Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot


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Cioran e la filosofia (II)

> di Massimo Carloni*

2. Un pensatore privato, ovvero la filosofia tra libertà e destino

2.1 Filosofo di strada

La massima folgorante di Joubert, secondo cui «La vera filosofia ci insegna a non esser troppo filosofi»[1], Cioran l’ha praticata sul campo, da eroe, praticamente per tutta la vita. Un episodio biografico, tra gli altri, merita a questo punto di essere ricordato. Se ben ricordate, l’avevamo lasciato al liceo di Brašov, negli improbabili panni d’insegnante di filosofia. Chiusasi questa breve parentesi, Cioran, forte delle credenziali di scrittore promettente, riesce ad ottenere una borsa di studio presso l’Istituto francese di Bucarest, allo scopo di preparare una tesi di dottorato in filosofia – a quanto pare sul concetto d’intuizione in Bergson e nel misticismo cristiano. Sulla base di questo lodevole quanto impegnativo programma di studi, al giovane viene concesso dal 1937 al 1940 un vitalizio mensile di circa mille franchi, per finanziare il suo soggiorno di studio a Parigi.

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Dal divenire come Dio alla morte di Dio – parte II

> di Daniele Baron

2. Usque ad mala

«Quando Nietzsche annuncia che Dio è morto, significa che Nietzsche deve necessariamente perdere la propria identità. Poiché quel che qui viene presentato come catastrofe ontologica corrisponde esattamente al riassorbimento del mondo vero e apparente da parte della favola: nel cuore della favola vi è una pluralità di norme o piuttosto non v’è nessuna norma che sia propriamente tale, poiché il principio stesso dell’identità responsabile è ad essa, in senso proprio, sconosciuto finché l’esistenza non si è esplicata o rivelata nella fisionomia di un Dio unico che, in quanto giudice di un io responsabile, strappa l’individuo ad una pluralità in potenza.
Dio è morto non significa che la divinità cessa di essere una spiegazione dell’esistenza, ma piuttosto che il garante assoluto dell’identità dell’io responsabile svanisce dall’orizzonte della coscienza di Nietzsche il quale, a sua volta, si confonde con questa scomparsa»[1]

Al paradigma del “divenire come Dio” in età contemporanea si sostituisce quello diametralmente opposto della “morte di Dio”, la loro opposizione misura la distanza tra l’epoca passata e quella presente.
La morte di Dio annunciata da Nietzsche in Die fröhliche Wissenschaft[2], se interpretata come fa Pierre Klossowski in questo passo e negli altri suoi scritti come fine dell’Io responsabile identitario, può essere letta sia come possibile spiegazione dell’evento tragico che ha colpito il filosofo tedesco (la sua follia), sia come verità a contrario del mito della Genesi. Continua a leggere


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Cioran e la filosofia

> di Massimo Carloni*

1. L’inquietudine impersonale ovvero la filosofia come professione

«Succede della maggioranza dei filosofi sistematici, riguardo ai loro sistemi, come di chi si costruisse un castello e poi se ne andasse a vivere in un fienile: per conto loro essi non vivono in quell’enorme costruzione sistematica. Ma nel campo dello spirito ciò costituisce un’obiezione capitale. Qui i pensieri, i pensieri di un uomo, devono essere l’abitazione in cui egli vive: altrimenti sono guai» Søren Kierkegaard [1]

1.1 Un insolito professore

Superato l’esame d’abilitazione all’insegnamento, nell’anno scolastico 1936/37 Cioran, allora venticinquenne, ottenne la nomina come professore di filosofia al liceo Andrei Şaguna di Braşov. A quel tempo Cioran era tutt’altro che un ragazzo alle prime armi, timido e sprovveduto. In un’età in cui l’intelletto incomincia appena a balbettare, in pratica aveva già letto tutto. A diciassette anni s’era immerso con avidità nell’universo del pensiero, vivendo nell’ebbrezza dell’astrazione, sotto l’influsso magico del concetto. In soli quattro anni percorse la parabola del sapere filosofico – quella che, secondo Pascal, va dallignorance naturelle all’ignorance savante [2]  quando gli altri v’impiegano, se tutto va bene, un’intera vita. Dopo la laurea, ancora giovanissimo, volse le spalle alla filosofia, sperimentandone la vanità e l’inefficacia di fronte alla sofferenza personale. Come scrittore, aveva riversato quindi la sua furiosa malinconia, esacerbata da un’insonnia devastante, in due libri “avvelenati”, di cui il primo – Al culmine della disperazione scritto a soli ventuno anni – intriso d’una saggezza cupa e demolitrice, conteneva in germe gran parte delle intuizioni che svilupperà nelle opere successive.

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Il Flâneur: traduttore della modernità

> di Andrea Marini*

I am the passenger and I ride and I ride
I ride through the city’s backsides
I see the stars come out of the sky
Yeah, the bright and hollow sky
You know it looks so good tonight.

(Iggy Pop, The Passenger)

Preparativo – Corpo antico in spazio moderno

Passo dopo passo l’uomo ha, una volta intrapreso il cammino, continuato il suo percorso tra sentieri interrotti, strade a senso unico e linee che senza principio né fine chiedevano solamente di essere rifatte o ri-tracciate.

La condizione umana è da sempre, come ci insegnano le religioni, una storia di camminatori, nomadi e dei loro antagonisti – sedentari e agricoltori [1]; una conferma di questo ci è data dalla storia biblica della cacciata dall’Egitto, ma possiamo riscontrare esempi simili nel racconto della vicenda di Caino e Abele oppure, spostandoci completamente in altri luoghi e culture, le grandi peregrinazioni asiatiche degli Indù o di Buddha. Non a caso il buddhismo vede il processo di liberazione dell’anima come un percorso, un cammino verso il Nirvana, un vagabondaggio purificatore tra le ere e gli spazi infiniti ed eterni.

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Bolaño prossimo mio

> di Luca Ormelli

«Bisogna essere un abisso, un filosofo… Abbiamo tutti paura della verità…» [1]

Scrivere – afferma Eduardo Lago – «è avvicinarsi all’abisso. Per Bolaño “l’alta letteratura, quella che scrivono i veri poeti, è quella che osa addentrarsi nell’oscurità con gli occhi aperti, succeda quello che deve succedere”. Scrivere: addentrarsi nell’inferno; la letteratura è “un lavoro pericoloso”. Pericoloso perché decifrare l’enigma dell’esistenza implica scontrarsi in termini assoluti con il Male e la Morte» [Eduardo Lago, “Sete del male“].

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Giuseppe Rensi “contro il lavoro”

> di Pietro Piro*

«Il problema del lavoro,

come tutti quelli che maggiormente interessano l’umanità, è,

così dal punto di vista morale,

come dal punto di vista

economico-sociale, insolubile»

[Giuseppe Rensi, Contro il lavoro]

I.

Giuseppe Rensi filosofo e giurista che svolse gran parte del suo magistero a Genova prima che l’ondata brutale e mortifera del fascismo lo allontanasse dall’insegnamento, giudicava «il problema del lavoro» insolubile sia dal punto di vista morale che da quello economico-sociale [1]. Considerando l’attuale configurazione planetaria del lavoro, inteso in tutte le sue molteplici e atipiche forme del presente, non si può contraddirlo con argomenti banali e di facile consumo.

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La Communitas secondo Roberto Esposito

> di Daniele Baron

1. Etimologia del termine communitas

Nel libro Communitas. Origine e destino della comunità il filosofo Roberto Esposito intende prendere le distanze radicalmente da modi di intendere la comunità che potremmo definire “classici” ed introdurre un nuovo modo di pensarla.
Partendo dalla constatazione che mai come nella riflessione contemporanea il concetto di comunità è al centro del discorso (ad esempio nella sociologia organicistica della Gemeinschaft, nel neocomunitarismo americano e nelle varie etiche della comunicazione), afferma subito che proprio il modo in cui viene affrontato l’argomento ha per conseguenza di mancarlo: insistendo sul proprium, sul considerare la comunità come un pieno o come un tutto, le concezioni dominanti in filosofia politica la riducono ad una proprietà dei soggetti, vale a dire a ciò che li accomuna: una qualità che si aggiungerebbe loro facendone soggetti anche di una comunità.

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Bataille interprete di Nietzsche: la questione politica

> di Alessandro Chalambalakis*

La prima fondamentale operazione interpretativa che Georges Bataille compie consiste nell’evidenziazione delle differenze tra la filosofia di Nietzsche e l’ideologia fascista. Siamo negli anni ’30 e questa esigenza, avvertita da Bataille, si configura, alla luce degli eventi caratterizzanti quegli anni, come un’urgenza storico-politica. Jean-Michel Rey in proposito afferma:

«i tre momenti essenziali in cui Bataille si confronta in modo assolutamente esplicito con il pensiero di Nietzsche, sono in effetti momenti storici particolarmente decisivi, momenti in cui è in gioco la sorte del mondo, epoche in cui la “politica” occupa violentemente il proscenio: l’emergenza del fascismo in Germania, la guerra, il comunismo» [1]

L’interpretazione di Nietzsche è intessuta profondamente in questi eventi storici ed è al contempo guidata da una esigenza interiore che mai prescinde dalla storia ma che anzi in essa, attraverso il pensiero nietzscheano, si mette in gioco:

«La ri-lettura di Nietzsche – la sua ri-scoperta in questo momento particolarissimo della storia – diviene l’inizio di una interrogazione che ha luogo progressivamente, vale a dire di un lavoro che è come all’incrocio di preoccupazioni interiori di Bataille e di esigenze del momento chiaramente provenienti dalla più immediata attualità» [2].

Questa prima fondamentale operazione ermeneutica, compiuta all’interno della rivista Acéphale, fondata nel 1936 dallo stesso Bataille e da Pierre Klossowski, prende avvio dalla messa in luce del tradimento falsificante, di segno antisemita, del pensiero nietzscheano, compiuto dalla sorella di Nietzsche, «Elisabeth Giuda-Foerster» [3], dal marito di costei, Bernard Foerster e dal «secondo Giuda del Nietzsche-Archiv» [4], ovvero il signor Richard Oehler, cugino del filosofo. Riferendosi ad Elisabeth Foerster, Bataille scrive:

«Il 2 Novembre 1933, davanti ad Adolf Hitler da lei ricevuto a Weimar presso il Nietzsche-Archiv, Elisabeth Foerster testimoniava dell’antisemitismo di Nietzsche, dando lettura di un testo di Bernard Foerster» [5]. Continua a leggere


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L’incompiuta autenticità di Vito Mancuso

> di Giuseppe Savarino

Ne La vita autentica (Cortina Editore, Milano, 2009), saggio che possiamo definire divulgativo, Vito Mancuso affronta il tema, molto sentito filosoficamente, dell’autenticità (da autos = se stesso).

Non bisogna lasciarsi ingannare dalla apparente semplicità con cui è scritto il testo: Mancuso è un teologo preparato, non dogmatico (lo testimonia l’aver scritto un libro con Corrado Augias, Disputa su Dio e dintorni, in cui ha messo in discussione le proprie religiose convinzioni) e numerose sono le citazioni colte cui ricorre per illustrare e rafforzare le sue tesi.

L’intento di Mancuso (non originale in verità), esplicitato nella prefazione, è fare come Dionigi che girava con la lanterna in mano alla ricerca dell’uomo.

Se è vero che l’autenticità è legata anche agli oggetti, alle cose (banconote, opere d’arte, ecc.) è altrettanto vero che, riferita all’uomo, diventa un concetto molto più complesso, intimamente legato a quello di libertà (non a caso due tesi su tre del libro sono legate alla “libertà” e alla “libertà da se stessi”).

La libertà umana è strettamente connessa alla vita (qui considerata come dato oggettivo) e alle sue interpretazioni ovvero all’ethos del bìos, alla bioetica.

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Hegel e l’affermarsi della negatività negli scritti giovanili – Parte II

> di Francesca Brencio*

E’ con l’opera del 1802, Fede e sapere, momento centrale della maturazione hegeliana, e con la dura critica che egli muove all’illuminismo, che Hegel affronta il problema della morte di Dio a partire dalla finitezza e dalla nullificazione della finitezza. Hegel dichiara esplicitamente che «il primo compito della filosofia è conoscere il nulla assoluto» [1], e cioè il nulla della finitezza, nella misura in cui essa si chiude in se stessa senza tuttavia negarsi nell’eterno. Solo dalla coscienza del nulla del finito in generale, del mondo e delle cose «la verità si innalza come da un abisso misterioso, che è il suo luogo di nascita» [2].

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Scolio II

«Senza la “grande menzogna” Platone e Aristotele non avrebbero conquistato la posterità: essi dominarono la filosofia per duemila anni proprio per aver creato l’illusione del sistema e della ragione costruttiva. Questa illusione e consolazione per l’uomo fece della filosofia un surrogato della religione. Se Platone e Aristotele avessero detto la verità non avrebbero avuto le scuole che invece ebbero né la conseguente risonanza. Le scuole durarono tanto proprio perché avevano un’”eredità” da trasmettere, e quest’eredità era l’edificio della “ragione” che venne dapprima minato “con il sorgere della scienza moderna e della sua nuova costruttività razionale, e poi con la ragione illuministica” per essere poi, definitivamente, abbattuto dal martello di Nietzsche»

[Giorgio Colli, La ragione errabonda – Quaderni postumi, Adelphi, Milano, 1982, pp. 464-465].


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Due tesi sulle parole – Parte I

> di Ezio Saia*

Nell’articolo recentemente pubblicato su Filosofia e nuovi sentieri in cui viene recensito un saggio di Sergio Givone si afferma che nello sviluppo storico del pensiero filosofico occidentale c’è un concetto che è stato per lo più rimosso, sottaciuto o addirittura negato: il nulla. Che il nulla sia il grande dimenticato mi pare affermazione paradossale, ma non voglio discutere questa affermazione. Vorrei invece svolgere il mio commento discutendo di espressioni, che come “nulla”, hanno ambiguità di riferimento.

In un suo articolo del 1932 (Uberwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache) Rudolf Carnap polemizza contro la metafisica e contro quelle espressioni che. non avendo alcun riferimento empirico o all’empiria riconducibile, assumono giocoforza significato metafisico. Nell’articolo il bersaglio polemico è soprattutto l’uso del termine “nulla” in Heidegger di cui Carnap cita un passo estratto dal saggio Cos’è la metafisica? del 1929: «indagato dev’essere l’ente soltanto e – null’altro; l’ente solamente e inoltre – nulla; l’ente unicamente oltre a ciò – nulla. Come sta la cosa con questo nulla? … esiste il nulla solo perché c’è il Non, ossia la Negazione? O forse la cosa sta inversamente? Esiste la negazione e il Non esiste solo perché c’è il nulla?» [1].

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