Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot


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L’intelligenza allo specchio.

Cosa (o chi) cerchiamo nell’AI?

Intelligenze.

L’uso della scrittura prima, e la diffusione della logica e della matematica poi, ci hanno costretto a prendere in considerazione, almeno di tanto in tanto, la necessità della elaborazione lineare delle idee. L’avvento dei computer ha dato un altro colpo in questa direzione. Anche se uno non ha mai programmato un computer, la consuetudine con queste eccezionali «creature» ci sta cambiando la mente. Per ora solo al livello più esterno, quello del fenotipo per intenderci; ma potremmo aspettarci che qualcosa accada prima o poi più nel profondo. Allora una mutazione in senso genetico potrebbe preludere a una ben più significativa Mutazione in senso culturale e comportamentale[1]

Alan Turing descrive ad un Eraclito, tanto perplesso quanto esterrefatto, il nocciolo del suo celeberrimo test:

Ora se pensi alle conoscenze contenute nelle schede, e aggiungi qualche risposta “generica” da usare quando la macchina non ne ha una migliore devi ammettere che la macchina passerebbe il mio test in maniera convincente[2]

E bisognerebbe ammettere che la maestria della narrazione angloamericana della storia della filosofia è davvero penetrante. Non si tratta tanto di emulare l’intelligenza umana, quanto di ingannare quest’ultima. E alle rimostranze di Eraclito, Chalmers precisa:

Ho sentito cosa hanno detto Turing e La Mettrie e sono d’accordo … fino a un certo punto, Certo le copie meccaniche di cui parlano ci assomiglierebbero, ma secondo me sarebbero umane quanto questa versione zombie di me. A livello funzionale non ci sarebbe differenza, ma mancherebbe la coscienza. La macchina non potrebbe amare, odiare, sperare, disperare, riflettere … insomma, non avrebbe una mente. Scusa amico. L’uomo per essere tale deve avere una coscienza, e il tuo hardware di carne non la prevede[3]

Certo, se una macchina passasse il test di Turing, il problema dell’emersione di una vita cosciente a partire da una base materiale iperconnessa passerebbe sicuramente in secondo piano. Ma l’accesso alla coscienza aprirebbe ben più complesse questioni di quelle che desidero discutere in questa sede. Cos’è la coscienza? Da dove viene? C’è differenza tra la nostra coscienza e quella degli animali non umani? Ce ne sarebbe tra la nostra e quella ancora ipotetica emergente da singolarità artificiali? In prima approssimazione, pare che una qualche connessione tra hardware e software ci sia, anche se la disimmetria tra la velocità di elaborazione dei dati e la quantità di informazione da elaborare nei due distinti casi dell’intelligenza umana e dell’intelligenza artificiale sembra confutare il paradigma emergentista. Per citare il buon von Wright, l’«attribuzione di fenomeni mentali a una persona si fonda su una concettualizzazione di alcuni fenomeni sotto l’aspetto dell’intenzionalità»[4].

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Questo mondo non è un albergo

L’immagine dell’hotel come metafora del capitalismo

Introduzione

Ci sono immagini eloquenti che hanno mostrato in sintesi gli aspetti peggiori del capitalismo1. La prima, celeberrima, è quella di Kierkegaard:

In un teatro scoppiò un incendio dietro le quinte. Un clown uscì sul palcoscenico e avvisò il pubblico. Gli spettatori pensarono che si trattasse di uno scherzo e applaudirono. Il clown ripeté l’annuncio, con sempre maggior divertimento dei presenti. È così, immagino, che il mondo verrà distrutto: tra l’ilarità generale dei buontemponi, convinti che sia tutto un gioco2.

Metafora potentissima di una società ormai incapace di distinguere la realtà dalla finzione, potenzialmente in grado di salvare se stessa ma di fatto troppo presa dall’ebbrezza del divertimento per riuscirci. La seconda viene dal filosofo francese Maurice Bellet, che parla del nostro tempo come affetto dal cancro:

Quello descritto è un movimento che, muovendo congiuntamente dal profondo e dal punto più alto, come pure dal nucleo inattingibile, suscita tutte le potenzialità umane. E, in verità, tale movimento ha una sola legge: vita, creazione, essere, al massimo livello possibile! Nondimeno, il suo nemico mortale è quel cancro che, col pretesto di infrangere i limiti, prolifera nel mostruoso (e i nostri tempi rientrano in questa condizione)3.

C’è tuttavia un’immagine che ricorre: quella dell’hotel, inteso come metafora della condizione dell’uomo nella società capitalistica. Che per la sua immediatezza, oltre che per la profondità, va oltre la sfera della riflessione filosofica per approdare a quella della cultura popolare. Accostamento che abbiamo tentato qui nell’esaminare dapprima il testo della canzone Hotel California degli Eagles (1977), poi quello del monumentale La distruzione della ragione di György Lukács (per la parte relativa al Grand Hotel Abisso). In che modo e in che senso questi due testi ci presentano il capitalismo dei nostri giorni? è la domanda a cui tenteremo di rispondere. Nelle Conclusioni proveremo a spiegare i motivi della potenza evocativa di queste immagini, con l’aiuto degli studi di Marc Augé, in particolare quello sui nonluoghi.

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Metafora. La storia della filosofia in 24 immagini

Il libro Metafora. La storia della filosofia in 24 immagini, scritto da Pedro Alcade e Merlin Alcade, e illustrato dall’artista catalano Guim Tió, fresco di stampa per le edizioni L’ippocampo (Milano 2024), è molto originale: si tratta di un album, un libro illustrato per ragazzi, che però non racconta una storia o una favola, ma si occupa di filosofia e in particolar modo del ruolo della metafora nella storia del pensiero filosofico. Siamo in presenza di un accostamento inusuale. Per la forma in cui è concepito si rivolge principalmente a un pubblico giovane, a chi ad esempio si stia accostando per la prima volta alla filosofia. Ciò non toglie che contemporaneamente possa essere apprezzato anche da un pubblico adulto di appassionati o studiosi.
Il volume ripercorre la storia della filosofia dall’antichità fino ai giorni nostri attraverso le metafore chiave di grandi pensatori e pensatrici. La metafora, infatti, in filosofia ha sempre avuto un ruolo importante e soprattutto il pregio di rendere sensibili, attraverso immagini concrete e semplici, concetti astratti.
Il fiume, la caverna, lo spettro, il deserto, il gioco, lo specchio, il giardino, ecc. sono solo alcuni dei simboli che i pensatori nel corso dei secoli hanno adottato per illustrare le proprie dottrine.
In questo libro si prendono in considerazione 24 metafore che fanno parte oramai dell’immaginario della nostra cultura occidentale. Ne citiamo solo qualcuna a titolo di esempio: si parte dalla metafora del fiume in Eraclito, troviamo poi la sfera di Parmenide, si passa per la celeberrima metafora della caverna di Platone e via via si giunge fino al pensiero contemporaneo: l’iceberg in Freud, il deserto in Hannah Arendt, il rizoma di Deleuze e Guattari.
Ad ogni metafora vengono dedicate due pagine: nella pagina di sinistra c’è un testo che la illustra in modo essenziale, una breve descrizione e interpretazione, accompagnata a piè di pagina da una nota che contestualizza il pensatore e lo mette in relazione alla corrente filosofica di cui fa parte, mentre in quella di destra c’è la sua raffigurazione attraverso le splendide tavole evocative dell’artista Guim Tió.
Metafora. La storia della filosofia in 24 immagini è un libro dal taglio inedito che ha il merito di rendere affascinante la filosofia, soprattutto per il pubblico più giovane.


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La vulnerabilità del bene e del male

Bene e male sono i due principi fondamentali che governano la nostra vita, che muovono l’umanità. L’uomo ha da sempre cercato di comprendere questi concetti contrapposti tra loro, spesso insidiati da fraintendimenti e pregiudizi.

Socrate diceva: chi conosce il bene fa il bene; quindi, chi fa il male non conosce il bene. Alla base del male c’è l’ignoranza. Chi fa il male crede che in quel momento il male che fa non sia male; se lo sapesse non lo farebbe. Il male è un fatto storico, il male come danno che un individuo può arrecare a un altro individuo è relativo alla singola situazione storico- politica; può cambiare a secondo i tempi e i luoghi.

Non facciamo il male, ma il bene quando sentiamo che l’altro non è un altro da noi, non è un diverso da noi, cioè un oggetto, ma è una persona come noi, cioè un soggetto. Solo allora non facciamo il male non perché obbediamo a codici di comportamento o per prescrizioni imposte da entità esterne, ma perché non amiamo farlo.

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Il ritorno di Oswald Spengler

Nella sua opera Significato e fine della storia, il filosofo bavarese Karl Löwith sosteneva che l’interpretazione della storia, così come si è andata sviluppando in Occidente nel corso dei secoli, riposa su una particolare esegesi delle Scritture bibliche anche se i nostri filosofi sono stati sempre riluttanti ad ammetterlo. Per Löwith, perfino coloro che hanno esplicitamente rifiutato la tradizione giudaico-cristiana, hanno in realtà fatto cripto-teologia, in quanto dietro le loro costruzioni filosofiche si stagliavano le categorie progresso, linearità, compimento, discendenti da quella particolare esegesi. La sola differenza fra la teologia cristiana e la filosofia della storia occidentale consisteva nella secolarizzazione della prospettiva biblica di un futuro escatologico, ove la provvidenza divina veniva rimpiazzata dal concetto mondano di progresso. Attraverso Significato e fine della storia, Löwith si è gettato nell’impresa sia di mettere in luce il rapporto segreto tra rivelazione cristiana e filosofia occidentale sia di dimostrare che il cristianesimo non ha mai tentato di dare una risposta chiara riguardo al senso della storia: letti «alla luce della fede – scriveva Löwith – gli eventi secolari prima e dopo Cristo non costituiscono una successione continua di avvenimenti significativi ma soltanto la cornice esterna della storia della salvezza».

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L’importanza della fisiognomica

Tipicamente e fortunatamente trasmessa in maniera inconscia – “una faccia da stupido”, “una faccia cattiva”; l’inquietudine provata nei confronti di chi ha le labbra sottili, la diffidenza verso i nasi aquilini, la volgarità di una fronte bassa e l’orrore dei monocigli; l’attrazione per uno sguardo profondo, la sicurezza di un mento squadrato – ad oggi la fisiognomica è perlopiù messa in atto da illustratori, vignettisti, pittori e, talvolta, scrittori; cioè da creatori di personaggi, caratteri e facce. Anche nel cinema la capacità di scegliere i giusti attori con le giuste facce costituisce un passaggio fondamentale di ogni produzione – non potremmo d’altronde immaginarci Burt Lancaster nei panni di un anonimo impiegato comunale, o Renato Rascel alla guida di una rivolta come Spartacus. Eppure, nella quotidianità, nonostante siamo costantemente influenzati e sospinti da segnali di questo genere, l’arte della fisiognomica è caduta in disuso, screditata e posta al livello di molte altre ciarlatanerie.

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Recensione a A. Vaccaro-M.Staffolani, Il Teleios. O i sette pregiudizi della tecnologia, Le Lettere, Firenze 2023, pp. 88.

La più ampia e nota riflessione sull’essenza della tecnica è senza dubbio stata offerta da Martin Heidegger in La questione della tecnica del 1953. Sulla scia di quel saggio, molti filosofi, nella seconda metà del Novecento, hanno approfondito quasi esclusivamente i rilievi critici mossi da Heidegger nei confronti del fenomeno tecnico, lasciandone sullo sfondo le aperture e le potenzialità benefiche. Nel nuovo Millennio poi la riflessione metafisica sulla tecnica è stata quasi sopraffatta dalla considerazione etica della tecnologia, nelle varie declinazioni di tecno-etica, bioetica, info-etica, etica della comunicazione, ecc.

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L’eclissi del pensiero critico

Viviamo in un’epoca frenetica, dove tutto muta, senza riferimenti, sicurezze, punti d’incontro, un’epoca dove non è più importante distinguersi dal gruppo, ma omologarsi ad esso. Ogni individuo è un soggetto unico e irripetibile, ma oggi sembra che tutti siano uguali, non tanto nel modo di pensare o di condividere determinate ideologie, quanto nel modo di apparire. Il nostro è un mondo che ogni giorno di più assume un’unica forma di pensare, di sentire e di esistere.

Un mondo che non tollera differenze, un mondo omologato che non accetta modi di pensare non omologati, subito liquidati come inaccettabili. Viene chiamata uguaglianza quella che dovrebbe essere chiamata indifferenziazione, nella quale trionfa incontrastata la disuguaglianza.

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Al di fuori del condizionato: cessazione della “personalità” e discontinuità del saṃsāra

Abbreviazioni

AN: Aṅguttara Nikāya;
It: Itivuttaka;
MN: Majjhima Nikāya;
SN: Saṃyutta Nikāya;
Sn: Sutta Nipāta;
Vism: Visuddhimagga;  
PTS: Pali Text Society.

Introduzione

I risultati di recenti ricerche (Perrone 2023a) sul saññāvedayitanirodha (nirodha per semplicità)[2] evidenziano come questo singolare conseguimento meditativo si trovi in stretto rapporto col nibbāna, in particolare con quello cosiddetto “senza resto” (anupādisesa), di cui rappresenta la maggiore approssimazione conseguibile in vita. Questa forma di nibbāna deve il suo nome al fatto che vi mancano quei cinque “cumuli” (khandha) che nel loro assieme dinamico e interattivo costituiscono la persona (puggala) o, se si vuole, quei cinque costituenti empirici che cooperando fondano la “personalità” (sakkāya)[3]. Il presente contributo intende connettere il saññāvedayitanirodha ad un verso del Sn (v. 766, PTS 147), contenuto nel Dvayatānupassanā-sutta[4], in cui si afferma che i nobili, controcorrente, vedano con favore la cessazione proprio della personalità: passaggio di primo acchito sibillino, ma il cui senso viene elucidato dal relativo commentario, dissipando ogni dubbio esegetico, come vedremo. Contestualmente, mostreremo come il nirodha costituisca anche una temporanea interruzione del flusso generalmente continuo del saṃsāra.

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Sul destino della cultura. Le tre domande sul fondamento

di Vito j. Ceravolo

È un racconto rientrante nella categoria filosofia-fiction, situato fra romanzi filosofico-storici, come la «Città del Sole» (Campanella) o «Il mondo di Sofia» (Gaarder), e romanzi filosofico-epici, come il viaggio di «Zarathustra» (Nietzsche), dove si perde il confine fra fiction e realtà a favore dell’immaginazione e argomentazione di un’altra cultura. Il tutto affidato alla voce narrante dell’io. È per la smisuratezza dell’ego che chiedo venia.

1. Luogo di configurazione

Ignoto mi era dove andavo, solo da dove venivo. Da dove vieni è da dove guardi, da dove configuri il mondo, e da dove vengo non ci sono citazioni e ogni vostro cammino si decostruisce e rinnova, trasforma da possibilità mai toccate prima.

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Pensiero in azione. La filosofia morale e politica di Raimon Panikkar in un saggio di Paolo Calabrò

La filosofia di Raimon Panikkar è nota e approfondita più negli aspetti teoretici, che non in quelli morali e politici. Tuttavia, i due ambiti nel suo pensiero non sono distinti e lo scritto Pensiero in azione. Politica e morale nella filosofia pratica di Raimon Panikkar (Il Prato, Padova 2023) di Paolo Calabrò, studioso del pensatore catalano, va a colmare questa singolare scarsità di scritti di letteratura secondaria sulla morale e sulla politica di Raimon Panikkar.
«In Panikkar lo sforzo intellettuale cammina a fianco della preghiera e dell’impegno politico» (p. 7): ecco perché è importante approfondire questo aspetto della filosofia di Panikkar.
La lettura di Pensiero in azione è interessante e proficua non solo per gli specialisti di Panikkar, ma per chiunque abbia a cuore le implicazioni pratiche del pensiero filosofico, perché le domande a cui il filosofo catalano cerca di dare risposta nei suoi scritti sono quelle che ci interessano da vicino nella nostra esistenza, i problemi che cerca di risolvere (concernenti l’ambiente, l’economia, la tecnologia, la guerra, ecc.) sono gli stessi che affliggono la nostra epoca e le soluzioni che prospetta sono concrete e pratiche e spesso vanno controcorrente rispetto al pensiero conformistico e dominante. Posso senz’altro affermare che Pensiero in azione è un libro che può contribuire con idee originali al dibattito culturale e politico contemporaneo.

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Un sogno a cinque cerchi. Sport e medicina nel romanzo di Maria Cristina Pasqualetto

Il nuoto fin da piccola, i successi e il desiderio di non deludere la mamma. Poi il corpo che muta con l’adolescenza, le prime gare importanti e le prime difficoltà, gli screzi con l’allenatore e l’illusione di poter risolvere tutto da sola: si snoda così il racconto di Elisa, fra la competizione, l’ansia di riuscire e di “arrivare”, perché è questo che vuole ogni atleta, che insegue con tutte le sue forze, quel centesimo in meno sul tempo, che gli permetta di qualificarsi per i mondiali – i cinque cerchi del titolo, quelli delle tanto agognate Olimpiadi.

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