> di Pietro Piro*
«Il problema del lavoro,
come tutti quelli che maggiormente interessano l’umanità, è,
così dal punto di vista morale,
come dal punto di vista
economico-sociale, insolubile»
[Giuseppe Rensi, Contro il lavoro]
I.
Giuseppe Rensi filosofo e giurista che svolse gran parte del suo magistero a Genova prima che l’ondata brutale e mortifera del fascismo lo allontanasse dall’insegnamento, giudicava «il problema del lavoro» insolubile sia dal punto di vista morale che da quello economico-sociale [1]. Considerando l’attuale configurazione planetaria del lavoro, inteso in tutte le sue molteplici e atipiche forme del presente, non si può contraddirlo con argomenti banali e di facile consumo.
Le statistiche rivelano una crescita continua dei tassi di disoccupazione in quasi tutti i paesi industrializzati con picchi allarmanti per quello che riguarda la disoccupazione giovanile [2]. I precari di tutto il pianeta rappresentano «una vera e propria classe globale in divenire» [3], che suscita grandi preoccupazioni per il suo potenziale corrosivo per le democrazie e che sta mettendo in crisi tutte le vecchie categorie ermeneutiche di riferimento. Una nuova classe esplosiva e insoddisfatta [4] che per essere conosciuta e interpretata esige l’utilizzo di un nuovo vocabolario [5]. Allo stesso tempo, in luoghi geografici diversi e socialmente differenti, esperimenti di reddito minimo garantito e illimitato, mettono in seria discussione il rapporto millenario tra lavoro e reddito, introducendo categorie nuove di riflessione sul complesso rapporto tra uomo e ambiente [6]. In questo contesto di riferimento attuale, complesso e multiforme, cangiante e inafferrabile, il piano dell’interpretazione traballa scosso da movimenti tettonici di grande intensità e la lettura del libro di Giuseppe Rensi, Contro il lavoro – recentemente riedito – può aiutare a ricollocare la riflessione sul lavoro in un orizzonte più vasto che riguarda la profonda natura antropologica dell’uomo.
II.
Per Rensi – al quale, nell’ultimo decennio sono stati dedicati numerosi lavori ermeneutici [7], che mettono in evidenza l’attualità e la centralità della sua riflessione filosofica – riflettere sul lavoro significa indagare la natura antropologica dell’uomo e distaccarsi dalla superficie moralistica che stabilisce “leggi universali” laddove invece si tratta di nient’altro che convenzioni. Per Rensi il lavoro incarna una radicale insolubilità la cui ragione antinomica è così espressa:
«Il lavoro è nello stesso tempo necessario e impossibile, che ci si presenta sotto la veste di obbligo morale, come prescrizione è un dovere etico, e insieme ingiunzione spirituale alta e pressante e veramente un dovere morale ci si presenta il sottrarvisi; che esso, insomma, è l’imprescindibile base e presupposizione della vita spirituale dell’umanità (perché lo è della vita di essa in generale) e contemporaneamente ripugna alla vita spirituale medesima, è in diametralmente contrasto con essa, la rende impossibile. […] Il contraddittorio aspetto in cui il lavoro apparisce necessariamente ad una classe, a seconda che esso giustifica il proprio esserne esente (lavoro, bruta materialità, da cui la possibilità dello sviluppo spirituale della società, artistico, scientifico, politico, richiede taluno sia liberato) o l’obbligo d’un’altra di soggiacervi (lavoro, attività moralmente nobilitante) tale contraddittorio aspetto è quello che riflettendosi nella teoria, genera quel miserando contrasto di valutazioni morali circa il lavoro che domina nella nostra coscienza e che, se si guarda bene sotto la superficie, regna sovrano, non ostante gli sforzi per gettarvi sopra dei veli e operare ad ogni costo delle “conciliazioni” in ogni sistema o dottrina morale» [8].
Rensi colloca le motivazioni che inducono al lavoro sul piano della morale e in quest’ottica si avvicina al lavoro di Max Weber [9]. Tuttavia, la morale del lavoro è continuamente sottoposta al logoramento dell’aperta contraddizione. Per Rensi infatti, se da un lato il lavoro rappresenta uno strumento per liberarsi dalla schiavitù del bisogno esso è percepito anche come una prassi che distoglie dal piacere e dalla realizzazione degli ideali più alti e spirituali. Si tratta di una contraddizione insanabile che non fa altro che immiserire gli sforzi che mirano ad una conciliazione. Se è vero che c’è sempre stata una “classe di lavoratori”, per Rensi, c’è stata sempre una classe che ha vissuto sul lavoro di quest’ultima, disprezzandola e considerandola brutale e inferiore. È indubbio l’influsso delle letture del socialismo utopistico che se da un lato insiste sulla funzione del lavoratore, allo stesso tempo, lo incita continuamente a superare il lavoro per realizzare i propri bisogni più elevati e riconosciuti come il fine ultimo da realizzare nella città futura.
III.
Rensi individua una vera e propria “legge” che è in grado di spiegare la relazione che esiste tra lavoro, morale e società:
«Quanto più, cioè, il concetto di lavoro è moralmente nobilitato e il lavoro stesso considerato come una virtù, tanto minore importanza assume il miglioramento delle condizioni dei lavoratori e tanto meno si tende a preoccuparsene; quanto più il lavoro in sé è poco stimato, tanto maggior peso le rivendicazioni economiche e sociali di quelli acquistano nella coscienza pubblica. […] Siamo in un ambiente sociale in cui la questione delle condizioni del lavoro è diventata saliente forse preponderante? Se ne può, in generale, concludere che in quel momento storico il lavoro è spoglio d’ogni aureola morale e religiosa. Siamo in un ambiente sociale, in cui le condizioni del lavoro sono cosa insignificante, di cui nessuno si cura? Se ne può, in generale, concludere che in quel momento storico si vedrà anche il lavoro prospettato quale elemento essenziale della vita morale (magari sotto forma di espiazione, esercizio della pazienza o rassegnazione e simili) ed altresì quale fattore capitale della vita religiosa, rivestito di qualche sanzione dalla religione, veicolo indispensabile di qualche fine da questa additato (per esempio la necessità d’una vita penosa quaggiù per acquisirne una beata lassù)» [10].
Per Rensi, giungere a odiare il lavoro rappresenta il raggiungimento del giusto livello di maturazione della coscienza adulta che si è liberata da una morale coercitiva che utilizza tutte le armi possibili della retorica per giustificare una prassi violenta e inferiore:
«Il lavoro è meritatamente odioso. Non è una cosa nobile, ma una necessità inferiore della vita delle specie e dell’esistenza dei più, ripugnante essenzialmente alla più alta natura dell’uomo; per cui si può affermare che la misura della nobiltà di tempra d’uno spirito umano è data dal modo con cui egli considera il lavoro: tanto più è nobile, quanto più lo aborre, tanto più è volgare e bassa quanto più si lascia, contro il proprio vero, diretto e immediato istinto, persuadere d’una morale convenzionale a idealizzarlo ed estollerlo» [11].
Rensi punta il dito sulla natura contraddittoria e inconciliabile della natura del lavoro. Una inestricabile commistione di giustizia e ingiustizia, legittimità e illegittimità, necessità e libertà. In questa prospettiva, Rensi rilegge la famosa frase di Kant secondo la quale il fondamento della morale consiste nel non utilizzare mai un altro uomo come mezzo ma sempre come fine [12] e la interpreta come prova filosofica della natura schiavistica del lavoro. Per Rensi questa frase quando è comparata con le dinamiche concrete del lavoro, perde di significato, perché gli attori sociali agiscono continuamente come mezzi per ottenere dei risultati anche quando si tratta del dirigente di una azienda. Il lavoro è sempre e comunque schiavitù e il lavoratore è sempre mezzo per ottenere dei risultati.
IV.
Le uniche alternative valide alla schiavitù del lavoro sono quelle che permettono all’uomo di realizzare pienamente la propria umanità. Per Rensi solo il gioco e la contemplazione, sono funzioni specificatamente umane. Tuttavia, il veleno del lavoro ci è entrato in circolo e purtroppo, ormai non siamo più in grado di essere felici né lavorando né contemplando il mondo [13]. Logorati dal desiderio di fare carriera siamo accecati dalla vita pratica che ci offusca la mente e l’anima rispetto alle gioie della vita contemplativa:
«Ma quando si vedono uomini per cui la vita si identifica con gli affari o con la carriera, anzi è da questa asservita e dominata, e che negli uni o nell’altra si dimenticano di vivere una delle sole forme specificatamente umane, cioè di esercitare la funzione contemplativa – di oziare o vagare guardando i monti ed il mare; di lasciare correre il pensiero sul mondo, sulla vita, sulla morte, a sognare o meditare; di ascoltar musica, leggere versi, romanzi, filosofie – si constata quanto abbiano ragione i moralisti positivisti di opporre alla morale religiosa che la paura dell’inferno non ha mai vinto alcuna fervida passione presente» [14].
L’uomo per Rensi deve essere capace d’interrompere con piena indifferenza quella che viene chiamata carriera per potersi dedicare a ciò che rende un uomo veramente degno di essere chiamato uomo. La vita contemplativa però, non è una deriva verso l’annullamento ma anzi, una energica e partecipata attività spirituale.
Per Rensi – e questo ci appare come il nodo teorico più complesso e discutibile – non c’è legame tra cultura e lavoro. Per produrre cultura è necessario sempre e comunque emanciparsi dalla schiavitù salariata:
«Cultura, prodotti d’alta cultura e lavoro propriamente detto, non sono congiungibili nelle stesse persone. Non v’è mai una cultura del lavoro, della classe dei proletari, prodotta da questi in tale loro condizione e in essa perduranti; ma solo una cultura operata da persone che, originariamente appartenenti a quella classe, riescano a costruirsi in ceto particolare, abbandonando il lavoro propriamente detto per il gioco riuscendo a farsi pagare per questo. Ossia ancora per la nascita della cultura è indispensabile il formarsi di due classi, la classe di chi giuoca, accanto a quella di chi lavora» [15].
Rensi critica la concezione espressa dal Manifesto del partito comunista, secondo il quale con il dominio del proletariato scompariranno le differenze di classe:
«[…] avverrebbe solo se tutti lavorassero di lavoro vero e proprio, ossia se sparisse la cultura e la civiltà, dopo di che tornerà ad iniziarsi un nuovo processo di ciò che è sempre avvenuto, ed è per la cultura indispensabile, cioè della formazione delle due classi, di chi giuoca e di chi lavora» [16].
Le rivoluzioni dunque – che sostengono che mutando l’aspetto sociale e sostituendo all’ordine borghese regimi socialisti o comunisti si potrà mutare la natura profonda del lavoro – sono nient’altro che vane illusioni. Rensi si scaglia tanto contro il Manifesto [17] quanto contro le tesi di Sorel [18] secondo il quale durante la dittatura proletaria si potrà contare sull’entusiasmo dei proletari per garantire continuità e produttività del lavoro. Il lavoro resterà sempre schiavitù e dolore e nessun mutamento sociale di tipo comunista potrà mai eliminarlo del tutto [19]. In Rensi prevale la forza dell’assurdo che nutre la natura ambigua e contraddittoria del lavoro e ogni pretesa di “scientifico” tentativo di soluzione gli appare del tutto vano. All’irrazionalità del lavoro non si può far altro che contrapporre la rivolta del non-lavoro:
«Non si vuol più lavorare. Sembra che ci sia in un momento di insurrezione contro un sistema di lavoro. Ma ciò non è che apparenza. Chi guarda in fondo scorge che si è già in un momento di insurrezione contro l’assurdo, venuto a galla, del lavoro in generale – insurrezione razionalmente giusta appunto perché il lavoro è un fatto irrazionale. Anche nel caso del lavoro avviene quello che Simmel ha così profondamente constatato in ogni altra sfera, che cioè la vita vuole esistere nella sua immediatezza, libera da ogni forma, mentre pure non può esistere che in forme, e si impiglia così in un’inesorabile contraddizione la quale si manifesta in ciò che ogni problema e ogni conflitto è tolto solo per essere sostituito con un altro. È dunque insurrezione della razionalità umana contro il destino, la natura, i decreti della divinità, cioè contro una realtà […] per la ragione umana cieca ed impervia ma insopprimibile» [20].
V.
Per ricostruire pienamente questo testo di Rensi, e collocarlo in un ampio dibattito europeo – che è poi il compito essenziale di una seria storiografia filosofica – sarebbe necessario riprendere in mano la tradizione del socialismo utopistico e dei teorici del “comunismo” delle origini per mettere in evidenza i punti di convergenza e quelli di contrasto. Rensi cita – criticandolo aspramente – Kropotkin [21] ma anche Sorel, Fourier e Marx ed Engels. Impossibile ricostruire l’intera portata del suo pensiero, senza confrontarlo con autori come Schopenhauer, Nietzsche e segnatamente Spengler con il quale condivide la visione del mondo come continua ripetizione di cicli [22]. Aperto è il confronto con Simmel ma noi riteniamo anche – sebbene non sia mai citato – con Max Weber. Fondamentale sarebbe riprendere le motivazioni profonde delle polemiche con Croce e Lombardo-Radice e chiarire i rapporti con Giovanni Gentile. Inoltre, non meno importante e sotterranea è la corrente del pensiero classico greco sia scettico che stoico, che scorre attraverso tutto il testo di Giuseppe Rensi, che riporta all’attenzione una riflessione che non smette di suscitare interesse [23] e che va rimessa al centro del dibattito filosofico, proprio nel momento in cui, lo sviluppo tecnologico mette in seria discussione le categorie classiche d’interpretazione delle relazioni tra l’uomo e il lavoro.
VI.
Questo testo di Rensi, pur nei limiti di una interpretazione che potrebbe essere approfondita, risulta essere ancora vitale e capace di innescare molteplici riflessioni. Non si tratta di poca cosa per un filosofo che ha rischiato di sprofondare nell’oblio e che ora ritorna prepotentemente alla luce forse anche a causa di una profonda crisi spirituale dell’umanità contemporanea che sta mettendo in discussione tutte le categorie date per scontate una volta per tutte – e la centralità del lavoro nella vita dell’uomo come fonte della sua realizzazione personale sembrava essere una di queste – e che ora si ritrova nella necessità scottante di dar vita a pensieri diversi, in grado di mettere insieme i desideri di realizzazione degli individui [24] con le necessità sempre più oppressive di un nuovo ordine planetario devoto al culto del dio denaro.
Bologna, Giugno 2013
[1] Cfr. Giuseppe Rensi, Contro il lavoro. Saggio sull’attività più odiata dall’uomo, Gwynplaine, Camerano (AN) 2012, p. 33.
[2] Per quanto riguarda il nostro paese: «Ad aprile 2013 gli occupati sono 22 milioni 596 mila, in calo dello 0,1% rispetto a marzo (-18 mila unità) e dell’1,6% su base annua (-373 mila unità). Il tasso di occupazione è pari al 56,0%, in calo di 0,1 punti percentuali nel confronto congiunturale e di 0,9 punti rispetto a dodici mesi prima. Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 83 mila, aumenta dello 0,7% rispetto a marzo (+23 mila unità). Su base annua si registra una crescita del 13,8% (+373 mila unità). La crescita della disoccupazione riguarda sia la componente maschile sia quella femminile. Il tasso di disoccupazione si attesta al 12,0%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto a marzo e di 1,5 punti nei dodici mesi. Tra i 15-24enni le persone in cerca di lavoro sono 656 mila e rappresentano il 10,9% della popolazione in questa fascia d’età. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero l’incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 40,5%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 5,9 punti nel confronto tendenziale. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni aumenta dello 0,2% rispetto al mese precedente (+25mila unità). Il tasso di inattività si attesta al 36,2%, in aumento di 0,1 punti percentuali nel confronto congiunturale e in diminuzione di 0,1 punti su base annua». Cfr. ISTAT, Occupati e disoccupati (dati provvisori), del 31 maggio 2013, in: http://www.istat.it/it/archivio/91565.
[3] Cfr. G. Standing, Precari. La nuova classe esplosiva, Il Mulino, Bologna 2012, p. 11.
[4] In realtà, non è possibile separare arbitrariamente – a nostro avviso – l’insoddisfazione prodotta dalla precarizzazione della vita dalla dinamica più profonda dell’insoddisfazione dilagante come motore principale dell’intera condizione postmoderna così come hanno messo in evidenza A. Heller e F. Fehér: «La nozione di «società insoddisfatta» tenta di cogliere la specificità della nostra epoca dal punto di vista dei «bisogni», e, più precisamente, da quello della loro creazione, percezione, distribuzione e soddisfazione. Ci suggerisce inoltre che, nella riproduzione della società moderna, l’insoddisfazione collettiva agisce come forte agente motivazionale. Ne consegue che se le persone cessassero di essere insoddisfatte di ciò che hanno – ricchezze materiali, posizione sociale, relazioni sociali, conoscenze e attività da un lato, istituzioni, ordinamenti socio-politici e stato del mondo dall’altro – la società moderna non potrebbe più riprodursi. Conoscerebbe, quanto meno, un’era di decadenza e di disfacimento, e alla fine un sicuro collasso». Cfr A. Heller-F. Fehér, La condizione politica postmoderna, Marietti, Genova 1992, p. 21.
[5] Cfr. G. Standing, op. cit., p. 22.
[6] Si veda in questa direzione l’interessantissimo dossier: B. Fernandez, In India, un’esperienza che ridà vita ai villaggi, in Le Monde diplomatique – Il Manifesto, del 13 maggio 2013, pp. 16-17.
[7] Si vedano: G. Coppolino Billè, La ragione folle: lo scetticismo di Giuseppe Rensi, Ghibli, Milano 2012; F. Meroi, Giuseppe Rensi: filosofia e religione nel primo Novecento, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2009; F. Mancuso-A. Montano (cur.), Irrazionalismo e impoliticità in Giuseppe Rensi, Rubettino, Soveria Mannelli 2009; N. Greco, Giuseppe Rensi: la filosofia morale, Viaggidicarta, Palermo 2007; G.M. Barbuto, Nichilismo e stato totalitario: libertà e autorità nel pensiero politico di Giovanni Gentile e Giuseppe Rensi, Guida, Napoli 2007; A. Montano, Giuseppe Rensi: ethica ed etiche, Arte tipografica: Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 2006; P. Serra, Giuseppe Rensi: la rivolta contro il reale. Introduzione agli scritti politici giovanili con una antologia di testi (1895-1906), Città Aperta, Troina 2006; N. Greco, Giuseppe Rensi: l’uomo, il contesto, la filosofia, Viaggidicarta, Palermo 2005; N. Greco, Giuseppe Rensi: politica, autorità, storia, Viaggidicarta, Palermo 2005; A. Castelli, Un modello di repubblica: Giuseppe Rensi, la politica, la Svizzera, B. Mondadori, Milano 2004; G. Pezzino, Scacco alla ragione: saggio su Giuseppe Rensi, C.U.E.C.M., Catania 2003; N. Emery, Giuseppe Rensi: l’eloquenza del nichilismo, SEAM, Formello 2001; F. Meroi, Giuseppe Rensi, Leo S. Olschki, Firenze 2000; P. Serra, Il pensiero politico di Giuseppe Rensi: tra dissoluzione del socialismo e formazione dell’alternativa nazionalista 1895-1906, F. Angeli, Milano 2000.
[8] Cfr. G. Rensi, op. cit., pp. 36-38.
[9] Fondamentale in questa direzione risulta ancora la lettura di M. Weber, Sociologia delle Religioni, 2 Voll., UTET, Torino 2008.
[10] Ibidem, pp. 39-40.
[11] Ibidem, pp. 43-44.
[12] Ibidem, p. 62.
[13] Ibidem, p. 74.
[14] Ibidem, p. 75.
[15] Ibidem, p. 55.
[16] Ivi, pp. 55-56.
[17] Ibidem, p. 102.
[18] Ivi, p. 102.
[19] Ibidem, p. 103.
[20] Ibidem, pp. 112-113.
[21] Ibidem, p. 137.
[22] Ibidem, p. 151.
[23] C’è una vasta e articolata letteratura contro il lavoro; i più recenti – e per certi versi riusciti – esempi sono: P. Godard, Contro il lavoro, Elèuthera, Milano 2011; R. Kurz-E. Lohoff-N. Trenkle, Manifesto contro il lavoro. La dittatura del tempo astratto, DeriveApprodi, Roma 2003.
[24] «Il problema esistenziale della vita moderna può essere riassunto nei termini seguenti: come possiamo trasformare la nostra casualità in destino, senza rinunciare alla libertà e senza aggrapparci al fato o alla necessità? Come possiamo fare nostro il contesto sociale senza ricadere in esperimenti rivelatisi inutili o fatali, quali l’ingegneria sociale e la politica redentrice?» Cfr. A. Heller e F. Fehér, op. cit., p. 26.
* Pietro Piro (Termini Imerese, 1978) è uno studioso attento alle dinamiche di disumanizzazione radicale del nostro tempo. I suoi più recenti lavori sono: Francisco Franco. Appunti per una fenomenologia della potenza e del potere (2013); Il dovere di continuare a pensare (2013). Ha tradotto e introdotto J. Ortega y Gasset, Appunti per un commento al Convivio di Platone (2012) e S. Ramón y Cajal, Psicologia del Don Quijote e il Quijotismo (2012) e curato la postfazione a J. Ortega y Gasset, Meditación de la Técnica (2011). Dottore di Ricerca in “Comunicazione Politica” è stato visiting scholar presso il Dipartimento di Storia Contemporanea della UNED di Madrid e ha svolto attività di ricerca presso il fondo filmico della Filmoteca Española di Madrid.
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24 giugno 2013 alle 12:08
Mi ha fatto molto piacere leggere questo articolo perché è in armonia con quanto vado dicendo nelle mie lezioni di filosofia… e mi ha fatto piacere scoprire Rensi, cui non avevo dedicato mai attenzione.
24 giugno 2013 alle 21:20
Punizione divina, e perciò da evitare, poi nobilitata… infine esso si mostra nella sua vera essenza onto-sociale-politica nella frase ambigua inserita in quel suo contesto: “Arbeit macht frei”. E’ un filosofo controcorrente in una società costituita sulla retorica ancora reiterata da ideologi, politici, economisti, filosofi… gente comune completamente vissuta dall’ideo-onto-logia in cui è nata. Le repubbliche dignitose, che si fondano sul lavoro-dolore di molti e la ricchezza di pochi, il violento Go(l)d domina il mondo, ad alcuni distribuisce paradisi fiscali e non, ad altri rapine morte e dolore. Questi ultimi ormai sono complici del proprio soffrire rassegnati e consapevoli….
1 ottobre 2013 alle 10:16
Grazie. Vi segnalo “Giuseppe Rensi, in dialogo con Antonio Rosmini”: http://blog.libero.it/Filosofiloquio/12388197.html
2 ottobre 2013 alle 07:34
Grazie a lei Sara.
Un saluto cordiale.
La Redazione