Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot


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La solitudine tra colpa e destino: il caso Kafka

> di Massimo Carloni*

Non mi aspetto più niente dalla vita

se non una sequenza di fogli di carta da scarabocchiare di nero.

Mi sembra di attraversare una solitudine senza fine,

per andare non so dove. E sono io che sono nello stesso tempo il deserto,

il viaggiatore, e il cammello!

FLAUBERT [1]

  1. Il gioco delle carte e l’isola di Robinson

L’opera cresce ai margini della vita, sulle sue rovine, nell’ «eterna tortura del morire»[2]. Essa emana dall’ombra, dal limbo di chi non è, né tanto meno aspira ad essere. La solitudine ne è la scaturigine. Il demone della scrittura sceglie il deserto, si nutre di negativo, d’assenza, di vuoto, per forgiare e distruggere il mondo nel fuoco della creazione, fino ad innalzarlo «nel puro, nel vero, nell’immutabile».[3]

Nel corso della sua vita Kafka ha percorso una terra di confine, fra «la solitudine e la società»[4]. Landa desolata, popolata di fantasmi, dove la tenebra sconfina nel giorno diventando luce, e la luce si fa tenebra; in cui la realtà stessa è continuamente minacciata, dilaniata dal sogno. In questa notte dell’anima si consuma per Kafka il dramma dell’esitazione, della lacerazione tra due imperativi categorici. Quello interiore della vocazione letteraria, lo isola proteggendolo dagli assalti terrificanti della vita; quello esteriore, rappresentato dall’implacabile universalità della Legge, lo spinge verso i doveri sociali di produrre e procreare, ossia: lavoro, matrimonio e, naturalmente, discendenza. Quando raramente varcherà quella frontiera, tentando di metter radici nello spazio della vita comune, se ne ritrarrà disgustato, annoiato, col rimpianto del tempo sottratto all’unico universo che conta: quello della scrittura[5]. Continua a leggere


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Il marchio di K. – Il processo tra moderna tragedia e sacra rappresentazione

> di Luca Ormelli

franz-kafka1[2]

«Non si deve prendere tutto per vero, si deve prenderlo solo per necessario»

[F. Kafka, Il processo, Garzanti, Milano, 1984, p. 181].

Quando Kafka scrive Il processo (1914-1915) Rosenzweig deve ancora dare alle stampe La stella della redenzione (1921); tra questi due estremi temporali la gemeinschaft mitteleuropea, salda sotto il tallone dispoticamente illuminato della monarchia absburgica, si sta irreparabilmente sgretolando dando fiato potente alle petizioni di Herzl e di chi, in seno alle medesime comunità ebraiche, condanna l’assimilazione dei figli di Giacobbe alla kultur occidentale e, più propriamente, cristiana. Scrive Ferruccio Masini nella sua sorvegliata “Introduzione” all’edizione citata de Il processo: «è proprio […] la presenza di questo nostro tempo (“il mio tempo”, dirà Kafka, “cui mi sento molto vicino, e che non ho il diritto di combattere ma, in un certo senso, di rappresentare”) nell’opera dello scrittore a radicalizzare, in una sorta di ‘cabbala’ individuale a sfondo nichilista, quegli elementi antirestaurativi e paradossali della tradizione cabbalistico-chassidica per i quali lo stesso avvento del Messia [yichud, nota di chi scrive] è legato a condizioni impossibili, al giorno, cioè – come si legge in una citazione benjaminiana dallo Zohar – in cui tutte le lacrime di Esaù si saranno disseccate. Per questo l’allegoria nichilista dei racconti kafkiani non adombra il divino “nulla originario” (ajin gamur) dei cabbalisti, identificato con la stessa infinità di Dio (En-sof, sic), né quello dell’eckhartiano “fondamento senza fondamento”, ma un sortilegio nullificante immanente alla stessa quotidianità. Oltre la precarietà del possesso di un mondo di cose […] questo nulla intacca ogni possibile fondamento, separa il desiderio dalla cosa desiderata, l’attesa dal Messia, la speranza dal sabbath, il singolo da antenati e discendenti» [op. cit., p. XVI].

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Dal divenire come Dio alla morte di Dio – parte II

> di Daniele Baron

2. Usque ad mala

«Quando Nietzsche annuncia che Dio è morto, significa che Nietzsche deve necessariamente perdere la propria identità. Poiché quel che qui viene presentato come catastrofe ontologica corrisponde esattamente al riassorbimento del mondo vero e apparente da parte della favola: nel cuore della favola vi è una pluralità di norme o piuttosto non v’è nessuna norma che sia propriamente tale, poiché il principio stesso dell’identità responsabile è ad essa, in senso proprio, sconosciuto finché l’esistenza non si è esplicata o rivelata nella fisionomia di un Dio unico che, in quanto giudice di un io responsabile, strappa l’individuo ad una pluralità in potenza.
Dio è morto non significa che la divinità cessa di essere una spiegazione dell’esistenza, ma piuttosto che il garante assoluto dell’identità dell’io responsabile svanisce dall’orizzonte della coscienza di Nietzsche il quale, a sua volta, si confonde con questa scomparsa»[1]

Al paradigma del “divenire come Dio” in età contemporanea si sostituisce quello diametralmente opposto della “morte di Dio”, la loro opposizione misura la distanza tra l’epoca passata e quella presente.
La morte di Dio annunciata da Nietzsche in Die fröhliche Wissenschaft[2], se interpretata come fa Pierre Klossowski in questo passo e negli altri suoi scritti come fine dell’Io responsabile identitario, può essere letta sia come possibile spiegazione dell’evento tragico che ha colpito il filosofo tedesco (la sua follia), sia come verità a contrario del mito della Genesi. Continua a leggere


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La Communitas secondo Roberto Esposito

> di Daniele Baron

1. Etimologia del termine communitas

Nel libro Communitas. Origine e destino della comunità il filosofo Roberto Esposito intende prendere le distanze radicalmente da modi di intendere la comunità che potremmo definire “classici” ed introdurre un nuovo modo di pensarla.
Partendo dalla constatazione che mai come nella riflessione contemporanea il concetto di comunità è al centro del discorso (ad esempio nella sociologia organicistica della Gemeinschaft, nel neocomunitarismo americano e nelle varie etiche della comunicazione), afferma subito che proprio il modo in cui viene affrontato l’argomento ha per conseguenza di mancarlo: insistendo sul proprium, sul considerare la comunità come un pieno o come un tutto, le concezioni dominanti in filosofia politica la riducono ad una proprietà dei soggetti, vale a dire a ciò che li accomuna: una qualità che si aggiungerebbe loro facendone soggetti anche di una comunità.

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