Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

La vulnerabilità del bene e del male

1 Commento

Bene e male sono i due principi fondamentali che governano la nostra vita, che muovono l’umanità. L’uomo ha da sempre cercato di comprendere questi concetti contrapposti tra loro, spesso insidiati da fraintendimenti e pregiudizi.

Socrate diceva: chi conosce il bene fa il bene; quindi, chi fa il male non conosce il bene. Alla base del male c’è l’ignoranza. Chi fa il male crede che in quel momento il male che fa non sia male; se lo sapesse non lo farebbe. Il male è un fatto storico, il male come danno che un individuo può arrecare a un altro individuo è relativo alla singola situazione storico- politica; può cambiare a secondo i tempi e i luoghi.

Non facciamo il male, ma il bene quando sentiamo che l’altro non è un altro da noi, non è un diverso da noi, cioè un oggetto, ma è una persona come noi, cioè un soggetto. Solo allora non facciamo il male non perché obbediamo a codici di comportamento o per prescrizioni imposte da entità esterne, ma perché non amiamo farlo.

Il male è ignoranza; il bene è conoscenza. La conoscenza nasce dalla nostra eredità biologica e dalla nostra storia personale, dalle informazioni che ci sono state date dall’educazione familiare, dall’istruzione scolastica, dalle esperienze personali, familiari e professionali; e informazioni sono anche quelle create dagli stati emotivi, dalle nostre paure, dai sentimenti e dagli istinti che ci legano agli altri. L’insieme di queste informazioni costituisce quel patrimonio di valori, che chiamiamo coscienza morale.

Questi valori non solo ci spingono ad agire secondo norme di civile convivenza, ma ci inducono a trovare piacere e soddisfazione nel generare il bene degli altri, tutto quello che chiamiamo altruismo.

 Tutto questo richiama il concetto kantiano di bene supremo:” Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale”.

Non sono gli individui che fanno la storia, ma è la storia che fa gli individui. La storia cambia di giorno in giorno, è diversa secondo le diverse situazioni sociali, secondo le diverse culture, tradizioni, abitudini e secondo i diversi sistemi politici e anche gli individui sono diversi tra loro per le loro diverse esperienze di vita e la loro diversa capacità di recepire e selezionare quelle esperienze. Chi ha più informazioni e più conoscenze è portato a fare il bene; chi ne ha di meno è portato a fare il male, ritenendo che il male sia il bene.

 Fare il male o fare il bene non è un atto di permanente razionalità; è un atto compiuto sotto la spinta di quel mondo interiore in cui le conoscenze innate e quelle acquisite interagiscono tra loro insieme alle pulsioni irrazionali. Questo mondo interiore è l’inconscio, quell’area psichica profonda, fuori dalla nostra conoscenza, che rappresenta il nostro vero “io”; e l’io di ogni individuo è diverso da ogni altro io, si contrastano, si condizionano e disciplinano la nostra attività cosciente.

Non fare il male è un riflesso condizionato, anche quando appare come un atto razionale; sembra una libera scelta, ma è una scelta obbligata. Chi consapevolmente fa il bene ne trae soddisfazione, e la soddisfazione appare un premio che gratifica chi lo compie e rafforza i presupposti del suo fare il bene.

Sia chi fa il male, sia chi fa il bene è condizionato dalle sue conoscenze.

A spingere al bene sono le conoscenze contenute nell’inconscio, a spingere al male la mancanza nell’inconscio di tali conoscenze.

Quanto maggiore è la spinta verso il bene, tanto maggiore è il numero delle informazioni possedute, degli insegnamenti ricevuti. Chi più sa, più è libero.

La vita non è regolata dal caso, ma dalla necessità, tuttavia, la necessità può manifestarsi in migliaia di modi. Compito delle istituzioni è di moltiplicare quei modi in ragione dell’utilità; sarà l’individuo, con l’accrescimento personale del proprio patrimonio di conoscenze a trasformare l’utilità in moralità.

Prima di sconfiggere il male, occorre ripristinare una chiara differenza tra male e bene, è questo il compito delle istituzioni. Eppure, dalla cronaca emerge che spesso il crimine è nascosto, non viene riconosciuto, e la differenza tra il bene e il male si attenua fino quasi a scomparire. Una differenza che, invece, dovrebbe essere certa e inoppugnabile.

La differenza tra bene e male, fondamento etico essenziale, non sempre fa parte del patrimonio familiare. Anche l’altra istituzione fondamentale, la scuola, ha perso quella autorevolezza necessaria per la trasmissione dei valori fondanti. Tale differenza tende a sfumare anche nelle istituzioni della politica e dello Stato, il male si ridimensiona e l’economia ha la meglio sull’etica. Emerge un humus culturale in cui domina l’indifferenza, il relativismo e la convenienza.

La televisione e internet hanno dimostrato di essere non solo veicoli di messaggi, ma messaggi esse stesse, che modificano comportamenti e modi di pensiero, anche attraverso l’ossessiva narrazione di fatti di violenza, che attirano l’attenzione, dove addirittura il male non viene rifiutato, ma spettacolarizzato, e i carnefici, paradossalmente, suscitano interesse, diventando protagonisti e a volte stimolando persino l’emulazione.

La politica si lascia sedurre dall’idea di un potere che giustifica tutto e trasforma il reato in un’occasione di normale attività. Tutto questo non è solo rinuncia al dovere di contribuire alla crescita civile della società, tutto questo è violenza.

Violenza non è solo il delitto, violenza è l’esibizione del delitto, come se non fosse tale, violenza è la manipolazione delle informazioni, violenza è la limitazione della libertà altrui, è l’imposizione mediatica di modi e stili di vita.

I tempi che viviamo presentano aspetti contraddittori: da una parte sono nati strumenti privilegiati per la diffusione e l’approfondimento delle conoscenze; dall’altra parte si manifesta una perdita di coscienza del male.

L’innocenza del male

Innocenza del male non significa l’impunibilità del male, ma la non consapevolezza del male, nel momento in cui lo si compie. Qualsiasi comunità deve impedire che i propri membri ricevano danno e deve assumersi la responsabilità di rieducare chi sbaglia. Anche chi viene dichiarato incapace di intendere e di volere è messo nelle condizioni di non commettere altri reati. La società punisce il male, non si preoccupa di sapere perché si fa il male e non il bene. L’ignoranza del male è una colpa all’interno di una società. Ma la colpa è solo di chi commette il male?

 Se commettere il male significa non conoscere il bene, cioè non avere quel patrimonio di conoscenze che permette di distinguere tra bene e male, la colpa del male è sicuramente di chi lo commette, la responsabilità è certamente individuale, ma è anche del sistema sociale, dello Stato, della scuola e del sistema mediatico, quando non garantiscono a tutti la conoscenza del bene.

Arendt nel suo libro “La banalità del male”, arriva ad affermare che gli uomini non sono né perversi, né malvagi, ma normali, tutti possiamo compiere del male, nel momento in cui dimentichiamo la nostra coscienza. Chiunque può commettere il male banale e il bene ingenuo, cioè quel male e quel bene senza consapevolezza intellettuale e morale.

Volere e aspirare sono tutta l’essenza dell’uomo, il volere cela un bisogno, che a sua volta scaturisce dalla mancanza, che portata agli estremi può tramutarsi in sofferenza e generare il bene allo stesso modo del male. La malvagità dell’uomo è espressione della banalità del male, banalità come inconsapevolezza delle azioni.

Uno degli scrittori che ha maggiormente capito la tragicità dell’esistenza e la drammaticità del male è stato Dostoevskij. Egli scava nel mistero insondabile dell’animo umano mostrando un’umanità degradata. “L’Idiota” è un tentativo di sovvertire le tradizionali contrapposizioni tra bene e male, per affermare un nuovo principio, quello della compassione per il dolore del prossimo.

Il male è un deficit di empatia, che rende alcuni soggetti incapaci di capire la propria mente in termini di emozioni e sentimenti, di percepire l’altro e di sintonizzarsi sugli stati soggettivi di altri.

Roberta Monticelli, nel suo libro “Al di qua del bene e del male”, afferma che le cause di questo male dilagante risiedono nell’appiattimento dei valori.

Oggi siamo entrati nella complessa età dell’incertezza, dove affiora lo scetticismo e il senso di un fallimento esistenziale. È una società liquida come la definisce Bauman, in cui si sono liquefatti i legami affettivi, familiari e sociali. Vi è sfiducia nel futuro di questa civiltà, sfiducia nelle istituzioni, dalle scuole all’Università, agli ospedali e a tutti i livelli dell’organizzazione politica. Se le classi dirigenti paiono tanto mediocri, tanto incapaci di sollevare progetti di società, tanto prive di una visione del futuro e abituate ad attendere al proprio particolare, alla ricerca di consensi in cambio di favori e a governarci con il ricatto continuo delle emergenze, una parte di colpa è di sicuro nostra.

Perché il male?

È un interrogativo universale, poiché tutti soffrono. Nella Bibbia ebraica viene detto che nel giardino dell’Eden vi era un solo albero, l’Albero della vita, Adamo ne separò le radici dando origine all’Albero della conoscenza del bene e del male.

Il male è smarrire la strada giusta, perdersi.

 La sfida che il cristianesimo si trova ad affrontare è quella di dare una spiegazione logica alla presenza del male. Se Dio è buono, perché permette il male?

La spiegazione è il libero arbitrio. Se vi fosse solo il bene la vita sarebbe priva di valore della conquista. La consapevolezza implica che vi debbano essere necessariamente il bene e il male, ma anche la possibilità di scegliere tra i due, possibilità che chiamiamo libero arbitrio. Da dove ha origine il male?

Come mai l’uomo fa il male anziché il bene? Alla base della tradizione occidentale si ritrova una tensione tra due concezioni di male, come colpa e come destino.

 Il significato della sofferenza è nella punizione e questa ha la sua giustificazione nella colpa. Nell’aldilà la retribuzione del bene ai giusti e del male agli ingiusti ristabilirà l’armonia infranta in questo mondo. Diversa la concezione greca, per la quale il male ha a che fare con il senso del limite, con una necessità contro cui si infrange il volere degli uomini.

La vicenda di Giuseppe, nella Genesi, rappresenta in modo significativo l’assunzione di responsabilità. Suo padre Giacobbe, lo predilige rispetto agli altri undici figli.

Da parte sua, Giuseppe ostenta la sua superiorità. Tutto questo suscita nei suoi fratelli una gelosia tale che decidono di liberarsi di lui, vendendolo come schiavo.

Dopo molti anni, la carestia li spinge a cercare aiuto in Egitto, dove Giuseppe è diventato viceré, ma quando si presentano non lo riconoscono. Il fratello tradito potrebbe usare il suo potere in molti modi e invece agisce responsabilmente, su un piano materiale si fa carico delle necessità della famiglia d’origine, donandole il grano di cui ha bisogno; su quello relazionale, fa in modo che i suoi fratelli riconoscano il male compiuto. Senza un’ammissione di colpa, infatti, non è possibile assumersene la responsabilità, riscattandosi.

Giuseppe chiede ai fratelli di consegnargli il più piccolo dei figli di Giacobbe. Fino a quel momento, nessuno dei fratelli si era lasciato toccare dalle conseguenze della propria azione, ora però, la situazione rischia di ripetersi. Il figlio maggiore, divenuto capace di immedesimarsi con il dolore del padre, dichiara di essere disposto a viverlo in prima persona, espone al rischio i suoi familiari, offre suo figlio, pur di portare a compimento una missione che può salvare tutti.

Giuseppe rigenera fratellanza, suscitando il senso di responsabilità degli uni verso gli altri, che arriva a compimento quando ci si immedesima nel dolore altrui, al punto di farsene carico. I fratelli di Giuseppe hanno creduto di poter eludere la loro responsabilità, ponendo una distanza fra sé e il fratello, così come noi sperimentiamo il potere anestetico della distanza quando osserviamo le vicende del mondo attraverso uno schermo, senza esserne davvero toccati.

La responsabilità non è un dovere imposto dall’esterno, ma è la risposta a un’esigenza che riguarda l’individuo direttamente. Responsabilità e risposta hanno in comune la stessa radice: rispondere. Essere responsabili significa essere pronti a rispondere.

 L’amore viene a identificarsi con il concetto di cura e responsabilità.

La nostra società, però, non ha tempo e risorse per interrogarsi sulle proprie responsabilità, ma preferisce abdicare la propria funzione di gestione dei rapporti sociali, e riversa la responsabilità delle azioni dei suoi membri esclusivamente su di essi, fa di tutto per lasciare le persone libere di sbagliare, e poi si scatena contro chi sbaglia. La struttura della nostra società si regge sulla paura e sulle minacce, non sulla ricerca di condivisione, di cooperazione e di progresso, è una società dove i valori sono diventati evanescenti, una società basata sull’apparenza, dove cooperazione e collaborazione sono stati sostituiti da diffidenza e competizione.

La centralità del ruolo educativo

Dal punto di vista individuale si può affermare che è bene tutto ciò che soddisfa i propri desideri, producendo benessere, mentre, viceversa, è male tutto ciò che minaccia tale benessere. Dal punto di vista sociale rappresenta l’estremo opposto, comporta alcune rinunce personali, ma consente di vivere con l’orgoglio di essere generosi.

In una società diventa bene tutto ciò che è funzionale al rispetto delle sue regole e usanze. Il terzo livello è quello dell’umanità intera; il bene e il male assumono un valore soggettivo, senza più distinzioni tra individui. È bene tutto ciò che è funzionale allo sviluppo e alla conservazione della specie umana.

 In realtà è l’uomo che fa il bene o il male, con la responsabilità assoluta che gli viene dal libero arbitrio.

In” Al di là del bene e del male”, Nietzsche esprime l’auspicio che sopraggiunga una società nuova, in cui gli uomini possano liberarsi dai vincoli morali ed elevarsi al di sopra della massa. Tutti nella quotidianità viviamo di valori, come stabilire che una cosa è giusta o buona? Fornendo una motivazione o una giustificazione per qualsiasi giudizio di valore.

La giustificazione di un giudizio affonda le sue radici nel sentire dell’individuo, è possibile, ad esempio, affermare che le guerre sono moralmente illecite dal momento che sono sentite come tali. Nietzsche afferma che sono gli uomini a proiettare sul fatto le proprie opinioni in maniera arbitraria e soggettiva.

Compito della ragione è trovare un valido fondamento al giudizio di valore, è grazie alla ragione che si possono individuare motivazioni razionali che giustificano il giudizio fondato sul sentire personale. Con la ragione si passa dalla dimensione individuale a quella universale. Il nostro sentire non è infallibile, né innato o precostituito, al contrario, è il frutto di un lungo percorso, è un processo in continua formazione, e costantemente arricchito dal nostro vissuto. E soprattutto si può rieducare.

 La realtà che ci circonda è carica di valori, che tuttavia sono difficili da individuare: bene e male non sono entità nette, ma si declinano negli atti del quotidiano in maniera incerta e imperfetta. È fondamentale compiere un percorso tutto interiore di riflessione e approfondimento, senza subordinare il nostro sentire all’opinione comune.

Educare il sentire significa intraprendere un continuo percorso di autoanalisi e di esplorazione della realtà, di questa realtà intricata e confusa, fatta di valori che si mescolano e si declinano in mille modi diversi.

La conoscenza è soggetta a errori e illusioni, tenere conto dell’errore significa acquisire la capacità di sottoporre a pensiero critico tutte le informazioni che continuamente ci pervengono, acquisire una naturale abitudine a mettere in discussione anche le conoscenze che sembrano ormai consolidate.

 Nella società odierna, l’uomo viene emancipato nel definire da sé cosa è bene e cosa è male, non ci si è resi conto che la ragione soggettiva non può essere scissa dalla ragione oggettiva. Il progressivo abbandono della ragione oggettiva fa sì che i concetti di giustizia, uguaglianza, legalità hanno perso le loro radici intellettuali.

 La visione moderna della razionalità, oltre a non contemplare la presenza di aspetti emotivi, è focalizzata su interessi individuali e collettivi. È una società che offre all’uomo molte opportunità, ma esse sono spesso un mezzo, i fini sembrano oscillare tra il materiale e l’immateriale: è questa la perdita di punti di riferimento.

Nel mondo globale e consumistico attuale è il mercato l’attore principale che ci offre soluzioni: un mercato che, oltre a soddisfare i bisogni li crea.

Il mercato detiene un interesse egoistico, affinché i bisogni siano gli stessi per tutti e soprattutto siano sempre di più. L’uomo ridotto a parte passiva, fa ricorso all’imitazione di modelli che gli si pongono davanti. Deve adattarsi e imitare, perché in caso contrario esce dalla logica razionale dettata dalla società stessa.

Il mercato, con tutte le sue proposte va in maniera effimera a colmare un vuoto, vuoto che ha investito anche concetti quali verità, pensiero, giustizia e la stessa felicità, visti in funzione dell’utilità razionale soggettiva. In quest’ottica bene e male hanno perso la connotazione più alta, diventando termini privi di significato. È bene tutto ciò che permette di avanzare nel percorso della vita, è male tutto ciò lo ostacola.

L’uomo ha progressivamente abbandonato gli ideali che vengono adattati e asserviti. Se un tempo bene e male avevano una loro rappresentazione chiara e univoca, oggi rientrano nel calderone della razionalità. Alla logica razionale l’uomo può adattarsi o ribellarsi. Bisogna sostenere e fare emergere il sentimento di appartenenza ad una comunità, non può esserci progresso nelle relazioni senza reciproca comprensione e la comprensione dell’altro è influenzata da quella che è la comprensione di noi stessi. L’uomo dovrebbe mettere in discussione le sue convinzioni e i suoi valori, iniziando da sé stesso.

Occorre trovare il giusto equilibrio tra il riconoscere nell’uomo le sue potenzialità, dandogli l’opportunità di esprimerle, e allo stesso tempo non sgravarlo delle sue responsabilità. Si delinea la necessità di orientare gli sforzi per il futuro in direzione di ri-umanizzazione dell’umano che faccia leva sull’educazione.

Messo di fronte alla sua limitatezza e alla sua fragilità, l’uomo dovrà, dunque, dotarsi di un nuovo spirito.

La scuola dovrebbe dare il suo concreto contributo alla formazione di questo spirito nuovo, ha la responsabilità di prendere in carico degli esseri umani e di aiutarli ad inserirsi nell’ambiente in cui vivono. Non è sufficiente possedere conoscenze se non c’è integrazione tra le conoscenze, in grado di indirizzare i comportamenti.

 La scuola non aiuta a esprimere liberamente le potenzialità degli studenti, non li rende consapevoli delle contraddizioni, non contribuisce a costruire uno sguardo critico sul mondo.

 Il vero apprendimento è quello che coinvolge, che rende partecipi, che spinge a prendere posizione, a costruire un proprio punto di vista. La scuola, oggi, sembra impotente e inadeguata di fronte ai tanti problemi di carattere sociale. Per rispondere a tale compito c’è bisogno di una scuola che non deleghi ad altri il suo ruolo di educare.

Educare significa esaminare ciò che viene proposto e acquisire una libertà che porti all’autorealizzazione. L’educazione è questo processo di liberazione, che permette di sviluppare un pensiero critico, autonomo, non asservito ai condizionamenti, in grado di discernere tra il bene e il male.

Anche la famiglia dovrebbe riscoprire quell’autorevolezza genitoriale che sappia guidare i figli attraverso percorsi alternativi rispetto a quelli imposti da ciò che il mercato considera valori unici da perseguire e a cui conformarsi.

In quest’epoca incline all’omologazione occorre trasmettere alle generazioni più giovani i valori dell’autonomia e dell’individualità.

 Nella vita reale, i ragazzi sono sempre più soli, depressi, incapaci di empatia e privi degli strumenti con cui allacciare relazioni concrete e profonde con gli altri esseri umani.

Alla base di quello che Ercolani nel suo libro “Figli di un io minore”, definisce analfabetismo relazionale, c’è una dimensione di solitudini comunicanti, in cui i ragazzi vivono sempre più connessioni e sempre meno relazioni.

Bisognerebbe educare persone in grado di elaborare e gestire il vasto campo dei sentimenti, dell’affettività e delle capacità relazionali, ripristinare una cultura del sentire la vita reale, piuttosto che guardare quella virtuale. Quanto meno si comprendono i sentimenti degli altri, tanto più facile è agire in modo inappropriato.

Si rivela fondamentale contrastare con un’educazione specifica le interazioni superficiali.

La superficialità, l’aggressività, l’impoverimento sentimentale vanno combattuti attraverso un’operazione culturale di ri-alfabetizzazione relazionale, riscoprendo una società abitata da individui in grado di sviluppare empatia.

Diventa, così, fondamentale una rivalutazione della centralità dello Stato nella costruzione di una società che veda l’essere umano e i suoi bisogni al centro di ogni azione, uno stato che non sia inteso come sistema assistenziale, ma guida dell’economia, uno stato che dovrebbe formare dei cittadini in possesso di conoscenze tali da rendere consapevole l’espressione del proprio consenso.

Bibliografia

H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna,1987.

H. Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, 1961.

H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, 2019.

P. Ercolani, Figli di un io minore. Dalla società aperta alla società ottusa, Marsilio Editore, 2019.

E. Lèvinas Il Pensiero dell’altro, Lavoro, Roma, 1999.

E. Lèvinas, Totalità e infinito, Saggio sull’esteriorità, Jaka Book, Milano, 1996.

M. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Il Mulino, Bologna, 2011.

F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Rizzoli, 1992.

Stein E. L’empatia, Milano, Franco Angeli, 1985.

Kant I. Metafisica dei costumi, Milano, 2006.

Kant I. Antropologia pragmatica, Roma- Bari, Laterza, 1985.

1 thoughts on “La vulnerabilità del bene e del male

  1. Non può che essere logorroica la filosofia, visto che nulla deve spiegare, e men che meno che siano il bene ed il male. Umane convenzioni tese a cercare di garantire una decente convivenza. Poi i costruttori di idee ne fanno altro, ché meglio garantisce l’ideologia rispetto all’utilità – poco nobile e troppo terra-terra.

    Un saluto

Lascia un commento