Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Le Afriche di Marinetti – Un saggio di Milena Contini

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Le Afriche di Marinetti – Viaggio nelle pagine africane del “barbaro” futurista profuma ancora di inchiostro. Milena Contini, che insegna letteratura italiana all’Università di Torino, l’ha pubblicato or ora per i tipi di Aracne (Roma, luglio 2020).

Ad eccezione di un breve periodo (1920-1924) di critica al fascismo, considerato un regime “passatista” e compromesso con la borghesia liberale, Filippo Tommaso Marinetti, aderì caldamente al Partito Fascista, indossandolo come un abito che, col passare degli anni, cadeva sempre meglio sulle sue spalle. Marinetti si autodefiniva “sansepolcrino” poiché aveva partecipato da protagonista all’atto di fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento che si erano costituiti a Milano il 23 marzo 1919 durante una adunata tenutasi in piazza San Sepolcro. Questa sua adesione al Partito Fascista fa sì che su nome di Marinetti sia tuttora presente un’etichetta con scritto a chiare lettere, giustamente, “maneggiare con cautela”. Milena Contini riesce nell’impresa in modo egregio: maneggia Marinetti con la dovuta cautela ma scava con grande autorevolezza tanto nel personaggio che nella sua sterminata produzione letteraria, drammaturgica e pubblicistica. Basti pensare che per esplorare l’Africa (le Afriche) declinata da Marinetti, essa esplora oltre cento (centodieci per l’esattezza) tra opere e articoli dell’autore futurista.

A chi, come me, ha frequentato il liceo negli anni sessanta, la scuola ha insegnato ben poco di Marinetti. Erano anni ancora troppo vicini alla caduta del regime per poter parlare serenamente della cultura di quel periodo, soprattutto se gli esponenti di quella cultura sostenevano, ciascuno con le proprie sfumature, l’ideologia fascista. Ciò vale non soltanto per Marinetti, ma anche per altri grandi artisti, come il pittore Giacomo Balla e Umberto Boccioni, straordinario scultore. A scuola imparammo solo della loro appartenenza a un movimento d’avanguardia, quello futurista, che avrebbe avuto importanti conseguenze nel panorama artistico europeo. Delle arti figurative e dei loro innovativi linguaggi qualche esempio ci fu mostrato, ma sull’arte letteraria, quella della parola, fu steso un pudico velo poiché la parola, quella di Marinetti in particolare, era un veicolo troppo esplicito di violenza. Una violenza che non era solamente rivoluzionaria ma aveva anche la parvenza di una violenza per la violenza, tale da assurgere a dichiarazione politica, estetica e filosofica.

Per quanto riguarda Marinetti, a scuola ci fu negata ogni possibilità di prendere un contatto diretto, fisico oltre che intellettuale, con le vette espressive e poetiche dell’autore futurista. Fummo istruiti sulle innovazioni dell’espressione linguistica, drammaturgica e artistica introdotte da Marinetti. Tra queste, l’aver “liberato” le parole dalle stantie e “passatiste” regole grammaticali e sintattiche a favore dell’immediatezza simbolica e della vitalità espressiva. Tuttavia ci fu precluso qualunque contatto col testo. Come spiegare agli adolescenti che eravamo che quel nuovo lirismo fatto di immagini geniali quanto crude, fatto di inimmaginabili metafore, ricco di colori, di odori e di sapori andava a braccetto ed era tutt’uno con una quasi delirante idolatria della violenza, della guerra e del fascismo? Come spigare, “ex catedra” che Marinetti intendeva liberare il mondo dalla “fetida cancrena di professori, di archeologi, di ciceroni, di antiquari”? Come spiegare che quella rivoluzione linguistica ed espressiva destinata a sedimentarsi in tutta l’arte del Novecento creava anche i presupposti perché si realizzassero nuove stucchevoli retoriche dal sapore fastidiosamente reazionario? Impossibile insegnare tutto ciò a degli imberbi ragazzotti. Era più semplice stendere un velo di silenzio e, a conti fatti, assieme all’acqua sporca è stato buttato via anche il bambino.

Milena Contini strappa questo velo e ci mostra tutto. Lo fa con stile e con la fredda professionalità del caso, senza per questo negarsi e negarci il piacere talora esplosivo delle vette espressive del poeta. Lo fa prendendo le dovute distanze ma senza reticenze, mostrandoci Marinetti nella sua più totale nudità. La sua più alta poetica assieme agli abissi più turpi. Ci mostra come la biografia si mescoli inscindibilmente con l’arte, come la psicologia si intrecci col vissuto, come le espressioni si intreccino con le filosofie soggiacenti, portino queste il nome di Henri Bergson, di Georges Sorel o di Friedrich Nietzsche.

Marinetti nacque in Africa, ad Alessandria d’Egitto, dove viveva una consistente e operosa comunità italiana. Ci visse a lungo, fino alla tarda adolescenza, imparando il francese e l’arabo, con tanto di espressioni gergali popolari. L’Africa vissuta da adolescente riempirà le sue vene con le sensazioni estreme che, a quell’età, il mare, la sabbia, il sole, i profumi, gli odori, le storie e i miti possono dare a un ragazzo. Tutto ciò gli apparterrà per sempre e uscirà a fiotti nelle sue opere. Trasferitosi in Europa, in Francia e in Italia, tornerà più volte in Africa, come giornalista e come combattente, approfondendo sempre più il suo intimo rapporto col continente africano assorbendo altri odori, altri sapori, altri miti. Tutto ciò costituirà un archivio di memorie che conserverà vive nel fisico oltre che nell’intelletto. Milena Contini estrae, ad una ad una, queste memorie dagli scritti del poeta futurista e le accompagna, parafrasandole a dovere, con la sua voce narrante. Chi legge finisce col rimanere sommerso da un profluvio di espressioni, immagini, metafore fulminanti, ma anche di colori, odori, sapori che escono quasi vivi (ma talora anche morti e putrefatti) da quella penna geniale.

Se ne ricava un’immagine di un’intellettuale raffinatissimo e nel contempo ripugnante. Ci si domanda (parlo per me) come riescano a coesistere nella stessa persona le più elevate raffinatezze linguistiche, espressive e poetiche, con le peggiori bassezze. Un divino poeta che non esista a mescolarsi con la feccia del fascismo più bieco e che riesce a coniugare le vette poetiche con la peggior misoginia e il maschilismo più spietati, con una ossessione sessuale va ben oltre i livelli della patologia e con una altrettanto patologica ossessione per la crudeltà, il sangue, l’antropofagia, sbudellamenti, evirazioni, fallofagia et simila.

Leggendo queste pagine viene spesso da pensare alla natura umana e a come in questo strano animale la sostanza del bello si mescoli con la più infima sostanza del male, del brutto, dell’osceno. Le due sostanze si mescolano ma non si fondono. Nell’intelletto dell’uomo, il bello e il brutto non si miscelano come i colori che, mescolati tra loro danno luogo a un mediocre colore intermedio. Si mescolano piuttosto come un conglomerato di pietre, nel quale ogni pietra resta quello che è e dal quale se ne può estrarre a piacimento l’una o l’altra. È così che nello stesso individuo coesistono il bene e il male, il bello e il brutto, il divino e il satanico. Marinetti non provava remore ad accostare, in una sola riga, il divino e l’osceno.

Viene anche da pensare (continuo a parlare per me) che il divino e l’osceno siano categorie mentali cui ciascuno di noi dà il peso e il valore morale che vuole. Ognuno di noi si dà una scala mentale su cui dispone i propri valori: diciamo che pongo a cento il massimo del bello e a zero il massimo del brutto (l’osceno). La scala dei valori (che corrisponde in fondo a una scala dei voleri o dei desideri) non è universale, uguale per tutti. Quel che per me, per le mie esperienze, la mia educazione, i miei desideri, si colloca, diciamo, sul dieci, per altri – portatori di altre esperienze, educazione e desideri – può collocarsi, diciamo, sul settanta. Su scale metriche identiche, i valori pesati sulle singole scale individuali di ciascuno sono incommensurabili. Pertanto, i giudizi etici e quelli estetici non vanno presi con eccessiva rigidità ma neanche con eccessiva rilassatezza. E questo vale anche per il giudizio che si vuol dare a un poeta e a un uomo come Marinetti.

André Gide lo definì un vanesio. Giudizio tranchant sul quale si può convenire, ma nel poeta futurista c’è senz’altro di più, molto di più.

Un’opera che dall’argomento specifico porta il pensiero del lettore a indagare sul tema particolare ma invita anche a viaggiare lontano è un’opera che val la pena di essere letta. Le Afriche di Marinetti è una di queste.   

* Piero Borzini (1950), alle spalle una carriera ospedaliera dedicata all’immunologia, al trapianto, alla terapia rigenerativa. Da una ventina d’anni si dedica ad argomenti all’interfaccia tra scienze biomediche, epistemologia, sociologia, antropologia, linguistica, evoluzione biologica e culturale. Su questi temi ha pubblicato alcuni saggi. Collabora saltuariamente con Methodologia-on-line e con la rivista PaginaUno. Tiene un blog (doveosanolegalline) dedicato ai rapporti tra scienza e società: https://doveosanolegalline.blogspot.com/

Autore: Piero Borzini

Piero Borzini, alle spalle una carriera ospedaliera dedicata all’immunologia, al trapianto, alla terapia rigenerativa. Da una ventina d’anni si dedica ad argomenti all’interfaccia tra scienze biomediche, epistemologia, sociologia, antropologia, linguistica, evoluzione biologica e culturale. Su questi temi ha pubblicato alcuni saggi. Collabora saltuariamente con Methodologia-on-line e con la rivista PaginaUno. Tiene un blog (doveosanolegalline) dedicato ai rapporti tra scienza e società: https://doveosanolegalline.blogspot.com/

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