Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

“Essere corpo”: fra la filosofia fenomenologica e la pratica clinica

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Quando Platone, in una pagina del Fedone, scrive «fino a quando abbiamo il corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto malanno, noi non riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo» (Platone, 2007, p. 55)  fissa un punto teorico centrale della riflessione filosofica occidentale. Il corpo è ostacolo della conoscenza. Pertanto, tutto ciò che inerisce alla dimensione biologico-corporale deve essere interpretato nei termini di patologia dell’anima (psyché), sostanza semplice e unitaria, e tuttavia, tripartita: la parte razionale, situata nel cervello, è portatrice di saggezza; la parte irascibile, collocata nel torace, di coraggio; la parte concupiscibile, localizzata nell’addome, di temperanza. La tesi socratico-platonica segnala che un legame così intimo con il corpo renda l’anima incarcerata, e quindi, incapace di raggiungere lo stato massimo di intensità spirituale: proprio da qui, agli occhi di Nietzsche, germina la decadenza intellettuale d’Occidente.

Una concezione completamente diversa da quella di Platone è offerta da Aristotele. In Sull’anima, lo Stagirita definisce l’anima come «la forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza» (Aristotele, 1991, p. 137) e pertanto in quanto «atto del corpo» (p. 138). L’anima non è affatto l’ostaggio del corpo e il corpo non è la prigione dell’anima: l’anima e il corpo costituiscono un’ indissolubile articolazione sostanziale, vivente, di materia e di forma, di potenza e di atto, la quale consente, più che l’avere un corpo, l’essere un corpo.

La teorizzazione aristotelica troverà riscontro, in epoca contemporanea, nella ricerca fenomenologica di Husserl. In Idee II, nel tematizzare il rapporto sussistente fra il corpo e la psiche, il filosofo di Prossnitz riporta un passo del sopracitato testo di Aristotele: «Si muove: “Quando una cosa è legata con un che di mobile, essa si muove insieme con il suo movimento, e così è mosso anche l’intero formato della due cose”. Ciò vale tuttavia soltanto quando questo legame è il proprio di un intero psichico» (Husserl, 2002, p. 169). Il fenomenologo, recuperando e percorrendo la via tracciata da Aristotele, formula l’idea che la psiche non sia contrapposta al corpo bensì, a questo, completamente accordata: «La psiche è costantemente una insieme al corpo vivo […] ciò che noi dobbiamo contrapporre alla natura materiale come un secondo genere di realtà non è la “psiche”, bensì l’unità concreta di corpo vivo e di psiche, il soggetto umano (oppure animale)”» (p. 170).

La filosofia husserliana è portatrice di una distinzione di alta portata: quella fra il corpo vivo, il Leib, e il corpo oggetto, il Körper, che non è dotato, a differenza del primo, di connessione con lo psichico e che perciò non può venire considerato in quanto corpo vivente. Come Husserl precisa in Idee II, il corpo dotato di vita è l’«organo percettivo del soggetto esperiente», il soggetto fenomenologico nella sua completa concrezione, che possiede la sua vita trascendentale di coscienza e che, al contempo, vive nella rispettiva corporeità, in quella Leiblichkeit che lo contraddistingue sia come soggetto umano in generale nel suo peculiare modo di sentire il corpo proprio sia come individuo nell’unicità della sua corporeità.

Influenzato dagli insegnamento husserliani, il fenomenologo francese Maurice Merleau-Ponty ha riservato a sua volta grande importanza all’esperienza vissuta del corpo.

Ne Il corpo vissuto, il filosofo riconosce che «il corpo è il veicolo dell’essere al mondo, e per un vivente avere un corpo significa unirsi a un ambiente definito, confondersi con certi progetti e impegnarvisi continuamente» (Merleau-Ponty, 1979, p. 83).  Il corpo vivo, localizzato al «centro»di quella che il filosofo Ortega y Gasset definirebbe essere la circostanza, ovverosia la compresenza di uomo e mondo, esprime l’apertura all’esperienza dello spazio circostante nel quale sono inclusi anche gli altri soggetti viventi. Poiché quello fra la coscienza corporea e il mondo-ambiente (Umwelt) è un mutuo rapporto, la finitezza costitutiva del primo termine provoca dei risvolti del tutto necessari circa la percezione del secondo termine: le prospettive formulate dalla coscienza riguardo al mondo sono dotate di «opacità» e di «contingenza», e quindi, per divenire complete, bisognose dell’integrazione delle prospettive elaborate dall’alter al quale l’ego è rapportato tramite il rispettivo corpo organico che è garante del suo essere-nel-mondo, e per questo, del suo essere-con-l’altro.

Come Heidegger ha illustrato ne I problemi fondamentali della fenomenologia, la multiformità del mondo dentro il quale l’esserci si muove, percepisce, progetta e patisce, in cui egli è per mezzo del suo corpo dunque, suggestiona il suo vissuto in modo così poderoso da consentirgli di riconoscer-si senza posa, e pertanto, di elaborare il rispettivo : «L’esserci non è solamente, come ogni ente, identico a se stesso […] l’esserci ha invece un’identità specifica con se stesso: l’ipseità (Selbstheit) […] cioè “l’aver-se-stesso”» (Heidegger, 1990, p. 163).

Poiché l’ipseità partecipa dell’esistenza, si può asserire che l’esserci esiste in vista di se stesso, e vale a dire, in vista della realizzazione delle proprie possibilità fattuali di vita, di azione e di relazione con gli essenti intramondani, che sono consentite soltanto da quella struttura originaria ed essenziale qual è il Leib. Allora, esistere significa, più precisamente, trascendere il proprio essere e la propria circostanza, riuscire a oltrepassarli sempre e di nuovo ai fini del rinnovamento di sé e del mondo in cui si abita. Dunque, dal punto di vista ontico-ontologico si è perché, in quanto presenze viventi, si esiste nella e come trascendenza.

Siccome la fenomenologia propone una vera e propria interpretazione antropologica che descrive il modo in cui l’essere umano è costituito, non sorprende che i contributi di tale approccio, in prima linea quelli di Husserl e di Heidegger, abbiano esercitato una profonda influenza sulla psicologia clinica, nello specifico, sulla psicopatologia e sulla psicoanalisi. Heidegger si è interessato, sia pure limitatamente, dei problemi della psichiatria ovvero della psicoanalisi mentre Husserl non se ne è occupato in senso specifico, ma sull’ambito psichiatrico-psicoanalitico i due hanno avuto un ruolo di parti portata, diverso nella ricezione in base alla diversità del punto centrale del loro pensiero: la vita trascendentale di coscienza nel caso della riflessione husserliana; la vita nella sua autentica valenza esistenziale nel caso della riflessione heideggeriana.

Quello che va immediatamente tenuto in considerazione è che, nel campo dei disturbi psichici, l’impostazione fenomenologica tout court si allontana da una spiegazione di ordine causale; per converso, essa individua quelle che sono le condizioni e le strutture essenziali su cui l’universo umano-individuale è fondato fino a risalire alle sue esperienze vissute[1].

L’approccio del metodo fenomenologico tenta di comprendere i fenomeni, e dunque i sintomi o i disturbi, provati dall’individuo e, per poter arginare una patologica situazione di vissuto, ricerca e valorizza le frazioni esperienziali maggiormente condivisibili. Praticata l’epoché, la sospensione del giudizio, come strumento propedeutico che impedisce una proiezione dei contenuti del terapeuta affinché la persona che vive la situazione di disagio possa esprimersi, lo psicopatologo, che sa di essere sempre un «eterno debuttante» come affermerebbe Husserl, si avvicina in modo comprensivo alla soggettività del paziente e intuisce con evidenza fondamentale le caratteristiche uniche di quella condizione vissuta.

Dunque, la terapia fenomenologica ed esistenziale è un accostamento empatico, perché di ordine intersoggettivo, che tende a un’evoluzione pratica. Quando incontra il paziente, il terapeuta intuisce con immediatezza una corporeità complessa che si muove, gesticola, comunica e che vive attraverso modi irripetibili e peculiari di progettare, di difendere e anche di aggredire la propria dimensione esistenziale. Allora, è soltanto tramite l’incontro terapeutico che il sintomo espresso dal corpo, definito da Husserl come «l’ambito delle decisioni ultime», acquisisce la sua storia e il suo senso: una storia e un senso che vengono a crearsi nella misura in cui essi vengono espressi, colti, condivisi e trasformati da entrambe le parti in gioco. Lo psicopatologo non dialoga con un Körper ma con un soggetto desto che vive e che subisce un’esperienza problematica da comprendere e, in chiave ermeneutica, da tradurre. Lo specialista che vuole fenomenologicamente disporsi deve essere disponibile a interagire con empatia, a sviluppare un ascolto mirato, degno di una compartecipazione vissuta circa una sofferenza reale, profonda e difficilmente accettabile dal solo micro-cosmo del paziente. Ai fini dell’elaborazione di una diagnosi accurata ed efficace, il focus dell’esplorazione deve spostarsi dalla semplice descrizione al tentativo di capire l’esperienza soggettiva: come ha sottolineato Jaspers, l’oggetto di interesse non dev’essere il comportamento del paziente bensì, e unicamente, ciò che egli prova e che viene estrinsecato, sul piano fenomenologico, dalla pregnanza metaforica delle determinazioni del proprio Leib.

La distinzione fra il corpo vivo percipiente di un soggetto intenzionale e il suo supplemento, ovverosia il corpo fisico o organico che supporta le funzioni biologico-impersonali, non si restringe soltanto alla posizione filosofica della fenomenologia e ai suoi risvolti operativi sul terreno della psicopatologia. A partire dai primi anni ’90, infatti, è stata esattamente questa differenziazione ad aver ispirato anche la svolta feconda degli approcci embodied elaborati dalle scienze cognitive.

Le teorie dell’embodied cognition, che si contrappongono tanto al cognitivismo classico quanto al dualismo proposto da Descartes, hanno osservato che la mente e il corpo, cartesianamente, la res cogitans e la res extensa, non siano parti disgiunte e autonome bensì del tutto interdipendenti e compartecipi della costituzione dei procedimenti mentali e cognitivi. Questi ultimi, non riducendosi a mere operazioni del sistema cognitivo, coinvolgono molte caratteristiche del corpo e numerosi processi d’interazione con l’ambiente circostante. Pensieri, idee, concetti e categorie sarebbero forgiati da particolari modi di essere incarnati: l’apparato percettivo, le intuizioni che ubbidiscono alle capacità di movimento, la spontaneità cinestetica, i fondamenti ontologici localizzati sia nel cervello sia nel corpo, sono tutti elementi che partecipano della disposizione effettiva di ognuno di noi.

Se le ramificazioni del cognitivismo tradizionale hanno sostenuto che le funzioni cognitive siano attuabili a prescindere dagli aspetti contingente-corporali, l’impostazione di ricerca della cognizione embodied ritiene che le condizioni materiali anticipino l’intelligentia, la informino e ne mutino i contenuti e la strutturazione. L’idea di fondo, quindi, è quella secondo la quale la mente debba venire esaminata nel complesso delle sue interazioni con il corpo fisico che a sua volta interagisce con il rispettivo mondo-ambiente. In termini squisitamente fenomenologico-husserliani, viene precisato che l’apertura all’Umwelt sia consentita dalla cinestesi, il complesso di sensazioni tattili e visive direttamente egologiche poiché espressioni della libertà vitale dell’io esperiente, per mezzo della quale si costituisce la percezione della spazialità ove il soggetto estrinseca il proprio «io posso» correlato al Leib: «Nel mio campo percettivo io trovo me stesso, egologicamente attivo nei miei organi e, in generale, in tutto «ciò» che mi inerisce, egologicamente, nei miei atti egologici e nelle mie facoltà (Vermögen). Ma poiché gli oggetti del mondo-della-vita, quando rivelano il loro essere proprio, si rivelano necessariamente come corporeità ma non come oggetti meramente corporei, di fronte a tutti gli oggetti noi siamo sempre corpo proprio» scrive Husserl ne La crisi delle scienze europee (Husserl, 2015, p. 137).  

Quando il soggetto intuisce un’oggettualità, i caratteri motori, percettivi e cognitivi a essa associati gli consentono non solo di esperire il dato ma anche di identificarlo come una componente o meno del proprio sé corporeo. Il noto esempio della Rubber Hand illusion, un’illusione multisensoriale che fa percepire come propria una semplice mano di gomma, attesta che la modificazione del sé corporale, o della consapevolezza incarnata, sia possibile. Ciononostante, è stato dimostrato anche che se la mano di gomma non è collocata in una posizione confacente alle coordinate egologiche del soggetto l’illusione non attecchisce e ciò vale ancor di più nell’eventualità in cui l’ente fattizio non assomiglia a una parte corporea.

In tempi piuttosto recenti, le ricerche dell’embodied hanno segnalato che la cognizione incarnata abbia una duplice natura: percettiva poiché l’oggettualità è incorporata nell’immagine corporea dell’io (la mano di gomma collima con l’immagine mentale che il soggetto ha della propria mano); motoria dato che l’oggettualità è incorporata nello schema corporeo dell’ego (lo strumento-oggetto diviene così un’estensione corporale). Tuttavia, le neuroscienze hanno individuato che la separazione fra gli apparati sensoriali e quelli motori non sia così netta. Lo psicologo Francesco Della Gatta, nel suo articolo Embodiment, sé corporeo e sviluppo della consapevolezza di sé (2017), riporta quanto segue:

è stato dimostrato che in presenza di oggetti afferrabili si attivano una serie di neuroni viso-motori parieto-frontali (detti canonici), che svolgono un ruolo decisivo nella trasformazione dell’informazione visiva correlata ad un oggetto negli atti motori necessari all’interazione con esso. Grazie alle loro caratteristiche, sono stati designati come i neuroni che rispondono alle affordances oggettuali.

Fra percezione e movimento non c’è una scissione marcata ma un’intesa profonda che irradia la consapevolezza del sé come soggettività incarnata o corporeità vissuta. Citando le parole dei filosofi della mente Gallagher e Zahavi: «è semplicemente un dato di fatto che siamo incarnati, che le nostre azioni e percezioni dipendono dal fatto che siamo dotati di un corpo, e che la cognizione prende forma grazie alla nostra esistenza corporea» (Gallagher e Zahavi, 2008, p. 131).

Ora, nelle battute finali della sua analisi genetica contenuta ne La cosa e lo spazio, Husserl, sottolineando il carattere di problematicità insito nella dimensione dell’esistenza corporea, afferma: «Non posso vedermi in movimento come tutti gli altri corpi […] mancano qui certe possibilità percettive che, invece, sussistono per tutte le altre cose. Posso però empatizzare con l’altro e porre in relazione le sue affermazioni con le mie, o le mie, con le sue; le sue affermazioni sulle sue manifestazioni di movimento, e le mie affermazioni sul fatto che, e sul come, lo vedo muoversi od essere mosso» (Husserl, 2009, p. 347).

L’empatia (Einfühlung), la capacità umana di fare esperienza emotiva dell’alter, è la prima delle argomentazioni di cui Husserl si serve per riuscire a comprovare l’esistenza dell’alterità quando, a partire dagli ’10 fino agli anni ‘30, il filosofo riflette sul fenomeno intersoggettivo che viene illustrato nella quinta delle sue Meditazioni cartesiane.

Il concetto di “empatia”, introdotto dallo psicologo Theodor Lipps, contemporaneo di Husserl, è di notevole rilevanza perché esprime l’idea secondo la quale il riconoscimento dell’altrui soggettività non avvenga dal punto di vista della speculazione bensì, e unicamente, della vivenza, e quindi, dell’atto di esperienza. Aspetto teorico, questo, riscontrabile anche nell’impostazione fenomenologica di Edith Stein. La filosofa, infatti, sostiene che l’empatia sia un atto passivo d’esperienza con cui l’io riceve in modo originario ciò che non in lui non è primigenio. Avendo dinnanzi a sé l’alterità, nella sua veste di vissuto istantaneo, l’incontro con l’altro produce nell’io l’intuizione del suo vissuto tramite un senso di differenza. L’intuizione viene parafrasata in parole e restituita all’altro ai fini della sua verifica senza che la soggettività dell’ego cambi. Va da sé, che in ragione di un’ineliminabile irriducibilità individuale, l’intuizione empatica del vissuto estraneo non sarà mai piena. Ma il grado raggiungibile sarà bastevole perché, pur limitatamente, l’io sentirà dentro di sé ciò che proviene da fuori di sé. E così, il sentire andrebbe interpretato nel modo in cui lo ha inteso la filosofa María Zambrano, allieva del grande Ortega, ovverosia, in quanto facoltà che siamo e che precede il rapporto con le facoltà puramente intellettuali che, invece, abbiamo.

Insomma, quello che motiverebbe l’altrui soggettività è l’espressione della persona: il suo linguaggio, i suoi movimenti e le reazioni provenienti dal corpo denoterebbero che all’interno di quest’ultimo sia presente una vita di coscienza. Ben presto però, Husserl capisce che è molto vago parlare di un sentimento dell’altrui soggettività e sottolinea la funzione mediatrice detenuta dal Leib: il motivo per cui il corpo dell’altro verrebbe riconosciuto da me come “corpo vivente” consiste nel fatto che esso risulta analogo al mio.

L’analogia fra il corpo dell’ego e quello dell’alter consente una trasposizione di senso che assegna al corpo dell’altro il valore di essere “corpo vivente”: «Se ora un corpo appare distinto nella mia sfera primordinale e mi si presenta come simile al mio essere corporeo, tale cioè che possa formare un appaiamento fenomenale col mio corpo, è allora senz’altro chiaro che quel corpo deve assumere il senso di «corpus» dal mio corpus stesso mediante un trasferimento di senso» (Husserl, 1989, p. 164) afferma il fenomenologo. La somiglianza avvertita dall’io fra il corpo organico proprio e quello dell’alter postula un’appercezione: quest’ultima non è intesa sotto forma di una conseguenza dedotta bensì in qualità di una comprensione spontanea. La comprensione dell’altro ego, anche come soggetto pensante allora, viene stabilita per mezzo di un’associazione di accoppiamento tra due unità diverse ma, essendo presenti, analoghe. Fra le due monadi però, solo l’ego è presente in carne e ossa, e quindi, con evidenza originaria; poiché cade in una percezione seconda, l’altro io viene, invece, appresentato.

A ben guardare, anche questo secondo argomento, la percezione della somiglianza fra i corpi vivi, non sembra talmente decisivo da riuscire a dimostrare l’esistenza dell’alter ego.

La terza e ultima argomentazione elaborata da Husserl riguardo al fenomeno intersoggettivo inerisce alla questione della temporalità, un’esperienza contemporanea per tutti, dunque già di per sé plurale, la quale connette e coordina ogni singola presenza vivente.

Le presenze viventi dotate di Leib sono coesistenti all’interno di quella può essere riconosciuta come un’ampia comunità temporale. Continua Husserl: «è originariamente fondata la coesistenza del mio io (e del mio io concreto in generale) con l’io estraneo, del mio vivere intenzionale con il suo, delle mie «realtà» con le sue; […] si è fondata una forma temporale comune, ove ogni temporalità primordinale ottiene da sé il puro significato di un modo originale e soggettivo-individuale di apparizione della temporalità oggettiva» (Husserl, 1989, p. 180).

Il grado iniziale della formazione intermonadica consiste nel relazionismo vivente fra la monade originaria e la monade estranea, «come esistente per sé», esattamente «come io sono per me», e pertanto, «anche in comunità e perciò legati a me come ego concreto, monade» scrive Husserl. L’altra presenza vivente è, in un orizzonte mondano comune, compresente con la presenza originaria prima che quest’ultima si interroghi circa l’esistenza concreta dell’alter: allora, l’altro io è, assieme all’ego, co-donatore di senso storico al mondo sicché il reale, storico, viene co-costituito da più monadi. Il mondo storico è una «comunità aperta di monadi» e porta con sé, per sua «costituzione necessaria», il «mondo oggettivo identico». Naturalmente, lo scorrere del tempo storico permette la formazione di ulteriori ordini di senso intersoggettivo, «gradi superiori della comunità intermonadologica» come li appella il pensatore. L’estensione intermonadica è di grandiosa portata: nei termini del popolo, che ulteriormente si amplia assumendo su di sé le tonalità della cultura, dell’identità, della nazione, e in dimensioni aggiuntive le quali, progressivamente, raggiungono l’orizzonte dell’umanità e della storia in generale la quale attraversa ciascun livello intersoggettivo, da parte a parte, dal punto di vista teleologico. E nel momento in cui l’ego riflette sul tema generale della storia, e dunque, su quello dell’umanità, riconduce le universalità ai livelli particolari, inferiori, fino a raggiungersi in quanto monade individuata.

Allora, se il caposaldo del relazionismo fra i soggetti viventi è il tempo, e per estensione la storia, significa che il soggetto possa venire interpretato come tale soltanto se situato, per mezzo del proprio corpo, presso uno spazio circostanziale: uno spazio che è storico, culturale e comunitario. In quest’ultimo, le soggettività incarnate coabitano, comunicano, alle volte si corrispondono e altre volte no. Nel momento in cui appaiono, gli altri consentono al mio io, dall’eccletticità bio-psico-sociale, di trascendere la propria solitudine e, quindi, di evitare l’isolamento.

Come viene messo in luce dal contesto delle pratiche assistenziali e riabilitative, le presenze vissute sono solite a condividere le proprie esperienze, idee, aspettative, emozioni e pre-comprensioni, ad arricchirsi, supportarsi e cooperare le une con le altre. Quando l’operatore sanitario entra in contatto con il corpo vissuto del paziente non interagisce soltanto con il corpo dell’alterità ma anche con il proprio corpo, il quale è abitato da altrettanti significati e trascorsi.

Dunque, i percorsi esperienziali di cura si configurano come degli incontri, possibilmente fruttuosi, fra ego corporei, in cui le esistenze di entrambe le parti sono interamente compartecipi nella buona riuscita dell’iter. Tramite le forze del dialogo, dell’ascolto, della fiducia e dell’empatia, il terapeuta e il paziente si riconoscono nell’individualità incarnata che è loro propria, contraddistinta. Pertanto, non sarebbe inopportuno affermare che, nella pratica assistenziale, il terapeuta tocchi il paziente il quale, a sua volta, tocca il medico (Zannini, 2017, p. 78).

Il cosiddetto touch (letteralmente “tocco”) è un approccio metodico adoperato spesso durante l’attività di assistenza per facilitare la quotidianità del paziente, nella terapia, ma anche come parte integrante della sfera comunicativa. La pratica clinica offre molti esempi di applicazione dell’approccio touch, tutti diversi fra loro, ma dall’analoga intensità emotiva.

Nella pratica medica, infatti, si possono osservare due macrocategorie di intervento fisico: una prima, più improntata alla mera esecuzione di una prestazione sanitaria e nota come “touch procedurale o di lavoro”, nella quale il professionista sanitario entra in contatto con il paziente al fine di eseguire un intervento terapeutico o di effettuare un esame obiettivo unicamente per mezzo delle sue abilità, conoscenze e capacità diagnostiche, tralasciando, di fatto, qualsiasi aspetto empatico. Quest’ultimo si pone invece al centro della seconda categoria di interfaccia con l’assistito, ovverosia, il cosiddetto “touch empatico”.

Il “touch empatico” vede l’operatore entrare in sintonia con la persona alla quale presta aiuto, toccandola direttamente e delicatamente senza tramiti fisici, e arrivando, attraverso la sua presenza, il suo tocco e il suo sguardo, a dare conforto al paziente che avverte dentro di sé il desiderio e il bisogno di potersi confidare con il medico o con l’infermiere presente. Questa particolare connessione empatica che viene a instaurarsi pare essere particolarmente benefica al fine dell’outcome terapeutico e non solo a livello psicologico, dato che si favorisce il rilassamento, ma anche fisico, aiutando, per esempio, come testimoniato da diversi studi clinici, a guarire da lesioni cutanee, sottolineando in tal modo, e ancora una volta, l’esistenza di una commistione tra psiche e corpo vivente.

L’importanza del con-tatto terapeutico con l’alter ai fini del processo di guarigione risulta essere ancora più evidente in questo periodo dominato, e gravemente destabilizzato, dall’emergenza SARS COV-2. Il personale sanitario si trova costretto a limitare il più possibile le sue interazioni con i pazienti positivi tramite l’ausilio di DPI (dispositivi di protezione personale) dedicati che, da un lato, proteggono la salute e l’attività degli operatori sanitari ma, dall’altro lato, contribuiscono ad alimentare il senso di angoscia e di abbandono del paziente il quale, intimorito dall’emergenza e dall’assenza dei propri cari, si vede negato anche il più minimale contatto umano.

Come è stato già accenato, tale sofferenza, e in egual misura ogni altra turbe della sfera psichica, non deve essere interpretata esclusivamente come un malus: essa conferisce sia al paziente sia al professionista che lo prenderà in cura uno strumento fondamentale per l’indagine del proprio interiore mondo emotivo. Secondo il “modello fenomenologico ed esistenziale”, uno dei possibili modelli psicoterapeutici di intervento (Pascolo-Fabrici, Ottolenghi, 2016, p. 96), ogni individuo tende innatamente alla crescita personale, alla massimizzazione delle proprie potenzialità e alla rispettiva autodeterminazione ed è proprio attraverso l’analisi e la descrizione fenomenologica di queste fratture interne che sottendono a problematiche psicopatologiche che il soggetto riuscirà, grazie alla guida del terapeuta, a giungere al superamento della sua condizione di fragilità e a una maggiore conoscenza del proprio Io.

Bibliografia

Platone, Fedone, trad. di V. Stazzone, Armando, Roma 2007

Aristotele, L’anima, trad. di G. Movia, Loffredo Editore, Napoli 1991

E. Husserl, Idee II, trad. di V. Costa, Einaudi, Torino 2002

M. Merleau-Ponty, Il corpo vissuto, trad. di A. Sordini, Il Saggiatore, Milano 1979

M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, trad. di A. Fabris, il melangolo, Genova 1990

E. Husserl, La crisi delle scienze europee, trad. di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 2008

S. Gallagher, D. Zahavi, The Phenomenological Mind, Routledge, London 2008

E. Husserl, La cosa e lo spazio, trad. di A. Caputo, M. Averchi, Rubettino Editore, Soveria Mannelli 2009

E. Husserl, Meditazioni cartesiane, trad. di F. Costa, Bompiani, Milano 1989

L. Zannini, Il corpo-paziente, FrancoAngeli, Milano 2017

E. Pascolo-Fabrici, G. Ottolenghi, Oltre la psichiatria, EUT, Trieste 2016

Sitografia

Embodiment, sé corporeo e sviluppo della consapevolezza di sé (Dott. Francesco Della Gatta):

https://cutt.ly/hxZGaHa  (2021)

Il senso della clinica nell’esperienza psicopatologica (CIRF):

https://cutt.ly/5xZGAwr (2021)


[1] Il 28 novembre 2020, il CIRF (Centro italiano di ricerche fenomenologiche fondato e presieduto da Angela Ales Bello) ha tenuto, in forma telematica, un convegno molto interessante su Il senso della clinica nell’esperienza psicopatologica ai cui contenuti la presente ricerca non ha potuto non fare riferimento. Per chi fosse interessato a recuperare il convegno in questione, può trovare lo short link del video YouTube nella Sitografia soprariportata.

Autore: Sara Drioli

Sara Drioli è nata a Monfalcone (GO) nel 1995. Dottoressa in Discipline storiche e filosofiche e in Filosofia (Università di Trieste). Ha frequentato la Scuola di filosofia di Trieste ideata e diretta da Pier Aldo Rovatti. Appassionata di filosofia contemporanea e studiosa della fenomenologia husserliana su cui sono state incentrate entrambe le tesi di laurea. Attualmente, è borsista di ricerca in Storia delle società, delle istituzioni e del pensiero. Dal Medioevo all'età contemporanea (UniTS). Contatti: sara.drioli1995@gmail.com

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