«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot
Quando Platone, in una pagina del Fedone, scrive «fino a quando abbiamo il corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto malanno, noi non riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo» (Platone, 2007, p. 55) fissa un punto teorico centrale della riflessione filosofica occidentale. Il corpo è ostacolo della conoscenza. Pertanto, tutto ciò che inerisce alla dimensione biologico-corporale deve essere interpretato nei termini di patologia dell’anima (psyché), sostanza semplice e unitaria, e tuttavia, tripartita: la parte razionale, situata nel cervello, è portatrice di saggezza; la parte irascibile, collocata nel torace, di coraggio; la parte concupiscibile, localizzata nell’addome, di temperanza. La tesi socratico-platonica segnala che un legame così intimo con il corpo renda l’anima incarcerata, e quindi, incapace di raggiungere lo stato massimo di intensità spirituale: proprio da qui, agli occhi di Nietzsche, germina la decadenza intellettuale d’Occidente.
«Chi pensa che da un mondo finito si possa trar fuori una crescita infinita, è uno stupido. O un economista» recita la nota boutade (che poi tanto comica non è; cioè, fa sorridere, sì, ma proprio perché sappiamo tutti quanto sia vera). Lo stesso potrebbe dirsi per il cervello e per le sue capacità: c’è oggi una certa neuroscienza che pretende di vedere all’orizzonte un’estensione pressoché infinita delle facoltà cerebrali dell’uomo, finanche – secondo l’auspicio di certa fantascienza degli ’80 (si pensi a Software di Rucker) – di smaterializzare le potenzialità del pensiero da quelle della materia corporale; dimenticando che “l’orizzonte”, appunto, è quella linea che… si allontana a mano a mano che ci si avvicina a essa. Continua a leggere →
Il doppio movimento è qui assolutamente irrinunciabile: si scoraggia sempre più la relazione, l’unica vera attuazione del potenziale “comunitario”, cellula germinale di ogni progetto di condivisione che inerisca il sociale e il politico, e si sostituisce questa con dispositivi surroganti che non hanno – come invece la relazione minaccia di avere – un potenziale eversivo. Dispositivi che, anzi, avvitano il soggetto dentro una logica solipsistica, auto-sufficiente. Ciò fa si che la relazione, da cornice naturale di ogni processo comunicativo, divenga il prodotto secondario di una comunicazione passata attraverso manuali di efficacia, marketing del contatto, stilizzazione del gesto, desessualizzazione del desiderio. È quanto richiesto dalle necessità di un processo a doppio binario: la frammentazione dell’unità ̶ di una forma operativa, trasformativa, di coesione sociale – da una parte, la crescente globalizzazione – non solo economico-finanziaria ma culturale ̶ dall’altra.
In realtà, dietro il fenomeno del corpo disabitato [1], si consuma un doppio ordine di necessità, ciascuna disponendosi su un diverso livello: si sviluppa un mercato fiorente del fitness, coi suoi prodotti, le sue mode, i suoi santuari, le sue certezze, un pacchetto complessivo che richiede una dedizione sorretta dall’angoscia del tempo [2], in una sorta di assedio che precipita istante dopo istante il soggetto in una condizione di dipendenza; si realizza un programma di depauperamento della relazione – quella fra persone – adeguatamente sostituita da qualcosa che la imita e la riproduce al ribasso – quest’ultima fra individui – completamente prosciugata di tutto ciò che esonda dagli argini dell’essere per e che, altrimenti, affermerebbe la priorità naturale dell’essere con. Continua a leggere →
In un momento particolare dello sviluppo – di solito nella prima infanzia – è possibile che l’individuo faccia un determinato tipo di esperienza, l’esperienza A, o più esperienze similari ripetute – più o meno dolorose, traumatiche, o comunque inibenti. Questo tipo di esperienza potrà far si che il soggetto venga ad assumere una determinata “posizione esistenziale” – come la chiama Berne – rispetto alla quale verrà a determinarsi il proprio senso di sé, e di sé in rapporto agli altri: questa posizione mi porterà a strutturare un determinato copione di vita, a partire dal quale io potrò, nel bene o nel male, gestire i miei rapporti, le mie emozioni, i miei comportamenti, per il resto della mia vita. Uno schema sostanzialmente, un modello operativo interno, che, irrigidendosi, può trasformarsi in un vero e proprio copione. Una maschera capace di mediare tra la non soddisfazione dei miei bisogni interni da parte dell’altro, e la dipendenza d’amore rispetto a quest’ultimo – il bisogno d’amore dell’altro –, che continuerò ad avere indipendentemente dalla soddisfazione o meno di quei bisogni.
Il corpo: ossessione del mondo moderno, dalla forma fisica alle miriadi di trasmissioni e pubblicazioni di cucina, dalla chirurgia estetica dilagante alle due tipiche malattie-sintomo dei nostri tempi, l’anoressia e la bulimia, dalle SPA con i loro nutritissimi “campionari di massaggi” alle polemiche sulle taglie dell’alta moda. Sembra che non si riesca a pensare ad altro, o almeno che non se ne possa prescindere.
E forse un motivo c’è, al di là di tanta materia per i sociologi: il corpo, con la sua immediatezza, con la sua ineludibile datità, continua a suscitare interrogativi, anche filosofici, in grado di resistere all’usura del tempo e all’erosione (altrove distruttiva) dell’odierno dominio del virtuale. Il corpo è il “volto dell’altro” (Lévinas) che ci chiama in causa ancor prima di riuscire a comprenderlo; è quell’invito alla relazione che spesso oltrepassa, e precede, la parola. Il corpo non è mai muto; né inerte: avvicina, fino all’estremo dell’amore più grande, o respinge, fino al più terribile degli assassinii. È quello dei legami “fisici” e delle simpatie “a pelle”.