> di Daniele Baron
Dissacrare è sacralizzare
Ogni movimento di dissacrazione, di violazione del sacro, comporta tre elementi: un fattore fisico o ideale intoccabile, poi un movimento che infrange i confini, che spezza le barriere imposte, supera una soglia invalicabile e infine un elemento (che può incarnarsi in una persona, o in una cosa, o in un animale, o in un luogo) che si opponga a quello sacro, che sia fuori dai confini fissati dal sacro, fuori dal perimetro di ciò che si reputa inviolabile. Il movimento di dissacrazione si ha quando l’opposto dell’intoccabile viene ad unirsi o perfino ad identificarsi con l’intoccabile. Ciò che è da sottolineare in via preliminare è che lo strato ideale, sacro, una volta dissacrato, appare fragile, come un velo che nasconde altro. La sua natura è ambigua: fino a che sta in sé, opponendosi al profano, non sembra poter essere scalfito, sembra granitico, ma non appena viene dissacrato, profanato mediante l’identificazione con l’opposto, ecco che mostra la sua estrema fragilità. Tanto che ci viene da dubitare sul fatto che sia effettivamente sacro. Ci diciamo: se si unisce con il suo opposto o si identifica con esso, allora già dall’inizio deve avere qualche legame con esso, oppure fin dal principio deve essere altro da quello che finge di essere o da come lo abbiamo fino a qui ritenuto.
Certamente ci si può chiedere come ciò possa accadere: come si può identificare o unire cose opposte? Che ciò avvenga è innegabile, ma è misteriosa la ragione profonda.
Ciò che è affascinante da rilevare è che questa identificazione o unione si può produrre già a livello di linguaggio e nello specifico dei nomi. Accostare certi termini, tentare giochi specifici di parole, non è un inoffensivo passatempo, come può sembrare a prima vista. Spesso è un’operazione intrinsecamente rivoluzionaria.
C’è poi da aggiungere che un certo tipo di dissacrazione è a sua volta sacralizzante.
Infatti la dissacrazione può avvenire in due modi: o creando un mondo di macerie profano, un mondo dell’equivalenza, un’universalità dell’assenza di sacro, o invece conservando la separazione tra sacro e profano e mantenendo il sacro profanandolo o sacralizzando il profano. In questo secondo modo, dunque, il sacro viene sporcato dal profano e questa lordura insopportabile nella purezza è ciò che rivela la necessità del movimento di dissacrazione come mantenimento del sacro; parimenti l’anelito alla purezza nello sporco del profano è la scintilla di sacro che rifulge nel fango.
Si può obiettare: non sono la stessa cosa se rimangono separati, sacro e profano. E non è lo stesso movimento quello che nel basso vede l’alto rispetto a quello che nell’alto vede il basso, il primo guardando la luce dall’oscurità e il secondo cogliendo l’ombra in piena luce. Qui occorre pensare all’impensabile, tenere insieme nello stesso due cose che appaiono distinte e dire che sono la stessa cosa, in quanto altro da sé.
L’indentificazione o l’unione tra ciò che è considerato sacro e alto, celestiale, con ciò che è tenuto come profano, basso, materiale e bestiale, crea dunque il corto circuito della sacralizzazione; o altrimenti detto: la dissacrazione è anche sacralizzazione. Certo, si tratta di un sacro ritenuto dai più sinistro o maledetto o paradossale.
Ciò che invece crea il mondo dell’equivalenza, l’universalità dell’assenza di sacro, è il pensiero che tutto debba essere distinto e intoccabile.
L’identificazione o l’unione tra cielo e terra non deve essere considerata un gioco, anche se non è seria, deve essere tenuta come ciò che tragicamente mette in gioco l’essere. La copula della identificazione o dell’unione ha lo stesso senso della copula sessuale: è accecante come essa, oscura nel suo imporsi istintivo, oscena per il normale ordine della cose.
Dice Bataille: «Da quando le frasi circolano nei cervelli intenti a riflettere, ci siamo avviati verso un’identificazione totale, poiché per mezzo di una copula ogni frase connette una cosa all’altra; e tutto sarebbe visibilmente legato se con un solo sguardo si scoprisse nella sua totalità la traccia lasciata da un filo di Arianna capace di condurre il pensiero nel proprio labirinto. Ma la copula dei termini non è meno stimolante di quella dei corpi. E quando io grido: IO SONO IL SOLE, ne risulta un’erezione integrale, poiché il verbo essere è il veicolo della frenesia amorosa». (G. Bataille, L’ano solare, SE, Milano 1998, p. 11).
Ecco cosa significa l’unione o identificazione di opposti elementi: un momento accecante di ebbra eccitazione che ricorda una perduta unità.
Dio cane
È evidente che l’identificazione più oltraggiosa rispetto al sacro comunemente inteso è la bestemmia. E cosa si può bestemmiare di più alto che Dio? Dio cane! dunque. Esiste una forte analogia tra bestemmia e preghiera: si bestemmia di solito nei momenti difficili, tragici, quando siamo messi alle strette; lo stesso accade quando ci inginocchiamo per pregare. Bestemmiando trasciniamo ciò che è sacro nel fango. Tuttavia, si insulta Dio chiamandolo cane non per vittimismo, non per risentimento, ma lo si nega per affermarlo, per mantenerlo: è così che la supplica rivolta al cielo, che comporta sempre uno stato di inferiorità del supplice, può rivoluzionarsi nella bestemmia e può diventare per magia beffarda sfida. L’uomo in rapporto a Dio è nulla, è come la polvere e deve obbedire in tutto e per tutto ai suoi precetti, deve “essere il suo cane” per l’appunto; insieme può, con la forza della sua ribellione, identificare Dio con ciò che sta sotto di lui, il cane. Il troppo alto e troppo grande si tramuta come per incanto nel basso, nell’infimo a volte. Parimenti, in ciò che ritenevamo basso, insignificante, l’uomo stesso in quanto essere imperfetto e indegno se confrontato con la divinità, si nasconde qualche cosa di assoluto e di altissimo. È la condizione sublime. Non voglio asserire che in ogni bestemmia si celi sempre una preghiera, che ogni bestemmiatore sia con ciò stesso un uomo pio, non nego che, nella maggior parte dei casi, bestemmie e bestemmiatori proliferino a condizione di una superficialità triviale, ma affermo che è il sublime la condizione della bestemmia, la sua essenza più profonda.
Una delle migliori definizioni del sublime è data da Kant nella Critica del Giudizio: si tratta una raffinata e articolata spiegazione del sentimento che è in gioco quando noi giudichiamo qualche cosa sublime. Secondo Kant non è qualcosa di appartenente alla natura a poter spiegare tale sentimento, il sublime non è legato a un oggetto sensibile (o vi è legato solo per trascenderlo). È invece l’idea della ragione ad essere sublime. Usando un linguaggio diverso: è ciò che è divino nell’uomo ad essere sublime, la sua ragione e libertà sovrana.
Leggiamo Kant: «Si può definire così il sublime: è un oggetto (della natura) la cui rappresentazione determina l’animo a pensare l’impossibilità di raggiungere la natura come esibizione di idee. Letteralmente, e dal punto di vista logico, le idee non possono essere esibite. Ma, quando noi, per l’intuizione della natura, estendiamo (matematicamente o dinamicamente) la nostra facoltà rappresentativa empirica, interviene infallibilmente la ragione, come facoltà dell’indipendenza della totalità assoluta, a produrre uno sforzo (sebbene inutile) dell’animo, allo scopo di rendere adeguata alle idee la rappresentazione sensibile. Questo sforzo, e il sentimento dell’impotenza dell’immaginazione a raggiungere l’idea, costituiscono essi stessi un’esibizione della finalità soggettiva del nostro animo nell’uso dell’immaginazione circa la sua destinazione soprasensibile, e ci costringono a pensare soggettivamente la natura stessa nella sua totalità come esibizione di qualcosa di soprasensibile, senza che questa esibizione possa essere oggettivamente prodotta» (I. Kant, Critica del Giudizio, Ed. Laterza, 1997 Bari, p. 209-10).
C’è dunque in noi una destinazione soprasensibile, divina, che il sublime evoca. Come può la bestemmia essere sublime? Lo può, se ribaltiamo specularmente, leggiamo a contrario, la definizione data da Kant. Se nella bestemmia – e in generale nella dissacrazione – possiamo identificare la finalità soggettiva soprasensibile, il divino, con qualche cosa di opposto ad essa, naturale e materiale nel senso più basso del termine, possiamo asserire sì che la natura non è adeguata ad esibire idee, ma siamo costretti anche ad aggiungere che l’identificazione bizzarra tra alto e basso, sempre possibile, suscita in noi un turbamento pari a quello che ci è dato dal sentimento del sublime nell’accezione normale. In questa identificazione tra la parte divina nell’uomo e la sua parte bestiale è insito anche un desiderio di superamento della lacerazione che attanaglia l’essere umano allo scopo di recuperare una perduta unità. L’uomo riconosce così che egli è divino e sovrano non solo in virtù di certe sue parti o di certi atteggiamenti o comportamenti, ma nella sua totalità o integrità; riconoscendo ciò avverte come solo parziale, come mutila, la comune accezione di sacro. A questo punto, contrariamente a quanto insegna Kant, forse la natura può esibire le idee e può farlo attraverso questa identificazione sacralizzante tra ciò che si pensa non abbia idee e la sfera delle idee: ciò non avviene a freddo, come detto, ma in determinate condizioni di ebbrezza che sfidano la logica. Cosa si oppone a Dio, l’idea più alta? Gli elementi sensibili più bassi, quelle realtà che nel Parmenide di Platone non hanno idea, come capelli, fango, sporcizia, quegli scarti che non possono avere corrispondente nel cielo delle idee (Cfr. Platone, Parmenide, 130 a 3 – e 4).
Per tornare alla bestemmia presa in esame ci possiamo chiedere: perché proprio il cane? È evidente che il cane è accostato a Dio in questa bestemmia per certi suoi tratti servili, per certi suoi comportamenti di sottomissione e di spudoratezza, che si palesano nei confronti dell’uomo, in quanto suo padrone. Ciò che è sommamente sovrano, sopra di tutto e di tutti, Dio, viene identificato con il servilismo del cane: ecco ciò che si ha di mira in “Dio cane”, indipendentemente dalla fede nell’al-di-là o dalle numerose doti positive del migliore amico dell’uomo.
Se ci si offende per questa identificazione è perché non si è inteso il legame profondo che esiste tra i due opposti e come sia questo legame a rivelare l’essenza del sacro.
Si aggiunga a quanto detto che Dio è garante dell’identità del soggetto, è la proiezione o fondamento (a seconda di come ci si ponga) dell’io. Ad un io progettante, che subordina tutto a fini utili e necessari corrisponderà una divinità servile (nella misura in cui Dio risponde a bisogni del soggetto che progetta). Il legame che la bestemmia svela è già celato nel normale modo di intendere il sacro: spesso, per certe categorie di uomini, Dio è “già identico al cane”, se con essere-cane intendiamo il carattere servile, al quale possiamo contrapporre un movimento sovrano, non subordinato a nulla. L’essere-cane in questo caso è obbedienza cieca agli ordini, che può sconfinare nell’imbecillità (tipica di chi è detto “più realista del re”), umiltà che spesso è anche umiliazione, sottomissione che a volte raggiunge l’autolesionismo. Qui l’identificazione è rivoluzionaria nella misura in cui svela un fondamento occulto.
Ciò che ci lascia senza parole è la scoperta di un legame che era lì dalla notte dei tempi: un’unità perduta che agisce a livello inconscio e che solo lo choc della identificazione può svelare. Fin dal principio i due opposti erano uniti, la bestemmia non fa altro che rivelare l’Impossibile che regge come un Atlante ebbro il mondo.
Calling on the gods
La lingua inglese ha la fortuna di poter esprimere anche graficamente la bestemmia sacralizzante per eccellenza qui analizzata e di rendere palpabile nelle parole la possibilità dell’impossibile identificazione.
«La copertina del nuovo album diventò un problema quando la band informò la casa discografica di non volere né il titolo né il nome del gruppo in evidenza […] Morrison disse all’art director dell’Elektra, Bill Harvey, che si immaginava la band seduta in una stanza circondata da trenta cani. Harvey gli domandò il perché, e lui rispose che dipendeva dal fatto che dog era god alla rovescia. Alla fine i Doors accettarono un compromesso» (S. Davis, Jim Morrison. Vita morte leggenda, Mondadori, Milano 2004, p. 247).
Proprio da questa idea del cantante dei Doors Jim Morrison per il secondo album Strange Days (1967), poi scartata, ho tratto la suggestione per questo spunto di riflessione: in inglese la parola god (dio) letta al contrario, essendo bifronte, diventa dog (cane).
Che non fosse un pensiero accidentale, ma un elemento centrale nella poetica di Jim Morrison è confermato dal fatto che ricompare in un punto della canzone The soft parade dell’album omonimo dei Doors (The soft parade, Elektra, 1969): verso la fine del brano si alternano e quasi si sovrappongono le espressioni “calling on the gods” e “calling on the dogs” (mediante la tecnica efficace del double tracking con la voce raddoppiata). Bisogna poi aggiungere che la bestemmia di Dio è in linea con ciò che emerge dal resto dei testi e del personaggio di Jim Morrison: può essere letta in senso psicologico e sociale come “uccisione del padre” e di tutto ciò che incarna l’autorità (e ricollegarsi perciò con la teatrale rivisitazione del complesso di Edipo in The End). In fondo, in questa ribellione verso il Padre inteso come autorità e come ordine costituito, Jim Morrison è stato, anche per motivi biografici, uno degli interpreti più ispirati della sua generazione.
Ecco allora che questo semplice gioco grafico, questa inversione di lettere apparentemente innocua, sa esprimere e riassumere in sé con geniale precisione tutto un insieme complesso di istanze psicologiche, sociali, filosofiche, morali, religiose, ancora attuali, da riprendere e dipanare.
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17 ottobre 2022 alle 10:39
Buongiorno. È possibile cortesemente avere un contatto dell’autore dell’articolo? Daniele Baron? Ho una collaborazione da proporre.
Grazie
17 ottobre 2022 alle 10:22
Buongiorno, può scrivermi al seguente indirizzo email: danorab@gmail.com
Rimango pertanto in attesa della sua proposta di collaborazione.
Grazie.