«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot
The importance of manual labour and the superiority of humans over other creatures because they have hands has been emphasised many times in philosophy, anthropology, and sociology. Hegel, for example, said that “The hand is the animated creator of human happiness”. Heidegger argued that “Only a speaking, i.e. thinking, being can have hands and thus, through manipulation, perform the work of the hand”.
This short essay does not seek to demonstrate the superiority of humans over other living beings: rather, the intention is to analyse the possible nuances of a simple yet powerful gesture such as “holding hands”.
Keywords: hand, Aristotle, Michelangelo, Iliad, Émile, education, love, friendship, society
Importanza delle mani da Anassagora a Michelangelo
“Anassagora afferma che l’uomo è il più intelligente degli animali grazie all’avere mani; è invece ragionevole dire che ha ottenuto le mani perché è il più intelligente. Le mani sono infatti strumenti e organi e il disegno invariabile della natura nel distribuire gli organi consiste nel dare all’animale quanto sia in grado di usare […] Considerando quindi che tale è il corso migliore delle cose, e che di ciò che è possibile la natura porta sempre in atto il meglio, dobbiamo concludere che l’uomo non deve la sua intelligenza superiore alle mani, ma le mani alla sua intelligenza superiore. A colui dunque che è in grado di impadronirsi del maggior numero di tecniche la natura ha dato, con la mano, lo strumento in grado di utilizzare il più gran numero di altri strumenti. […] La mano sembra in effetti essere non un solo strumento, ma molti strumenti al tempo stesso, è infatti, per così dire, strumento prima degli strumenti”.
Le parole sono importanti e le congiunzioni anche. Infatti questo saggio non intende affrontare la questione della “filosofia del turismo”, bensì cercare di dimostrare che la con la filosofia si può fare movimentazione turistica, oltre che analizzare il nostro stare al mondo con senso critico. La filosofia, cioè, è catalizzatrice di un indotto turistico. La gente ama partecipare ai festival filosofici, che si trovano un po’ dappertutto. Ama ascoltare le parole dei filosofi. Ama quel senso di comunità che si costruisce nel momento in cui ci si ritrova attorno al focolare, tanto antico quanto nuovo, della parola che chiarifica, che interroga, che suscita dibattiti e che, perché no, seduce anche.
Dicevo che le parole sono importanti perché la riflessione che segue non è di quelle, tra l’altro molto diffuse in Internet, di una filosofia e di un’etica del viaggiare e del turismo, ma proprio del fatto che l’amore per la sapienza genera un turismo di cui mai si parla nel mondo.
Il legame tra i piedi ed il pensare ed il camminare come metafora della condizione umana
Le passeggiate dei filosofi antichi e le scoperte della scienza
Scorrendo la storia della filosofia, è possibile imbattersi in un certo numero di filosofi camminatori.
Camminare e filosofare sono, in effetti, attività affini, in quanto attività umane basate sulla ricerca e sull’esplorazione. Sono entrambe attività che rifiutano la fretta, la disattenzione
Gli studi e le ricerche effettuati nel XXI secolo sui benefici del camminare, non fanno altro che confermare quello che nel quinto secolo avanti Cristo il medico e filosofo greco Ippocrate aveva detto su questa semplicissima e salutare attività fisica: che il camminare è la migliore medicina.
«L’uomo è superiore agli animali non perché abbia la possibilità di torturarli, ma perché è capace di provare compassione per loro; e l’uomo ha compassione degli animali perché sente che in essi dimora il medesimo principio che alberga nell’uomo.»
Lev Tolstoj, “Pensieri di saggi”
Ha fatto il giro del web una foto che ritrae un cagnolino che si avvicina e che consola il giovane che in quel momento sta rappresentando la passione di Gesù, durante la drammatizzazione della Via Crucis.
La foto è stata scattata in Guatemala e ripostata sul web anche in Italia, suscitando i commenti ammirati degli internauti, i quali rimarcano la principale qualità mostrata dall’animale in questa occasione: l’empatia.
Gli animali sono entrati di frequente nelle rappresentazioni pagane e cristiane. Nelle prime, ad esempio, si trovano negli affreschi egizi, oppure in scene domestiche e di guerra di greci e romani, o, ancora, sono il simbolo dell’identità di un popolo: il lupo per gli irpini, il cinghiale per i sanniti, il picchio per i piceni, cioè di antichi popoli italici. Si tratta di animali totemici, cioè identificativi del proprio clan: l’antenato o lo spirito guida. Tra le seconde, ad esempio, si ricordano il lupo ammansito da San Francesco (anche se gli studi recenti dicono che in realtà si trattasse di un brigante), oppure il miracolo della mula che si inginocchiò a Sant’Antonio benedicente l’ostia.
Nel 1933, mentre la dittatura staliniana è nel suo periodo più buio e feroce, preoccupandosi al contempo di diffondere all’Estero l’immagine di una Russia fiorente e felice, una ragazzina russa di quindici anni, Nina Lugovskaja, inizia la stesura del suo diario. Da esso, emerge tutt’altra immagine di quell’enorme Paese in quegli anni e di ciò che sta attraversando la sua capitale, Mosca. In questa città, le perquisizioni della polizia sono giornaliere, la gente muore letteralmente di fame ed è proibito pronunciare parole di dissenso contro il regime.
Il diario è una esplorazione sulle emozioni private della ragazza e su quelle pubbliche, in quanto, come dice la filosofa statunitense Martha Nussbaum, che da sempre si occupa delle “emozioni politiche”: «le emozioni delle persone reagiscono alle istituzioni nelle quali esse vivono» (M. Nussbaum, La monarchia della paura, Il Mulino, Bologna 2020, pag. 143).
Da mesi in Francia il popolo si batte contro la legge che innalza l’età pensionabile a 64 anni. Il presidente Macron, sempre più scollato dalla realtà e sempre a difesa del potere finanziario di cui è espressione, è al vertice della sua impopolarità. La sua azione di governo ha diffuso un malcontento ed una rabbia sociale nel Paese come non si vedeva da decenni a questa parte, riproponendo un conflitto sociale incandescente. In questo momento storico, si torna dunque a parlare di lotta di classe. Ne discutiamo in questo saggio, proprio attraverso l’opera di un autore francese. Il messaggio è: il capitalismo non può erodere tutto il nostro tempo-vita. Abbiamo diritto alla pigrizia, apportatrice di benessere, riposo, vitalità e creatività.
La lotta di classe ieri e oggi
Nel 1971 in Italia usciva il film “La classe operaia va in Paradiso”, di Elio Petri. Interpretato dall’intramontabile Gian Maria Volonté, nella parte dell’operaio Ludovico Massa detto Lulù, il film suscitò sin da subito attacchi e polemiche, per poi essere premiato a Cannes l’anno successivo. Come affermò Petri, ognuno avrebbe voluto trovare nel film le proprie ragioni: sindacalisti, intellettuali, comunisti, maoisti, studenti di sinistra. “Invece questo è un film sulla classe operaia”, chiosò il regista. Al di là delle letture che all’epoca della sua uscita furono date – e che potete trovare riassunte su Wikipedia – l’aspetto che maggiormente colpisce secondo me, chiunque guardi questo film, è la drammatica rappresentazione del tempo della vita umana letteralmente divorato dai ritmi di fabbrica. Il protagonista Lulù, la sera arriva a casa così stanco dal lavoro che non riesce nemmeno a mangiare e ad avere rapporti con la sua compagna. Per guadagnare di più si sottopone a ritmi snervanti, che lo fanno odiare dai suoi colleghi di lavoro ed amare dai padroni della fabbrica. Un giorno, perde un dito in un macchinario e questo incidente è l’inizio della sua trasformazione. Lulù comincia a prendere parte attiva alla lotta di classe, è arrestato dalla polizia, perde il lavoro, la compagna e anche il sostegno degli studenti impegnati nella lotta. Reintegrato al lavoro, l’uomo riprende i ritmi frenetici di prima e, per superare la sua alienazione, urla ai suoi compagni quello che ha sognato. Ha sognato di essere morto e di avere trovato la sua compagna, Militina, nell’aldilà. Poi, attraverso una fitta nebbia, ha ritrovato tutti gli altri manovali. La classe operaia era andata in Paradiso.
Ero un sostenitore di Spinoza, che diceva: l’uomo è libero come una pietra che cade. Ma sono giunto a un’intesa. L’uomo – credetemi – è libero, nel senso che non ha altra scelta che scegliere. Ciò deriva dalla natura del suo sistema mentale. Il linguaggio umano apre costantemente la possibilità di pensare e possibilmente esprimere lo stesso pensiero in innumerevoli modi. L’uomo non può fare a meno di dubitare e scegliere costantemente. In quella scelta realizza la sua individualità, esiste come un essere singolare.
Mattias Desmet
Mi sono già occupata dello psicologo fiammingo in un articolo che è stato letto, ripostato e commentato migliaia di volte, condiviso su svariate piattaforme, discusso da moltissimi utenti ed utilizzato come risorsa per altri articoli.
In effetti, quella di Mattias Desmet, professore di Psicologia clinica all’Università di Gent, è una delle voci più critiche sui tempi nei quali viviamo caratterizzati da grosse trasformazioni sociali, attanagliato dalla paura alimentata ad arte dai governi, deprivato della gioia stessa di vivere nel passaggio da un’emergenza all’altra: i migranti, il covid, la guerra in Ucraina, il cambiamento climatico…
Desmet è un accademico che è molto discusso, in modo particolare sulla piattaforma Linkedin.
Il suo libro La psicologia del totalitarismo, pubblicazione oggettiva e non allineata alla narrazione mainstream propinata da giornali e televisioni, è già stato tradotto in italiano e inglese ed è considerato uno dei libri migliori del 2022. Il suo autore ha su di esso tenuto sessanta conferenze in tre mesi. Nel libro si spiega con chiarezza tutto quello che è accaduto nei due anni della pandemia da Coronavirus. Soprattutto, è assai interessante la sua visione del moderno totalitarismo, che non risiede in un particolare leader carismatico, ma nella convinzione diffusa tra la gente che possiamo creare una società utopica basata sulla ragione e sulle teorie degli esperti.
Quando si parla della distinzione tra bene e male si utilizzano in maniera intercambiabile i termini etica e morale, come se fossero quasi la stessa cosa.
In realtà, benché l’origine dei termini sia simile (etica deriva da ethos, morale da mos, ed entrambi indicano i costumi e le usanze), tra i due vi è una differenza sostanziale, oltre che terminologica.
La morale indica il complesso delle norme che devono guidare l’uomo ad agire in maniera corretta, tendendo al bene.
L’etica, invece, indica soprattutto il comportamento individuale, cioè il modo di applicare le norme all’interno dell’esperienza quotidiana.
Quindi, la morale è quell’ambito in cui si argomenta sulla natura del bene e del male.
L’etica studia quali siano i comportamenti giusti e quali quelli sbagliati.
Il problema etico, o morale, ha da sempre interessato la riflessione dei filosofi. Continua a leggere →
On reconnaît le bonheur au bruit qu’il fait quand il s’en va
Jacques Prévert
Quest’anno ricorrono i cento anni dalla nascita di un grande attore, Adolfo Celi, nato a Messina il 27 luglio 1922, morto a Siena nel 1986. La notizia non ha avuto praticamente rilievo sui mezzi di informazione nazionale, mentre invece i giornali di Messina e della Sicilia nelle ultime settimane hanno dato risalto alle celebrazioni che sono previste per questo anniversario.
Ad Adolfo Celi è dedicato un interessantissimo ed oggi introvabile documentario, “Adolfo Celi – Un uomo tra due culture”, prodotto dal figlio Leonardo, di professione regista. Il documentario ne ripercorre la vita divisa tra Italia e Brasile. Quest’ultima è la terra dove Celi credeva di trattenersi solo per poco tempo, e dove invece, finirà per passare quindici anni della sua vita, rivoluzionando i linguaggi del teatro ed apportando tante novità alla cinematografia. Stroncato da un infarto, Celi si spegne a 64 anni, nella sera del 19 febbraio 1989, a 40 anni esatti dalla morte di suo padre, avvenuta il 19 febbraio 1946. Quella sera l’attore avrebbe dovuto recitare al Teatro dei Rinnovati di Siena per i Misteri di Pietroburgo di Dostoevskij. L’attore accusa il malore un’ora prima dell’inizio dello spettacolo. Il secondo atto della rappresentazione non ha luogo. Vittorio Gassman, disse che quella stessa sera aveva visto il fantasma di Celi tra le quinte (come afferma Alessandra Celi, la figlia di Adolfo, alla fine del documentario sopra citato).
Chissà quante volte gli studenti avranno sentito parlare del mito della caverna di Platone. È il racconto chiave della Repubblica ed è tra i più belli e significativi scritti da Platone. È forse quello che meglio espone la sua teoria della conoscenza e tutto il significato della sua filosofia.
Un tempo gli uomini vivevano legati al fondo di una caverna con la faccia rivolta al muro della buia caverna. Sul fondo della caverna passano le immagini di alcune sagome. Dietro di loro ci sono dei portatori di statuette, le cui sagome si riflettono sul fondo grazie ad un fuoco che brilla più in là. I prigionieri credono che quelle ombre siano la vera realtà. Un giorno uno di loro riesce a liberarsi e ad andarsene. Esce dalla caverna e poco a poco i suoi occhi si abituano alla luce del sole. Sentendosi in colpa, decide di tornare nella caverna e raccontare ai compagni ciò che ha visto. I compagni prima lo deridono, poi, stanchi di lui, lo uccidono.
Matthieu Amiech, autore ed editore francese, dottore di ricerca in scienze umane e sociali, pensatore critico dello sviluppo tecnologico, ha dichiarato che la pandemia costituisce «una manna dal cielo per i giganti digitali». In questo nostro periodo oscuro, dove la comunicazione sociale martella in continuazione sull’argomento vaccini e dove la scena è occupata da virostar, piazzisti di medicinali, contrapposizioni sociali, linguaggio di odio, informazioni manipolate ed occultate, è veramente interessante leggere un suo articolato saggio, dal titolo volutamente provocatorio: Questa non è unacrisi sanitaria. Il concetto espressovi è chiaro e incontrovertibile: quella in corso è una crisi sanitaria legata al virus Sars-cov2; ma è, prima di tutto, una crisi profonda della società di massa ed un cambiamento di regime politico. La tesi difesa nel saggio in questione è la seguente: i leaders della società industriale globalizzata stanno approfittando di un problema sanitario per promuovere una nuova organizzazione sociale.
Come non essere d’accordo con quanto afferma l’autore, in uno dei passaggi più significativi del suo saggio:
A cui ora possiamo aggiungere: un contesto epidemico che giustifica la tracciabilità permanente di unamalattia contagiosa e il controllo di una vaccinazione eretta per dovere civico – questo contesto è perfetto per stimolare lo sviluppo della sorveglianza di massa. Vedi le prove per molti che il “green pass” è. Se, al contrario, mi sembra legittimo opporvi con fermezza, è perché l’importanza della vaccinazione di massa dovrebbe essere discussa (quantomeno) e che ci sono molte altre leve da azionare con urgenza. Salute. Ma è anche perché il “pass” è un mezzo per costringerci e abituarci definitivamente alla raccolta permanente di informazioni sulla nostra vita e sulle nostre relazioni: queste si riducono a uno stock di dati destinato ad addestrare i “robot”. E sviluppare gli innumerevoli algoritmi che determineranno per noi cosa facciamo, possiamo, vogliamo. L’intelligenza artificiale non è una tecnologia, è un progetto di società totalitaria.
Il saggio si articola in quattro punti fondamentali, che cerco qui di sintetizzare al massimo. Tutto ciò che Amiech afferma è supportato da ampia letteratura scientifica, riportata puntualmente in nota.
Non c’è un’interruzione profonda nello stato di salute della popolazione dal Marzo 2020 a causa della Sars-cov2
È quanto meno discutibile dire che tutte le persone morte durante il Covid che circolava in maniera importante, siano morte di Covid, perché i numeri smentiscono ampiamente questa affermazione. Apparentemente ci sono più casi e più morti lì dove non cerchiamo di sospendere completamente la vita sociale ordinaria. Ma nei vecchi paesi industrializzati, il Covid uccide meno del cancro. La vera crisi è quella delle politiche neo-liberiste, che non ha investito risorse per aumentare la capacità degli ospedali. Un argomento che, già da solo, dovrebbe provocare rivolta nella popolazione. Una grave crisi sanitaria era di fatto già iniziata prima del marzo 2020, a causa della cattiva alimentazione e delle malattie croniche ad essa correlate. Il ricercatore Anthony Fardet dell’INRA, ha scoperto che nel 2010 il 36% dei decessi sarebbe direttamente o indirettamente attribuibile ad una cattiva alimentazione.
2. I vaccini biotecnologici finiscono per trasformare il nostro mondo in un vasto laboratorio fuori controllo
Amiech scrive:
Dalla comparsa della Sars-cov2 e dei suoi primi morti, la necessità di inventare un vaccino (o più vaccini) contro il virus e di iniettarlo nel maggior numero di persone possibile è stata un’ossessione, sia tra i tecnocrati che gestiscono questa crisi sia tra i giornalisti che fabbricano la narrazione socialmente legittima. Da dicembre 2020, stiamo probabilmente assistendo alla più grande campagna di comunicazione e promozione della storia. È imperativo per i commessi dei grandi Stati, l’industria e Big Science convincere tutta la popolazione a farsi vaccinare, con prodotti sviluppati in pochi mesi, che aggirano le classiche procedure di commercializzazione e sono quindi ufficialmente in fase sperimentale, per altri due o tre anni. Poi, se la seduzione non funziona, ci sarà la coercizione: privazione dell’accesso a molti luoghi essenziali della società moderna, tagli salariali, licenziamenti, ecc. I reticenti ai vaccini offerti in queste condizioni sono trattati come ritardati, diminuiti o pericolosi per la comunità – pecorelle smarrite che gli ingegneri sociali sono incaricati di rimettere in riga.
Con la sua richiesta di una vaccinazione mondiale, la classe dirigente chiede ai cittadini di fare un salto radicale dentro l’ignoto, e tutto questo mentre ci sono ampie divergenze all’interno della comunità scientifica e la dissidenza viene liquidata attraverso una caricaturale contrapposizione tra scienza e falsa opinione.
3. La gestione dell’epidemia e la campagna di vaccinazione promuovono unasocietà ancora più autoritaria e informatizzata
Tutto il terrorismo sanitario perpetrato da due anni a questa parte da scienziati, giornalisti e governi della paura, hanno al loro fondo un profondo impegno ideologico di vari strati della tecnocrazia (in Francia, i «grands corps»). In ogni ambiente vi è, poi, un diffuso conformismo professionale e sociale, che rimandano a quello che è già successo per decenni nei regimi sovietici. Non importa quale sia la verità, ci si schiera con la doxa ufficiale per paura di essere calunniati, sminuiti, socialmente distrutti.
Tutta la vita degli individui è oggi caratterizzata dal fatto che lasciano tracce elettroniche di tutto ciò che fanno, in ogni luogo, e questa tendenza va tragicamente avanti in modo esponenziale dietro la cortina di paura, attraverso misure autoritarie e polemiche dovute ad una pandemia di Covid-19 e alla sua drammatica messa in scena. Già nel maggio 2020, la giornalista americana Naomi Klein ha compreso la straordinaria opportunità presentata dal Covid per gli interessi dell’economia e della politica, nonché delle oligarchie politiche per incastrarci.
L’attuale contesto epidemico giustifica il tracciamento permanente di una malattia contagiosa e il controllo di una vaccinazione come un dovere civico. Insomma è questo un contesto perfetto per stimolare lo sviluppo della sorveglianza di massa. La prova di quanto affermato è il green pass.
4. Per una preoccupazione fuori luogo per il destino dei “più fragili”, la sinistra si pone come sostenitrice incrollabile della tecnocrazia in movimento
Dopo alcuni mesi di esitazione una parte della sinistra (compresi i circoli “anticapitalisti”) ha fornito sostegno attivo ai tecnocrati al potere, in un paese come la Francia. La sua principale critica è che essi non vanno abbastanza lontano nella medicalizzazione della vita quotidiana e nelle restrizioni alla vita sociale che questo implica: dovrebbero confinare di più e più velocemente; chiudere le scuole, piuttosto che costringere i bambini a indossare maschere tutto il giorno e congelare la vita sociale. Tale posizione viene giustificata dicendo che gravi casi di Covid e i morti, in media, colpiscono più persone provenienti da ambienti a basso reddito. Questa posizione trascura lo straordinario danno causato dalle restrizioni sanitarie.
Le controversie sulla portata dell’epidemia e su cosa fare non sono principalmente tra la ragione e la stupidità, tra scienza e oscurantismo; si tratta principalmente di della vita, del corpo, della malattia e della salute. Attaccando sistematicamente coloro che mettono in dubbio la narrazione ufficiale dell’epidemia, una parte della sinistra e dell’estrema sinistra stanno facendo un servizio inestimabile all’oligarchia. Molti a sinistra disprezzano gli “idioti” che scendono sulla che scendono in piazza per protestare contro la vaccinazione obbligatoria. Si sta manifestando una enorme incomprensione e un notevole disprezzo di classe, come all’inizio del movimento dei Gilets jaunes.
Conclusione
La diciamo con le parole di Amiech:
Questa epidemia (e la sua gestione catastrofica) dovrebbe portare a un ripensamento completo dell’organizzazione sociale (pre)esistente. Essa dimostra che dobbiamo assolutamente vivere in modo diverso, cambiare il contenuto della produzione e il modo di lavorare, muoverci meno e in modo diverso.
Tutto dovrebbe essere fatto su una scala diversa. Ma l’emergenza, nell’estate del 2021, è quella di poter riempire di nuovo gli stadi di calcio e le gigantesche sale da concerto. La preoccupazione di difendere i più vulnerabili dall’epidemia, frequentemente espressa a sinistra e all’estrema sinistra, mal nasconde una profonda rinuncia alla trasformazione della società: come minimo, un gusto per lo status quo ante; come minimo, un’approvazione delle trasformazioni proposte dalla tecnocrazia, siringa e smartphone alla mano. (…)
Ma accettando senza discutere tutte le misure di «distanziamento sociale», rendiamo la vita delle classi lavoratrici più dolorosa, ora e a lungo termine; permettiamo che si installi un modello di società in cui sarà ancora più difficile lottare per l’uguaglianza, per strappare condizioni di vita dignitose per tutti ad una élite dominante spietata. Il lasciapassare sanitario in primo luogo mira a permettere la continuazione di una società di massa (con produzione di massa, consumo di massa, trasporto di massa) in cui nessuno è responsabile di nulla, tranne ovviamente della trasmissione di un virus nanoscopico al suo vicino/al suo compagno di lavoro/al suo vecchio padre. Il vaccino stesso è lì per dimostrare che la società industriale sa come rispondere ai problemi che pone, che la sua capacità di controllo è più forte delle forze del caos che scatena.
L’annuncio de 12 luglio di Emmanuel Macron ha mobilitato centinaia di migliaia di manifestanti sulle piazze di tutta la Francia, contro l’utilizzo del green pass e la vaccinazione obbligatoria professionale. I manifestanti e i disobbedienti alla gestione autoritaria dell’epidemia non sono certo fascisti e nemmeno, per la maggior parte, nazionalisti.
Si avverte in queste manifestazioni una rivolta sincera e una sensibilità alle questioni essenziali del nostro tempo del nostro tempo: l’espropriazione di ogni potere sulle nostre vite, la concentrazione del potere nelle mani di un’oligarchia cinica e moralmente sfrenata, la sorveglianza elettronica di massa, la crisi ecologica e climatica.
Al momento non vediamo che singoli individui su questo cammino, e questo non è poco; non c’è nessuna tendenza collettiva all’orizzonte. Ma i detenuti di Internet stanno sbattendo la testa sempre più spesso e più duramente sulle pareti della prigione digitale, e forse il desiderio di uscire emergerà alla fine, prima che sia davvero troppo tardi.
Dare una definizione univoca al concetto di “popolo” risulta impresa ardua e problematica, perché si tratta di un soggetto mobile, la cui definizione cambia nel corso della storia ed in relazione al punto di vista delle varie culture.
In latino il “Populus” è il pioppo. Poi il termine passa ad indicare il luogo dove tale albero è piantato, come luogo di riunione dove gli individui si incontrano e discutono.
Oggi esiste un “popolo della Rete” dove ogni cosa viene messa in piazza e condivisa, con un ritorno anche economico da parte di varie celebrities e starlette, ma nel mondo antico, chiaramente, vi erano dei confini più netti che segnavano il territorio della vita pubblica e quello della vita privata. Ed è anche un fatto storico e insito nella natura umana quello dello stare insieme e della solidarietà, come forma dello stare al mondo.
I Greci parlavano di “ghenòs” (stirpe), cioè il fatto di provenire dalla medesima radice, dallo stesso gruppo umano.
Vi era poi la dimensione dell’ “etnòs”, cioè l’insieme degli usi e dei costumi di un popolo.
La lingua greca, dunque, definiva il popolo sotto due profili: quello della sua origine (“genòs”) e quello dei suoi costumi (“etnòs”).
Pertanto, il popolo è quello che si riconosce in una cultura comune e dunque non un semplice aggregato di persone.