Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

“Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà” di Telmo Pievani

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Il filosofo evoluzionista Telmo Pievani prende spunto nel suo libro Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà (Raffaello Cortina Editore, Milano 2020) da un espediente letterario: immagina che Albert Camus non sia morto nell’incidente stradale del 1960 e che si trovi ricoverato al Centre Hospitalier di Fontainebleau, dove va a fargli regolare visita l’amico Jacques Monod, il quale gli porta le bozze di un libro che stanno scrivendo insieme, con Lucrezio come suo nume. Così Finitudine alterna e intreccia due piani narrativi: il primo, quello dell’esposizione teoretica data dalla lettura delle bozze del succitato (e immaginario) libro; il secondo, quello del dialogo diretto e intenso fra i due pensatori.

L’assunto filosofico di fondo è il seguente: la finitudine è la verità radicale, aprioristica e insopprimibile di tutto ciò che è. Tutto si evolve e si dissolve come dentro una “tirannia termodinamica”. La caducità – scrive Pievani – è un sasso nello stagno le cui onde si allargano sempre più: noi siamo la schiuma insignificante di queste onde, appartenenti a una specie biologica che si estinguerà, vaganti in un pianeta che sarà inghiottito dal suo Sole che, a sua volta, esploderà.

Tale schiacciante finitudine ci urta, poiché pretendiamo di essere enti necessari, scolpiti in un ordine armonico e teleologico. Ecco allora che tentiamo di rimuoverla, la finitudine, aggrappandoci a illusioni consolatorie e securizzanti. Interpretiamo la realtà secondo disegni provvidenziali e finalistici in grado di offrirci una regale visione antropocentrica. Ma l’errore di prospettiva consiste proprio nel centralizzare la nostra prospettiva, nel ritenere l’universo un orologio sintonizzato sul nostro fuso orario. È esattamente il contrario, scrive Pievani: è la nostra coscienza a discendere da un lungo processo evolutivo di sintonizzazione con la realtà.

Diversamente, cerchiamo di sfidare la finitudine grazie alla tecnica, con tutta una serie di tentativi che vengono accuratamente vagliati dall’autore. Ne consideriamo due: l’uno, quello di clonare il cervello in circuiti digitali, il secondo volto a creare copie genetiche di noi stessi estraendo il DNA ben conservato dai cadaveri congelati per trasferirlo in una cellula uovo umana. Entrambe le opzioni cadono in un errore similare: non colgono la singolarità irriducibile del nostro io. Nessuna copia genetica o nessun facsimile informatico di cervello potrà sostituirci, soppiantare l’unicità di un soggetto plasmato dall’ambiente e dalla trama dell’esperienza (si veda, per comprendere questa tematica anche da un punto di vista filmico, l’episodio Torna da me della serie Black Mirror).   

Non ci può neppure salvare un’idea laica di immortalità: trovare senso in un cammino collettivo di emancipazione del genere umano. Troppo spesso questa idea cade in una divinizzazione del Progresso, ovvero in una crescita produttivistica illimitata a dispetto di qualunque limite, umano e planetario. La divinizzazione del Progresso sconfina nell’idolatria asservente della Storia, resa un feticcio progressista che fagocita le singole e concrete volontà umane e “frulla” la loro autonoma eterodossia. L’evoluzione non è affatto una legge necessaria nel cammino storico, semmai lo è la conservazione (e l’evoluzione, quando accade, è una perturbazione creativa di siffatta conservazione); la storia è piuttosto irta di contraddizioni, di fragilità nelle quali il bacillo della Peste è sempre pronto a riesplodere.

V’è infine un’ultima, interessante ipotesi da esaminare, un possibile residuo d’immortalità: gli atomi e il vuoto. Siamo, sì, polvere e ombra, ma ombra e polvere generative. La morte non sarebbe, cioè, onnipotente ed assoluta, lo sarebbe il cambiamento, un ciclo eterno e palingenetico di aggregazioni e disgregazioni. Ma questo implica rinunciare al proprio io personale, trascenderlo cogliendone tutta la sua illusorietà e irrilevanza.

Pievani non aspira a questa immortalità, cerca di scrutare la finitudine da un’altra prospettiva in grado di schiudere preziose virtù etiche. “Dalla finitudine, il senso di un’irripetibile opportunità” – scrive il Nostro. Si prende, infatti, consapevolezza che, proprio perché finita, l’esistenza è un’occasione unica, un’avventura da non sciupare che ci pertiene integralmente e di cui siamo immensamente responsabili. Liberarci da ipostasi divine e trascendenti, scardinarci da una posizione privilegiata nel cosmo non ci consegna dunque ad alcun nichilismo etico ove ad aver la meglio sarebbe la legge del più forte e del più furbo. Al contrario, la prospettiva della responsabilità inderogabile esistenziale sgonfia il nostro ego da qualunque progetto di ipertrofica assolutizzazione, lo apre a un sentiero di umanismo solidale e libertario. È male, difatti, ogni atto che riduca l’alterità a cosa, ne faccia oggetto intercambiabile spezzandone la sua inviolabilità.

La finitudine, sostanza dell’esistenza, diviene così, affermava Nicola Abbagnano, norma dell’esistenza, interiorizzazione ed esteriorizzazione profonda del principio-relazione da cui s’innalzano le virtù etiche della generosità, dell’altruismo, della fraternizzazione.

Comprendere questo non ci salva, ça va sans dire, dall’essere enti perituri e corruttibili. La libertà nell’assurdo è e rimane inquieta, irrisolta, inconciliata. Eppure proprio l’inquietudine del cuore – lo sapevano bene Albert Camus e Jacques Monod – costituisce l’alimento necessario, la linfa vitale tanto della filosofia quanto della scienza.

* Gabriella Putignano (Bari, 1987) insegna Filosofia e Storia nei licei. Tra le sue pubblicazioni: L’esistenza al bivio. La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter (Stamen, Roma 2015), Quel che resta di Raoul Vaneigem (Petite Plaisance, Pistoia 2016), Flash di poesia, dipinti di versi (Petite Plaisance, Pistoia 2019), nonché numerosi articoli su rivista e saggi brevi in volumi collettanei nei quali ha trattato il pensiero di Giuseppe Rensi, Aldo Capitini, Albert Camus, Henrik Ibsen, Mark Fisher, Franco “Bifo” Berardi, Arthur Schopenhauer. Ha, inoltre, curato i libri Cantautorato & Filosofia. Un (In)Canto possibile (Petite Plaisance, Pistoia 2017) e Filosofare dal basso (Sentieri Meridiani, Foggia 2015).

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