
Quando parla di finitudine[1], Telmo Pievani – scienziato e filosofo al tempo stesso, lombardo di nascita, newyorkese di formazione, padovano di adozione – sembra voler fare riferimento a quella stessa caducità cui si riferiva Giacomo Leopardi, per esempio nel lamento in cui sospira … e fieramente mi si stringe il core / a pensar come tutto al mondo passa … (La sera del dì di festa), o quando confessa … io mi metteva a piangere la sorte umana e la miseria del mondo (Zibaldone). La finitudine, dice Pievani, è il trionfo delle tiranniche leggi della termodinamica. È l’ineludibile trionfo del disordine sull’ordine. È il progresso estremo (o la regressione) della materia verso quel nulla quasi circolare, da cui tutto sembra essere emerso e in cui tutto sembra concludersi, e attorno al quale tanto inutilmente si arrabattano i fisici per capire che fine farà tutta quanta la materia.
Ma il tema vero attorno al quale si dipana il pensiero di Pievani non è la finitudine in sé. Di questa, dice Pievani, bisogna che ce ne facciamo, razionalmente, una ragione. Non c’è via di scampo. La finitudine è la contidio sine qua non, è il framework esistenziale, in cui si colloca il tema veramente centrale: quello del senso, vale a dire al significato del tutto e del particolare, e in questo tutto e in questo particolare, la vita: la vita ovunque si sia sviluppata, la vita di ogni specie e di ogni essere e, in primis, la vita di ciascuno di noi. Dov’è il senso, dunque, se tutto è destinato a finire?
Quando diciamo senso, volendo alludere al significato, abbiamo sempre in mente una traiettoria che va dal passato al futuro, dove c’è qualcosa che succede a qualcos’altro, e ne è la conseguenza. C’è una logica intrinseca nell’esserci un prima seguito da un poi. Questa logica porta a un fine, e noi volgiamo che questo fine corrisponda a uno scopo, non a una fine tout court. La finitudine di Pievani richiama alla mente un brano di un racconto di Vladimir Nabokov (Natale, 1925), da cui emerge nuda e cruda l’insensatezza del vivere: … davanti a lui c’era la vita terrena, messa assolutamente a nudo e assolutamente comprensibile, atroce nella sua tristezza, umiliante nella sua insensatezza…. Il vero tema dunque, nella finitudine o nella leopardiana caducità, resta quello del senso.
Proprio su queste pagine, Gabriella Putignano ha pubblicato un’interessante recensione del saggio di Telmo Pievani (Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà https://filosofiaenuovisentieri.com/2021/09/22/finitudine-un-romanzo-filosofico-su-fragilita-e-liberta-di-telmo-pievani/). La sua recensione accompagna bene e sostiene da vicino il pensiero dell’autore, del quale io stesso condivido molte cose, in primis la tesi epistemologica contraria alla sacralizzazione spenceriana del progresso, sacralizzazione che ha dominato l’epistemologia otto-novecentesca. A questa, l’autore contrappone l’idea che la vita, più che essere dotata di una intrinseca propensione al progresso, sia semplicemente il risultato di una lotta tra progresso e conservazione, tra ordine e disordine, una lotta destinata però a concludersi con la vittoria delle forze dell’entropia. A mio parere, viene però data poca rilevanza a uno dei momenti centrali del ragionamento di Pievani, vale a dire al fatto che la mente umana possiede una intrinseca propensione a “trovare un senso purchessia, un senso coerente con le nostre presupposizioni” (p. 24). Il tema del senso (del significato che attribuiamo alle cose e alla vita) è dunque centrale. E di nuovo ci viene in aiuto Nabokov, quando al personaggio di un suo racconto fa dire: “… io ero per mio conto e il mondo era per suo conto, e quel mondo era privo di senso … un mero qualcosa che passava oltre, allontanandosi” (Terrore, 1926). Ma Pievani, giustamente, va oltre a quello che possiamo chiamare “il senso in sé”. La mente umana si è evoluta in modo sofisticato perché va alla ricerca di un senso “coerente con le nostre presupposizioni”, vale a dire coerente col framework culturale – fatto di credenze e convinzioni – socialmente costruito attorno a ciascun individuo.
Fin qui tutto bene, e quando dico “tutto bene” intendo dire che non vedo una piega nel ragionamento di Pievani. Ma ecco che, proprio a questo punto, nel suo ragionamento intravedo quella che mi sembra una crepa, o meglio, una direzione che non mi aspettavo. Mi sorprendo e mi turbo.
Concordo con Pievani quando mette in stretta correlazione il senso che attribuiamo alle cose e le “nostre presupposizioni”. Egli correla le due cose da filosofo e da scienziato cognitivo, e il suo atteggiamento critico rispetto a questa nostra caratteristica sembra preludere all’intenzione di andare oltre, tentando di superare in senso più universalistico il vincolo delle “presupposizioni soggettive”. Invece, attenendosi da bravo scienziato ai fatti, non lo fa. Argomentando giustamente per decostruire tutta una serie di comportamenti (anche assurdi) che gli uomini (coerentemente con le loro presupposizioni) mettono in atto per arginare il proprio senso di finitudine, egli stesso finisce per trovare un senso coerente con le sue proprie presupposizioni. Mentre desacralizza l’idea di progresso con tutti i vicoli ciechi cui questo conduce, egli stesso – attraverso un itinerario radicalmente laico – arriva alla fine ad esorcizzare il senso d’angoscia associato alla finitudine attraverso la sacralizzazione di valori etici – un senso del bene e del male, dunque – “coerenti con le sue presupposizioni”, e quindi in qualche modo arbitrari. Il senso, che egli intravede e legittimamente persegue, porta a un sentiero fatto di azioni da compiere nel presente e coerenti con la realizzazione di umanesimo solidale e libertario. Il “senso in sé” sarebbe dunque quello di non sprecare nemmeno un secondo di quell’occasione unica che ci è stata offerta dal caso per brillare, almeno per un attimo, come un meteorite che attraversa un tutto destinato a diventare nulla. Il “senso coerente con le presupposizioni” poggia invece su un preesistente o precostruito senso del bene o del male, culturalmente acquisito.
Questi due sensi finalmente trovati, il “senso in sé” e quello “coerente con le presupposizioni”, giungono dopo numerose e condivisibili premesse logiche, filosofiche e cognitive riguardanti la natura umana, riassumibili da poche righe estratte dal saggio: “Siamo effimeri cercatori di senso” … “Cosa può esserci di più commuovente di un cercatore di senso che capisce che non c’è alcun senso?” … “Vogliamo essere necessari, inevitabili, scolpiti da sempre nell’ordine delle cose” … “Interpretare la realtà in termini di progetti, finalità, teleologie e intenzioni è un adattamento tipico della mente di Homo sapiens”.
Quella di Pievani è una vera e propria escatologia, dove il destino dell’individuo e dell’intero genere umano si declina attraverso la ricerca di un senso che, in tutta la sua abominevole e agghiacciante assenza, si rivela invece essere assolutamente necessario, tanto da dovere essere costruito come base e giustificazione dell’agire umano.
“Solo noi possiamo dare un senso alla finitudine”, conclude Pievani, “quel senso non potrà che essere morale … e non potrà che appartenere alla sfera della nostra libertà … Gli ideali di giustizia e libertà, su tutti, trascendono l’individuo al punto da giustificarne, se è il caso, il sacrificio” (p. 242-3).
Purtroppo, devo concludere, negli gli ultimi due capitoli il bel saggio di Pievani – per metà scientifico e per metà filosofico, e ben costruito attraverso un godibile artificio letterario – si trasforma a mio parere in un deludente sermone laico, per esempio là dove il senso viene trovato “nel dovere di compiere azioni che possano compensare il male”, o “nella sacralizzazione estrema della vita come valore assoluto”, o dove si afferma che “la finitudine ci rende solidali … ci rende liberi … e bisogna vivere all’altezza della nostra grandezza”. (p. 262).
Si dice, ed è vero, che invecchiando anche gli scienziati tendano a trasformarsi in filosofi e che cerchino di trovare verità che siano più universali e durature di quelle provvisorie di cui è costituita la scienza. Rispetto ai precedenti saggi di Pievani, qui mi pare di intravedere nell’autore una crescente propensione alla filosofia. Nel suo caso, però, non credo sia ancora una questione di età (è troppo presto), ma sia piuttosto l’urgenza di potersi districare tra maglie meno ineluttabili di quelle provviste dalla scienza.
Piero Borzini, alle spalle una carriera ospedaliera dedicata all’immunologia, al trapianto, alla terapia rigenerativa. Da una ventina d’anni si dedica ad argomenti all’interfaccia tra scienze biomediche, epistemologia, sociologia, antropologia, linguistica, evoluzione biologica e culturale. Su questi temi ha pubblicato alcuni saggi. Collabora saltuariamente con Methodologia-on-line e con la rivista PaginaUno. Tiene un blog (doveosanolegalline) dedicato ai rapporti tra scienza e società: https://doveosanolegalline.blogspot.com/
[1] Telmo Pievani. Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà. Raffaello Cortina Editore, 2020.