Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

L’importanza della fisiognomica

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Tipicamente e fortunatamente trasmessa in maniera inconscia – “una faccia da stupido”, “una faccia cattiva”; l’inquietudine provata nei confronti di chi ha le labbra sottili, la diffidenza verso i nasi aquilini, la volgarità di una fronte bassa e l’orrore dei monocigli; l’attrazione per uno sguardo profondo, la sicurezza di un mento squadrato – ad oggi la fisiognomica è perlopiù messa in atto da illustratori, vignettisti, pittori e, talvolta, scrittori; cioè da creatori di personaggi, caratteri e facce. Anche nel cinema la capacità di scegliere i giusti attori con le giuste facce costituisce un passaggio fondamentale di ogni produzione – non potremmo d’altronde immaginarci Burt Lancaster nei panni di un anonimo impiegato comunale, o Renato Rascel alla guida di una rivolta come Spartacus. Eppure, nella quotidianità, nonostante siamo costantemente influenzati e sospinti da segnali di questo genere, l’arte della fisiognomica è caduta in disuso, screditata e posta al livello di molte altre ciarlatanerie.

Fisiognomica. Nome strano, ai più oscuro, laddove non totalmente sconosciuto; spesso confuso con fisionomia. L’arte di guardare in faccia una persona. Fisionomia è un’altra cosa, è semplicemente la conformazione di un volto; tra i due termini c’è lo stesso rapporto che tra alfabeto e lettura: come leggere coglie ed unisce segni grafici e vi attribuisce nuovo significato, così la fisiognomica intuisce l’animo degli uomini scrutando i loro occhi, gli zigomi, la fronte.

Certo, apparentemente non sembra una scienza inattaccabile; anzi, verrebbe forse da dire che chiamarla scienza sia già un errore. E sia: dichiariamo che la fisiognomica non è una scienza! – allora è un’arte. Comunque stiano le cose, è certo, e sfido i più razionali a dimostrarmi il contrario, che i tratti somatici di tutti gli individui, soprattutto i tratti del viso, ci comunicano qualcosa a livello umano. Bisognerebbe poi stabilire se ci siano dei pattern ricorrenti in ciò, ma, francamente, questo non vuole essere un testo di natura scientifica; mi limiterò ad annotare che, al giorno d’oggi, ci fidiamo ciecamente dei coaches che insegnano l’importanza del linguaggio del corpo, riconoscendo senza problemi che un paio di spalle ricurve trasmettono chiusura e insicurezza, ma ci indigniamo all’osservazione che due occhi troppo lontani non siano esattamente sintomo di brillantezza.

L’idea di una fisiognomica è, ad oggi, pressoché inaccettabile – e comprensibilmente: in primo luogo, essa presuppone un’assunzione di responsabilità da parte di ogni individuo su qualcosa ritenuto totalmente al di fuori del nostro potere, cioè il proprio viso e il proprio aspetto; secondariamente, la fisiognomica crea senza dubbio una classificazione degli uomini in gruppi, spesso gerarchici, per il valore e l’elevatezza di spirito; infine, essa è agli antipodi dell’odierna razionalità di stampo empirico-scientifico. L’ipocrisia e il paradosso stanno nel fatto che, come brevemente accennato, nessuno è in realtà davvero immune a segnali e pregiudizi legati a un embrionale e innato intuito fisiognomico; eppure questi cercano di essere sempre più negati e insabbiati in nome di un’equità e libertà altrui. Benché sotto certi aspetti ci paia istintivamente reale, dunque, se considerata razionalmente in toto ci si chiede: com’è possibile credere nella fisiognomica? Ma siccome il discorso è mio, sono io a rigirare a voi la domanda: come si può negare?

Innanzitutto, rifiutare i presupposti fisiognomici vorrebbe dire spezzare quel fraterno legame che lungamente ha percorso la storia culturale europea – la nostra storia: kalos kai agathos. Che il bello e il buono non siano più interconnessi da tempo mi pare chiaro, ma credo che mai come oggi si siano trovati così distanti; ciò è però, a parer mio, frutto di un fraintendimento: stabilire l’uguaglianza tra la bellezza estetica e il valore morale non significa già subordinare una cosa all’altra (per cui valuterò bello solo chi è buono o, peggio ancora, valuterò buono solo chi è bello), bensì rimodellare i due concetti di modo tale che l’uno non possa esistere senza l’altro. E anche di questo siamo più consapevoli di quanto crediamo. Prendiamo ad esempio i cosiddetti “bellocci”, al maschile, e le “bambole”, al femminile: individui con un certo valore estetico, magari anche un grande livello di erotismo, ma che dietro i tratti bene o male armonici non rivelano alcunché di interessante – gioie di una pulsione irrefrenabile, ma facce di cui è impossibile innamorarsi, poiché non smuovono nulla nello spirito. Viceversa, si considerino i filantropi moderni, magnanimi benefattori e orrendi mostriciattoli dalle facce accartocciate senza alcun tipo di physique du role: posso questi essere chiamati davvero eroi? Il fatto che lo siano la dice lunga…

Ecco cosa afferma la fisiognomica: non può esistere un uomo valoroso e nobile che sia brutto, e, allo stesso modo, è impossibile trovare una bellezza moralmente sudicia e volgare. Ciò non avrebbe destato alcun tipo di obiezione fino a qualche decennio fa, ma di fatto questa stessa frase, letta oggi, fa sorridere, poiché le stesse idee di “uomo nobile” e “uomo valoroso” si sono ridotte a buffi anacronismi – e come la rettitudine morale ci appare un residuo sbiadito dei medievali tempi andati, così la Bellezza svanisce evaporando in miliardi di particelle differenti e irriducibili, impossibili da giudicare poiché uniche e quindi “speciali” di per sé stesse. Nei fatti, il corpo e la persona (mi piacerebbe dire “lo spirito”) sono ormai in due galassie opposte; è sotto gli occhi di tutti come questo sia, per certi versi, impossibile da considerare realmente, e, per altri, padre di insensate e ridicole deformazioni della realtà – ma facciamo finta di niente. In ogni caso, sarebbe davvero più ingiusto imputare a ciascuno la responsabilità del proprio volto? Vorrei che qualcuno avesse il coraggio di dire: “È colpa mia se sono brutto”; così potrebbe nascere un avvincente percorso per correggere l’estetica di un animo in trasformazione – ma un’espressione simile sarebbe incommensurabilmente dannosa per i brutti, che potrebbero a quel punto essere apertamente giudicati e additati come tali: meglio che gli insulti rimangano sottovoce, e che lascino in pace, senza azzardarsi a giudicare, chi è vittima dei propri capricci.

Ecco che dunque, tornando al tema iniziale, la fisiognomica non pone in realtà l’accento sull’aspetto esteriore; viceversa: chi osserva con occhio attento si concentra sullo spirito – si può cioè intuire la personalità attraverso l’estetica non già perché quest’ultima influenzi la prima, ma esattamente per la ragione contraria.  Rifiutare la fisiognomica per una piccola questione morale a difesa della libertà di ciascuno di sentirsi bello nel proprio corpo è di fatto una pagliacciata, una mascherata: quello che si sta veramente facendo è distogliere l’attenzione dallo spirito, negare la sua esistenza, evitare di assumersi la responsabilità di esso.

Va da sé, infatti, che anche solo ammettere la possibilità di considerare uno spirito è cosa totalmente avversa all’egalitarismo liberale. Poiché si è tutti sullo stesso piano per nascita, è impensabile qualsiasi distinzione di natura gerarchica – che, perlomeno, non sia basata su fenomeni oggettivamente misurabili ed evidenti. Si accetta, dunque, che un campione sia superiore a un giocatore di ultima categoria, perché si consulta il palmares, o che tali privilegiati la facciano un po’ da padroni su altri poveracci, perché si consulta il conto in banca; ma qualsiasi supposto primato legato all’origine, al sangue, alla cultura o alla razza è, ragionevolmente, ritenuto subito falso e inaccettabile. Il che, beninteso, non è proprio una cosa negativa. Sorge tuttavia un problema se lo stesso ragionamento viene applicato allo spirito e all’animo umano, in quanto si va a privare l’uomo della suo più intimo valore, del valore cioè della sua persona, di ciò che è al di là dei risultati che ottiene e del suo lavoro – la famigerata teoria del valore-lavoro lockiana pare essersi riversata sugli stessi individui (non che fosse difficilmente prevedibile).

Nell’Occidente, la libertà esiste, credo, da qualche millennio – da che i Greci consideravano valore fondante della loro identità di popolo l’essere partecipi collettivamente in una comunità politica, azzarderei a dire che si è sempre trattato di un tratto fortemente distintivo della cultura europea, forse addirittura quello essenziale. Eppure, mi pare, solo giusto un paio di secoli fa si è cominciato a mettere in discussione l’esistenza dell’animo e dei grandi uomini di spirito. Perché? Ma poi, cos’è un grande uomo di spirito? Di fatto, è semplicemente un uomo affidabile. È un uomo tutto di un pezzo, solido, forte, resiliente, che sa reggere sulle proprie spalle il peso dell’intera comunità e portarlo, caricandosi anche delle responsabilità non sue perfino con gioia. Ad oggi esistono figure di questo tipo ancora nello sport e negli spogliatoi, dove i capitani spesso non sono i giocatori più forti (non succede quasi mai), ma sono appunto coloro sui quali l’intera squadra sa di poter contare ciecamente. Ecco, ma come si misura un uomo del genere? È facile capire che non si può. Lo si riconosce, e basta. Ma come allora creare una suddivisione simile, sulla base di che cosa – se non della pura e immediata evidenza? È ovvio che una personalità di questo genere sia impossibile da confrontare con qualsiasi altra personalità che non abbia le sue stesse caratteristiche – e sono rare. E tutti gli altri? Ma guardiamo al lavoro svolto dai ragionieri e dai bibliotecari: mettiamo che sia eccelso. Allora che diritto avrà il grande uomo, sul lavoro eccelso del libraio? La mossa non è stupida, neanche umanamente parlando: ad ognuno si è dato il suo, cosicché nessuno rimanesse fuori. Ognuno ha il suo pezzettino in cui eccelle, e nessuno è meglio di altri – salvo chi ottiene concretamente risultati più alti, anche magari attraverso l’utilizzo di mezzucci o scorciatoie varie. Certo, negando la distinzione tra facce belle e facce brutte si è data una consolazione ai brutti; ma abolendo qualsiasi discrimine non materiale tra grandi e piccoli uomini si è sostituito l’eroe, nobile e valoroso, che combatte per il popolo e la Patria, con l’imprenditore di successo, che spesso non è difficile capire per chi combatta.

Per questo la fisiognomica crea un così grande scompiglio: essa richiama un modo di pensare ormai strano, che se ne infischia dei 100 gol a stagione dell’attaccante fuoriclasse, e assegna la fascia di capitano a un mediano con i piedi magari non educatissimi. Rivendico questo modo di pensare, rivendico di poter guardare un uomo in faccia e leggergli dentro: rivendico insomma un mondo in cui l’intuizione è superiore all’inequivocabile razionalità scientifica; cos’è d’altronde un sistema di alambicchi se manca il buon gusto e la raffinatezza del palato? I miei occhi sono dunque i primi giudici, senza timore di esprimere sentenze poco imparziali; ma, al contempo, sono anche i primi ad essere giudicati da chiunque mi guardi in volto. Il creatore di valori è così creato tante volte quanti sono gli individui che posino su di lui sguardo – e provo un’intima e quasi corporea soddisfazione nell’immagine di un mondo che abbia sufficiente forza per ricoprire senza alcun tipo di remora il ruolo di regista e di attore allo stesso tempo, di padrone e di servo con altezzosa sfacciataggine. Non posso che giudicare – e quindi giudico. Se poi mi si dice che il mio parere non è valido perché non è supportato da prove fattuali, allora mi siedo in poltrona e reclino lo schienale, e aspetto che i fatti mi diano ragione.

Ma su questo si fonda proprio il nulla cosmico della conclusione razionale: essa parla solo quando i fatti le danno già ragione! Sorvolando che sfortunatamente in rarissime occasioni si hanno evidenze davvero univoche che portano a conclusioni assolutamente inconfutabili, spesso chi si esprime ragionando solo e soltanto attraverso procedimenti logico-razional-geometrici (cioè, a ben guardare, quasi nessuno) non sa lui stesso che cosa è vero e che cosa è falso: perciò deve consultare i dati. Ma allora che parla a fare? È già tutto scritto. Certo, si può portare alla luce una realtà che non a tutti appare evidente, collegare diversi fattori oggettivi per estrapolarne altri meno immediati – il che risulta ottimo nelle materie che tipicamente si fondano e si costruiscono su questo modo di procedere, cioè la matematica, la fisica, ecc. – eppure, fatto ciò, cosa si sarà se non dei bravissimi geologi? Grandi a cercare indizi e tracce e portare alla luce pietruzze preziose; comunque, col rispetto dovuto ai professionisti del mestiere, non penso che nessuno nella storia del mondo abbia immaginato una Nazione guidata da un geologo, né tantomeno un popolo.

La logica empirica di per sé non sarà mai sufficiente, poiché essa è solo constatazione di una realtà già esistente. Non ci si sorprende infatti che essa trovi posto privilegiato in un mondo che rinuncia quasi volontariamente al proprio spirito: esprimersi sulle cose ordinarie pretendendo metodo scientifico significa, in fin dei conti, non voler creare nulla, non aggiungere nulla a ciò che già c’è; si fa cioè di tutto per evitare che lo spirito si liberi con la sua forza.

Viceversa, chi crea non si fa influenzare dalla realtà, ma, al contrario, la plasma. Sentenziando il proprio giudizio di valore, l’uomo va oltre l’involucro della cosa (sia essa un oggetto, una persona o un avvenimento): non si limita ad osservarla o descriverla, ma ne coglie l’essenza, la ingloba in ciò che è il suo ordine del mondo, le assegna un peso e un significato. Perciò colui che non teme di esprimere giudizi di valore sa già quel che è vero e quel che è falso, prima ancora che i fatti lo dimostrino – se si ha la fortuna di assistere a una dimostrazione: egli coglie i segnali prima che si manifestino esplicitamente e li interpreta inequivocabilmente. Certo, bisogna avere i sensi affinati per poterlo fare – la fisiognomica non è per tutti: richiede palato fine ed esercizio. Chi dovesse fallire in sentenze così spavalde farebbe indubbiamente la fine del rabdomante trombone, come chi decanta un eccezionale vino che, una volta assaggiato da tutti i commensali, suscita un tipico imbarazzo in cui non si sa se ridere o far finta di niente. Tuttavia, mi sono sentito di spendere queste probabilmente troppe parole per cercare di riportare un’antica arte nuovamente al centro della vita e delle gesta quotidiane, proprio in quanto, in un mondo con sempre più certezze e sempre meno contenuti di cui essere certi, l’importanza della fisiognomica è presto detta: riconoscere la fisiognomica significa infatti riconoscere quel fondamentale e disperso primato dell’anima del mondo sullo stesso; dello spirito sulla realtà; dell’eterno sul presente.

1 thoughts on “L’importanza della fisiognomica

  1. Bellissimo articolo!
    Complimenti

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