> di Francesco Brusori*
La storia del pensiero europeo ha archiviato un numero enorme di testi, la maggior parte dei quali presenta una corporatura ben piazzata, quasi a voler scoraggiare i più a prenderne seria visione. Questa prolifera produzione è facilmente spiegabile: esplicitare ‘tutto’ in maniera perfecta è già di per sé impossibile, soprattutto poi se addirittura all’interno di questo ne va della nostra stessa presenza. Interrogarsi è infatti difficile, costoso. Capirsi è perlopiù illusionistico. Tuttavia l’uomo non è mai indietreggiato di fronte a questo improbus labor, a tale profonda e radicale investigazione dell’esser-ci. Così gli scaffali delle biblioteche danno da secoli ospitalità ai vari tentativi che egli ha eroicamente cercato di portare a termine in seno a una tensione, più o meno sincera, di intelligere la cosa. Una continua lotta da parte di quest’ultimo perpetrata contro la sua natura di in-fante – incapace di dire compiutamente circa se stesso.
Ebbene, tra queste ricchezze è annoverato anche un libricino risalente alla seconda metà del secolo scorso (1987) che riporta un discorso tenuto dal professore Hans Jonas nel 1984 a Monaco, dal titolo: Der Gottesbegriff nach Auschwitz: eine judische Stimme [it. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz: una voce ebraica, il melangolo, Genova 2004]. Dato l’originale contenuto, è un elaborato vistosamente ridotto e altresì significativamente profondo. Essenzialmente complesso. Perché radicale e complesso è il problema che subito porta in superficie: come poter pensare Dio dopo il più tragico eventum dell’intera epoca contemporanea, l’Olocausto. La domanda dischiude, nell’immediato, una duplice interpretazione che nella lingua italiana resta in parte celata, quand’invece il tedesco in questo caso rischiara i passi della riflessione, dacché differenzia il senso di un potere in ‘positivo’, ossia sostenuto da proprie capacità (können), dal senso di un potere che è sostanzialmente permesso da altri/altro (dürfen). Ecco che l’ambiguità concettuale può essere più precisamente illuminata dalla chiarezza linguistica: da un lato, bisogna intendersi sulle potenzialità dell’uomo di poter porre ‘ancora’ innanzi a sé il concetto di Dio mentre, dall’altro, si è chiamati a capire quali possibilità siano ‘ancora’ concesse all’uomo dalla sua medesima natura creaturale dopo aver constatato un rumoroso silenzio da parte del suo Creator. Due vie investigative complementari, che partono da piani diversi ma che in seguito finiscono per intersecarsi insieme, una volta passate entrambe attraverso il dramma storico davvero patito , che come un prisma le ricompone unitariamente.
Non v’è quaestio più aulica e ardua, per il pensiero filosofico, di quella che pone l’interrogativo su un concetto che è «primo» tanto quanto «ultimo» in relazione a tutte le altre quaestiones indagate dalla filosofia e alle quali esso dà senso, se non anche fondamento: il concetto di Dio. Jonas è conscio delle vette verso cui il suo ragionamento pretende di alzare lo sguardo e perciò, lontano da facili speranze, riconosce la sua im-potenza al riguardo: il suo disquisire ragionato non è altro che un flebile balbettio. Già, perché questo intervento non vuole essere un trattato di teologia, men che meno una prova dell’esistenza di Dio o una requisitoria nei Suoi confronti. Si tratta solo di avanzare la proposta di fare il punto della situazione, su di sé (in quanto uomini) prima che su Dio. È come se si trattasse, dopo il passaggio di un inaspettato e violentissimo terremoto, di fare anzitutto la conta delle vittime e poi di raccogliere i cocci di un edificio completamente raso al suolo così da valutarli alla luce dell’eventualità di un loro secondo utilizzo, per costruire magari una struttura diversa, più resistente alle modificazioni che inevitabilmente le calamità naturali impongono.
La storia d’altronde ha reso l’uomo spettatore dell’ascesa di un silenzio assoluto, o meglio, a posteriori, si direbbe dello ‘Assoluto’ – a esso proprio –, la cui luce è tramontata veloce per lasciare il posto alle tenebre. Elie Wiesel nelle pagine de La notte completa un quadro drammatico di questa assenza, proprio durante una esecuzione in un campo di sterminio:
Dietro di me udii il solito uomo domandare:«Dov’è dunque Dio?»
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:«Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…».
Ai piedi di queste verità storiche, Dio tace. Solo l’uomo, com-mosso, trova il fiato sufficiente per parlare, pur sapendo di non poter rispondere a tutto.
Il sudore, le lacrime, la carne martoriata, il sangue grondante: queste caratterizzazioni che connotano persone vere in momenti precisi chiamano in causa Dio. Nessuna intellettualistica teodicea, bensì sofferenza incarnata come Cristo sulla croce: stessi chiodi, stesso legno, stesso sangue, stessa carne. Stesso uomo che patisce per mano di altri uomini. Perlomeno in linea di principio, Cristo è morto ‘una’ volta ma molti altri uomini sono morti altrettante volte.
Nonostante la rabbia e l’amarezza che possa sentire scorrere nelle sue vene in quanto essere umano, Jonas non pretende di trovare risposte a questo mutismo divino ricucendo addosso a Dio l’usurato ruolo di imputato: diversamente, si impegna a scrutare entro le sue possibilità le eventuali motivazioni di questa tacita osservazione. Come potersela spiegare e, al contempo, come posizionarsi in relazione ad essa. Non è interessante, ora, quanto preteso da Giobbe: è inutile accusare Dio ed esigere sue scuse. Non è neppure più sufficiente leggere Auschwitz come un «inasprimento della domanda di Giobbe» (H. Jonas, cit., p. 21). Più sensato, in qualità di essere umano sofferente, è cercare, dentro tale condizione, di trovare chiavi interpretative della grande assenza al fine di poter ancora pensare Dio, senza rinunciarvi. Perché in caso contrario si tratterebbe di una abdicazione dell’uomo nei confronti di se stesso, della sua natura: poter pensare Dio testimonia la grandezza umana, negare tale potenzialità non porterebbe nessuna conseguenza negativa a Dio, ma solo al continuare ad essere uomini. Ragion per cui, non si vuole un processo per condannare Dio: si ricercano invece le possibilità con cui si riesca a non rinunciare al concetto di Dio, stando all’interno dell’uomo.
Con Jonas, dunque, si calpesta un terreno intimo e che non ha di per sé un valore speculativo: si voltano le spalle al Folle nietzschiano. Non interessa il suo vociferare frettoloso. Davanti ai morti, qualsiasi sentenza è eccessiva, perde la sua importanza e collassa. Per rispetto si tace, e al massimo si bisbiglia o si balbetta sulle labbra soltanto un paio di verba.
Coloro che vi morirono [scil. Auschwitz] furono innanzitutto privati della loro umanità in uno stato di estrema umiliazione e indigenza; nessun barlume di dignità umana fu lasciato a chi era destinato alla soluzione finale – nulla di tutto ciò era riconoscibile negli scheletrici fantasmi sopravvissuti nei Lager liberati. E tuttavia – paradosso dei paradossi – fu proprio l’antico popolo dell’alleanza – alleanza a cui nessuno di quanti presero parte allo sterminio, assassini e martiri, più credeva –, fu proprio questo popolo e non un altro ad affrontare il destino dell’annientamento totale con il falso pretesto della razza: il più mostruoso capovolgimento della elezione in maledizione che rese ridicolo ogni tentativo di attribuirvi un senso. (ivi, p. 22)
Jonas non manca poi di ricordare come l’ebreo, in misura ancor più radicale del cristiano, tremi di fronte alla domanda, quale Dio ha fatto sì che ciò accadesse permettendolo, dacché egli crede che la salvezza non provenga tanto dall’aldilà bensì che si incarni nel mondo terreno. Dio, in qualità di creatore, è il ‘Signore della storia’. Affermazione, questa, che fa tremare vene e polsi all’ebreo: se così è, allora Auschwitz? Immancabilmente tale fondata angoscia getta il pensiero all’origine del rapporto di Dio col mondo, dalla cui tensione è informato l’essere umano.
In passato, dinnanzi al male incarnato in questa esistenza e che colpisce ciascuno, Epicuro avanzò una proposta filosofica di alto lignaggio, ricordata come tetralemma, in cui brevemente si tentava di mettere a tacere qualsiasi insurrezione ‘giustizialista’ dell’uomo nei confronti degli déi: 1) essi (o esso, nel caso di ‘un’ dio) sono in grado di evitare il male ma non vogliono; 2) non vogliono il male ma non possono evitarlo; 3) né possono né vogliono evitare il male; oppure, al contempo, 4) possono e vogliono farlo. Nonostante la sua brevità, il ragionamento proposto è assai aderente a quanto muove l’angoscia umana e per ciò stesso ha vinto il tempo rimanendo ancora tutt’oggi una valida ‘teo-logia’. Come è evidente, ciascuna proposizione porta inevitabilmente a una consequenziale e stringente conclusione. Qualora si ritenesse valida l’eventualità che Dio sia nelle condizioni di evitare il male all’uomo ma che comunque non lo faccia poiché allo stesso tempo non lo vuole, allora saremmo costretti a pensare un Dio onnipotente sì, pur tuttavia maligno. Se si percorresse la seconda strada indicata, ci troveremmo di fronte ad un Dio buono e al contempo debole, nient’affatto onnipotente. Se si optasse per la terza via avremmo a che fare con una divinità che è essenzialmente impotente e maligna. Come ultima istanza, essa potrebbe essere buona e onnipotente.
Detto ciò, è chiaro che secondo la tradizione occidentale risulta difficile legare il concetto di un Dio con il predicato dell’impotenza, ossia della non-onnipotenza: suonerebbe come una chiara contraddizione. L’idea di una divinità altresì cattiva nondimeno confliggerebbe con il concetto giudaico-cristiano di un Dio che sia Creator, che agisca nella Sua creazione. Ragion per cui in relazione a tale tradizione risulta impensabile perfino la tesi epicurea capace di ‘salvare’ sia l’onnipotenza che la bontà di Dio, secondo cui la divinità, essendo perfecta, ovvero ‘compiuta fino in fondo’, e non bisognosa o desiderosa di nulla – ciò rivelerebbe invero una sua qualche mancanza –, non si interessi per nulla degli Esseri umani e sia abitante degli intermundia – ‘luoghi’ situati tra i mondi dell’universo, completamente estranei al mondo conosciuto e conoscibile dagli uomini.
Tutto questo è molto chiaro a Jonas, il quale infatti si trova a fare i conti con questa tematica in rapporto con ciò che la sua cultura giudaico-cristiana può fornirgli. Alla luce di questo sincero tentativo di rappacificazione mosso dall’uomo nei confronti della presenza-assenza di Dio è constatabile la vera drammaticità che permea l’intero discorso. L’uomo sì, è eminentemente desiderantes, orfano di una presenza a cui si era affidato e che ad un tratto pare non ritrovare più. Proprio come mancante, bisognoso egli cerca, si interroga senza accettare facili risposte. Sa bene che «la vita è un modo di essere per sua natura revocabile e destinato alla distruzione, una avventura della mortalità» (p. 25). Non ci si ribella alla propria condizione di mortale in nome della presunzione di voler diventare come Dio. Inutile e stolto sarebbe. Non si pretende di scoprire la strada che porta a Dio al fine di usurparne il trono, bensì si desidera inoltrarsi in tale sentiero per rappacificarsi con il volto di Dio per lungo tempo tramontato.
Per iniziare la ricerca allora, per Jonas, è necessario comprendere che il volto di Dio è cambiato, poiché Dio stesso è cambiato. O meglio, si tratta di accettare l’idea che il Dio a cui aneliamo è diveniente, «un Dio che si cala nel tempo» (p. 29), che ab origine concede spazio al divenire della creazione finendo per versare in una nuova condizione rispetto alla propria iniziale: dacché ha reso possibile il cambiamento che in-forma la creazione dal momento stesso in cui Egli ha creato, Egli ora divenendo con essa si ritrova nella situazione di «essere toccato da ciò che accade nel mondo» (p. 30), ossia «mutato», «alterato» da ciò che «accade e tramonta» nel creato. «Ciò significa che l’Eterno si è “temporalizzato” e che muta progressivamente attraverso le realizzazioni del processo cosmico» (Ibid.) facendo esperienza del divenire. Sulla base di questo eccezionale esperire da parte di Dio si impone gravida di senso pure l’idea di un medesimo Dio sofferente, che soffre – divenendo – con le creature fin dal loro ‘inizio’. Di ciò l’Antico Testamento dà alcuni esempio, tra cui Gn 6, 5:«Il Signore vide che la malvagità dell’uomo nella terra era grande e che ogni creazione del pensiero dell’animo di lui era costantemente soltanto male».
Addentrandoci ancora più in profondità, possiamo intuire come all’idea di un Dio diveniente e sofferente si accompagni anche l’idea che Egli che si prenda cura, o meglio che si preoccupi non solo delle creature ma anche della propria condizione. La sua onnicomprensiva – in tal senso – preoccupazione è davvero patita, dacché Egli stesso si trova in una situazione di continuo ‘pericolo’ avendo posto nelle mani delle sue creature, in particolare l’uomo, le redini del kosmos nel momento in cui ha abdicato alla sua ‘chiusa’ e ‘totale’ divinità. Oramai non è più in grado di esercitare il ruolo di demiurgo o «mago» che de-cide ‘sul’ e ‘il’ da farsi. Alla luce di questi concetti, o addirittura – in qualche misura – di constatazioni storiche, allora come pensare Dio in conformità con la tradizione giudaico-cristiana, in seno alla quale sono tenuti fermi, in un certo senso, i concetti di comprensibilità e di bontà circa Dio? Dio, dopo Auschwitz, risulta pensabile in qualità di Dio diveniente, sofferente, buono e comprensibile. Dinnanzi all’evidenza degli eventi storici l’onnipotenza non trova spazio in relazione alla divinità a meno di non escludere, di conseguenza, la bontà o la comprensibilità, il che farebbe uscire il discorso di Jonas dal terreno della tradizione a cui appartiene precipitandolo nel mare magnum delle ipotesi su Dio che fin dalla notte dei tempi il pensiero dischiude. Così, retrospettivamente, si è almeno capaci di motivare il mutismo divino in relazione alla impossibilità attuale di Dio stesso a intervenire. «Propongo quindi l’idea di un Dio che per un’epoca determinata ha abdicato ad ogni potere di intervento nel corso fisico del mondo; un Dio che nell’urto con gli eventi mondani rivolti contro di lui non ha reagito» (p. 36) a causa di una sua onnipotente de-cisione: creare e divenire con la creazione. Su ciò pare trovare nuovo ossigeno anche la dottrina di Luria, l’idea dello Tzimtzùm, ‘contrazione’, ‘autolimitazione’ con cui l’Infinito originario (En-Sof) si aliena nel finito delle cose. Rinuncia all’infinità che permette agli essenti di essere – nella loro finitezza, ovviamente. «Concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza» (p. 37). Per Jonas, nel medesimo Giobbe Dio soffre e non può fare nient’altro che preoccuparsi per lui. A ciascun uomo contemporaneo (appartenente alla tradizione giudaico-cristiana) non resta che sperare ciò, dacché non può raggiungere la verità. Jonas lo sa bene e conclude il suo discorso con versi lapidari:
e la lode che a Dio si balbetta / lassù in cerchi su cerchi sta riunita
(Goethe, Opere, a cura di R. Prati, Firenze 1962, vol. V, pp. 504).
*Francesco Brusori, nato a Bologna il 17/01/97, dopo aver ottenuto la maturità classica al Liceo Classico M. Minghetti dell’omonima città nel 2016, studia attualmente Filosofia all’Alma Mater Studiorum di Bologna. Nell’inverno del 2015 collabora all’allestimento della mostra dedicata alla Prima Guerra Mondiale voluta dal liceo bolognese per i 100 anni dal suo scoppio, impegnandosi nella ricerca storico-documentaria d’archivio.
Sul finire dello stesso anno pubblica “L’arte del vivere” (edito BastogiLibri), un romanzo che radica sul piano narrativo di natura investigativa una ricerca profonda degli importanti aspetti psicologici che muovono i protagonisti sulla scena.
Alla sua vocazione filosofica unisce uno spiccato interesse letterario e, al contempo, una viva passione storica in seno alla quale trova fondamento anche un sincero interessamento politico.
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