità». Continua a leggere


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I quattro sensi delle guise. Per una ‘cultura delle modalità’

> di Giuseppe Brescia*

Si procede, in questo saggio, dai “quattro sensi delle scritture” in Dante (letterale, allegorico, morale e anagogico o spirituale), come esposti nel Convivio e nella lettera a Cangrande della Scala, ai “quattro sensi delle guise” in Vico, dalla metodica letteraria delle scritture (‘Mondo 3’ della Cultura) alla metodica moderna delle ‘modalità’. In effetti, il senso del percorso critico si concentra nella prolusione vichiana del 1710, De Antiquissima: «Sapere vuol dire infatti possedere la guisa o la forma in cui una cosa avviene: mentre si ha soltanto coscienza di quelle cose delle quali non possiamo dimostrare la guisa o la forma in cui avvengono». Continua a leggere


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Trascendentalità del tempo

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> di Giuseppe Brescia*

«Genio è colui che lavora col tempo sul tempo»

( Max Ascoli, 1917 )

Secondo l’efficace sintesi di Wallace Arthur, irlandese, della National University of Galway, in Life through Time and Space (Harvard University Press, 2017), l’evoluzione dell’universo può così riassumersi: 1. Big Bang: “quattordici miliardi di anni fa”. 2. “Una frazione di secondo dopo il Big Bang, l’origine delle particelle subatomiche, protoni e neuroni”. 3. Altri quattrocentomila anni: “unione delle particelle che formano gli atomi”. 4. Durante il primo miliardo di vita dell’Universo: “nascita delle stelle, tra cui il Sole”. 5. Quasi simultaneamente: “origine della Terra e degli altri pianeti”. 6. Mezzo miliardo di anni dopo: “nascita della vita sulla Terra”. 7. Sette milioni di anni fa: “origine delle specie animali”. 8. Sei milioni di anni fa: “origine e sviluppo del cervello”. 9. Meno di un milione di anni fa: “Homo Sapiens”. 10. Poco meno di un milione di anni fa: come risultato dell’unione di un uovo e di uno spermatozoo, “noi”.

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Le “guise della prudenza”. Vita e morte delle nazioni da Vico a noi (3/3)

 

> di Giuseppe Brescia*

 

[Clicca Qui per la seconda parte]

 

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Casi storici di “declino delle nazioni”

Cade, così, il limite di una casistica troppo ancorata all’esemplificazione particolare, effimera e contingente, per quanto riguarda gli uomini della “materia” e gli uomini della “forma”; dal momento che la fenomenologia ideale eterna, da Vico instaurata, insegna a interpretare dall’interno le modalità, o le ‘guise’, delle crisi ricorrenti, come «analogie dell’esperienza sofistica» ( “1994”. Critica della ragione sofistica, Bari 1997, capo X, XII e XII della Parte seconda, alle pp. 89-99 ).

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Le “guise della prudenza”. Vita e morte delle nazioni da Vico a noi (2/3)

> di Giuseppe Brescia*

[Clicca Qui per la prima parte]

 

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La doppia “barbarie della riflessione”

Quel che, in verità, nessuno mai dice è il fatto che esiste una “doppia barbarie della riflessione”: la prima è quella della lettera a Gherardo degli Angioli, della autobiografia e della giovanile De nostri temporis studiorum ratione, per la quale la “barbarie” consiste nella pedagogia “cartesiana” del raziocinio, che mortifica la poesia e la fantasia e il senso nei giovani («filosofia che professa ammortire tutte le facoltà dell’animo che li provengano dal corpo, […] e di una sapienza che assidera tutto il generoso della migliore poesia»; mentre i giovani debbono educarsi mediante «esempi che devono apprendersi con vivezza di fantasia per commuovere»). Questa “barbarie della riflessione” è, però, senza malizia, viltà, tradimento e insidia. L’altra forma di “barbarie della riflessione” appartiene al Vico maturo, quando il filosofo ha capito che – nel corso delle nazioni e della civiltà – esiste una stagione ben peggiore della iniziale “barbarie del senso”, materiata di «malnata sottigliezza d’ingegni maliziosi» e di «malizia riflessiva» (ed è nella Conchiusione della Scienza Nuova seconda, dianzi citata). Questa seconda tipologia appartiene al Vico – per dir così – “pre-orwelliano”, dis-topico, «nato a debellar tre mali estremi: tirannide sofismi ipocrisia» (per dirla con l’amato fra’ Tommaso Campanella); pre-visione geniale che smentisce la meccanica ripetitività della vita delle nazioni e dei periodi storici, dal momento che non c’era nella età di “barbarie del senso”. La prima forma di barbarie della riflessione (o pedagogia cartesiana) è un “errore”. La seconda forma (o «malizia riflessiva»), come errore coscientemente voluto, è il “sofisma”, o somma di sofismi (con l’accrescersi degli “ingegni maliziosi” che interagiscono a più livelli).

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Le “guise della prudenza”. Vita e morte delle nazioni da Vico a noi (1/3)

> di Giuseppe Brescia*

 

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Sommario: 1. Diritto e morale in Vico. 2. “De Constantia Jurisprudentis”, 3. Diritto Universale e teoria della storia. 4. Significati delle “guise” e delle “modificazioni della mente umana” nel Vico e nella modernità. 5. Importanza dell’avverbio nello stile di Vico ( e altri ‘autori’). 6. ‘Ed quando si sommano più e opposti errori che si forma il declino delle nazioni’. 7. La doppia “barbarie della riflessione”. 8. Casi storici di “declino delle nazioni”. 9. La “barbarie della riflessione” in Donald Verene e altri teorici: economia ed etica. 10. Misericordia Carità Diritto.

1. Diritto e morale in Vico

Nella celebre Filosofia di Giambattista Vico del 1911, Benedetto Croce si occupa distesamente, al Capitolo VIII, di Morale e diritto, al IX, della Storicità del diritto ed al VII, di Morale e religione, risalendo alla ripresa vichiana di Cicerone: «E ottimamente Cicerone diceva ad Attico, epicureo, di non poter istituire con lui ragionamento intorno alle leggi, se prima non gli concedesse che vi sia provvidenza divina» ( cfr., rispettivamente, le pp. 94-100; 101-108; 87 della nuova edizione del “Corpus” delle Opere di Benedetto Croce, Edizione Nazionale, a cura di Felicita Audisio, Bibliopolis, Napoli 1997 ). Continua a leggere


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I conti con il male. Ontologia e gnoseologia del male secondo Giuseppe Brescia

> di Gianfranco Bosio*

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Dopo Il vivente originario (Albatros, Milano, 2013 con nostra “Prefazione”), e Tempo e Idee (Gazzaniga ed., Milano 2014), in questo suo ultimi e recentissimo libro Giuseppe Brescia (che tra l’altro è Presidente della “Libera Università G.B. Vico” di Andria ed è stato anche insignito dell’onorificenza di Cavaliere della Repubblica), ci presenta una nutritissima rassegna di vedute e di risposte di grandi pensatori come Kant, Schelling, Nietzsche, Heidegger, Pareyson riguardanti la grande domanda sul “perché” del male nel mondo, nelle sue forme di “male metafisico”, “male morale” e “male fisico”. In primo piano si staglia la figura di J.F. Schelling, fra i cui scritti emerge soprattutto il trattato del 1809, Ricerche sull’essenza della libertà umana del 1809. Brescia rileva come il male sia intimamente ed essenzialmente connotato dalla libertà della volontà e dalla sua originaria spiritualità. Continua a leggere


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La rivoluzione di Croce a cent’anni dal Contributo e nella crisi della filosofia europea

> di Giuseppe Brescia*

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Di fronte all’appariscente prevalere delle “filosofie analitiche” (cibernetiche, computazionali, epistemiche) rispetto alle cosiddette “continentali” (ermeneutiche, fenomenologiche, idealistiche o storicistiche), e al tentativo di ridurre il filosofare a una forma di “utile prassi”, si ripropone il lascito “rivoluzionario” di Croce, a cent’anni dal Contributo alla critica di me stesso (1915) e ormai centocinquanta dalla nascita.

Me ne occupai nel 1972, 1977-78, 1982, 1992, 2002 e 2012, coniugando l’attualità etico-politica con la ermeneutica filosofica, anche per confutare i presunti limiti di provincialismo culturale, conservatorismo etico, svalutazione della scienza e della teoria economica, imputati al filosofo da intellettuali ‘organici’ e variamente ‘militanti’. Distinguerei ora, in sintesi, dieci aspetti contenuti in nuce nel Contributo e atti a caratterizzarne il lascito : L’etica del lavoro e la “nobiltà del fare”; La Cura dell’angoscia e la incidenza della vitalità “cruda e verde”; Il culto della “Loica” nei tarocchi detti del Mantegna; La “lotta contro i demoni”; La esemplarità della “Filosofia del giusto”; La critica dei governi dei tecnici, “medici consultori”; L’abbozzo ermeneutico della importanza delle “mediazioni” nella circolarità spirituale; L’abbozzo ermeneutico della teoria del tempo, fulcro delle mediazioni; La ricerca di mediazioni tra giustizia e libertà, all’interno dei “modi” della ‘Libertà indivisibile’; e i Vertici della “Religione della libertà”. Continua a leggere


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Oggettività e pluralità. Piccola nota sul pensiero globale

> di Matteo Veronesi*

Se si seguissero i presupposti e i princìpi enunciati da Markus Gabriel (“Heidegger non conta più”, «Corriere della Sera», 17 maggio 2015) credo che qualunque forma di storiografia filosofica (la quale non può non tener conto dei contesti, storici e di conseguenza anche nazionali, in cui i diversi percorsi speculativi si sono sviluppati) diverrebbe impossibile. Continua a leggere


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Arthur Koestler, epistemologo della creatività

> di Giuseppe Brescia*

Di Arthur Koestler (Budapest 1905 – morto suicida a Londra con la moglie Cynthia nel 1983), ‘assetato di assoluto’ e studioso del ‘senso oceanico’ specie nell’ultima fase della propria riflessione (dopo averne scoperto la esigenza in “Buio al Mezzogiorno”, come risposta al male), la cultura italiana si occupava a causa della morte, in occasione della pubblicazione del suo ‘capolavoro’, del contributo al “Dio che è fallito” (Testimonianze sul comunismo) e dei vari tomi della ‘Autobiografia’, via via poi declinando verso il ‘silenzio’, specie nel trentennale della scomparsa, o persino tentando una lettura a posteriori, “politically correct”, di “Darkness at Noon” (dal 1940, data dell’originale, al 1946, 1950 e 1992, per le prefazioni agli “Oscar Mondadori”).

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Il senso del celeste e i princìpi vichiani in James Joyce

> di Giuseppe Brescia*

L’autonomia della poesia; la distinzione tra “persona pratica” e “personalità artistica” nello Shakespeare; l’interpretazione della legge dei “corsi e ricorsi storici”, come esigenza del perpetuo rinnovarsi di idealità spirituali e non meccanica ripetizione di fatti e accadimenti storici; la necessità, per non lasciarsi sopraffare, di contrapporre “forza a forza”, puntando però sempre al riscatto del cielo e dell’amore (“Love loves to love love”); il divario tra le “res gestae” e le “res gerendae” (“the irreparability of the past” e “the imprevedibility of the future”) nel corso dell’addio, al numero 7 di Eccles Street, tra Leopold Bloom e Stephen: – sono, questi, soltanto alcuni dei più importanti princìpi vichiani, e d’interpretazione vichiana, adottati da James Joyce in Ulysses (1922, ed. Penguin, London 1992, pp. 236 e 241-242; 490-492; 427-433; 816 sgg.), più tardi in Finnegans Wake, del 1939, il cui quarto libro è dedicato, propriamente, a “Il Ricorso”.

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“Con l’opera tacendo”. Ancora sul dialogo ‘sottovoce’ tra Emanuele Severino e Pietro Barcellona

> di Giuseppe Brescia*


L’intervista di Luigi Amicone, “La follia del nostro tempo” (su “Tempi” del 19 marzo 2014 ), con Emanuele Severino, oltre a coinvolgere il dialogo tra lo stesso filosofo italiano e il dissenziente “marxista – ratzingeriano” prematuramente scomparso Pietro Barcellona (autore de “La sfida della modernità”, La Scuola di Brescia, 2014), consente di tornare su temi essenziali per la comprensione del nostro tempo, nonché per svolgimenti di ermeneutica filosofica.

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