
Quando si parla della distinzione tra bene e male si utilizzano in maniera intercambiabile i termini etica e morale, come se fossero quasi la stessa cosa.
In realtà, benché l’origine dei termini sia simile (etica deriva da ethos, morale da mos, ed entrambi indicano i costumi e le usanze), tra i due vi è una differenza sostanziale, oltre che terminologica.
La morale indica il complesso delle norme che devono guidare l’uomo ad agire in maniera corretta, tendendo al bene.
L’etica, invece, indica soprattutto il comportamento individuale, cioè il modo di applicare le norme all’interno dell’esperienza quotidiana.
Quindi, la morale è quell’ambito in cui si argomenta sulla natura del bene e del male.
L’etica studia quali siano i comportamenti giusti e quali quelli sbagliati.
Il problema etico, o morale, ha da sempre interessato la riflessione dei filosofi.
Alcuni allievi di Protagora, tra i quali Trasimaco, arrivarono a sostenere che non esistono leggi morali, ma che definire un’azione buona o cattiva è solo questione di abitudine.
Per Socrate l’uomo buono agisce secondo virtù, il malvagio, invece, agisce per ignoranza.
Platone è convinto che la capacità di discernere il bene dal male sia innata nell’animo umano, ma che vada dimenticata prima del momento della nascita. Di conseguenza, essa può venire recuperata attraverso la ricerca del Bene, la suprema idea del mondo delle Idee.
Cicerone dice che «la funzione della saggezza è distinguere tra il bene e il male».
Per Agostino, che molto si interrogò sul problema dell’esistenza del male, esso non è che carenza di bene. Dio ha lasciato all’uomo la libertà di scegliere tra il bene ed il male, non interferendo con il libero arbitrio della creatura e rispettando così la sua dignità di essere che può anche sbagliare. E, poiché Dio è bene pieno, l’unico responsabile del male nel mondo è solo l’uomo.
Per Abelardo, dotto filosofo e teologo del XII secolo, ad essere buone o cattive non sono le azioni, quanto le intenzioni. Una visione “pericolosa”, perché pare giustificare anche le azioni moralmente cattive. Due secoli dopo Tommaso d’Aquino corregge il tiro: le buone intenzioni, da sole, non bastano. Occorre anche la consapevolezza che il risultato finale sarà buono.
Per Kant, per avere valore, la scelta tra male e bene va effettuata da una volontà libera, che deve sapere esattamente quando seguire la legge morale anche quando ciò risulta doloroso. Per esempio, alle volte è necessario dire la verità, qualunque essa sia. Possiamo provocare dolore, ma non possiamo astenerci, perché è nostro dovere.
Per alcuni filosofi utilitaristi, come Jeremy Bentham e John Stuart Mill, vissuti nell’Ottocento, il bene è tutto ciò che porta alla massima felicità possibile per il maggior numero di individui.
William James e John Dewey, vissuti a cavallo tra Ottocento e Novecento, riprendendo e sintetizzando motivi e spunti filosofici a loro precedenti, concludono che il bene e la felicità dell’individuo e quelli della società si equivalgono. Ogni azione individuale sarà pertanto buona o cattiva a seconda che porti o meno ad un miglioramento delle condizioni di vita in generale.
Il complesso ed articolato pensiero di Friedrich Nietzsche in merito alla morale, si può riassumere nella seguente frase: «Tutto ciò che si fa per amore è sempre al di là del bene e del male».
In tempi più vicini a noi, una riflessione etica ci viene offerta dal Papa emerito Benedetto XV (Joseph Ratzinger, Liberare la libertà, Ed. Cantagalli, 2018, pagg. 92-93), il quale, riprendendo gli scritti di Albert Görres, sottolinea la necessità per l’uomo di avvertire il senso di colpa. Del resto la Bibbia (Salmo 19,13) afferma che l’ammutolirsi della voce della coscienza è ancor più pericolosa della colpa in sé. Ed è un fatto che Gesù riuscisse ad operare con successo nei peccatori e invece non ottenesse risultati con i “giusti” come i farisei, perché ad essi sembra non necessario il perdono e la conversione, in quanto la loro coscienza non li accusa più, piuttosto li giustifica. Dall’ambito psicologico il problema del male nella condotta umana si sposta così sul terreno etico, in questo bel passo di Joseph Ratzinger:
Una ferma convinzione soggettiva e la conseguente mancanza di dubbi e scrupoli non giustificano affatto l’uomo. Circa trent’anni dopo trovai sintetizzate nelle lucide parole dello psicologo Albert Görres le intuizioni che da lungo tempo anch’io cercavo di articolare a livello concettuale. La loro elaborazione intende costituire il nucleo di questo contributo. Görres mostra che il senso di colpa, la capacità di riconoscere la colpa, appartiene all’essenza stessa della struttura psicologica dell’uomo. Il senso di colpa, che rompe una falsa serenità di coscienza e che può esser definito come una protesta della coscienza contro la mia esistenza soddisfatta di sé, è altrettanto necessario per l’uomo quanto il dolore fisico, quale sintomo che permette di riconoscere i disturbi alle normali funzioni dell’organismo. Chi non è più capace di percepire la colpa è spiritualmente ammalato, è «un cadavere vivente, una maschera da teatro», come dice Görres. «Sono i mostri che, tra gli altri bruti, non hanno nessun senso di colpa. Forse ne erano totalmente sprovvisti Hitler o Himmler o Stalin. Forse non ne hanno nessuno i padrini della mafia, ma forse le loro spoglie sono solo ben nascoste in cantina. Anche i sensi di colpa abortiti […] Tutti gli uomini hanno bisogno di sensi di colpa» (A. Görres, Schuld und Schuldgefüle, in «Communio» (1984) 13, p. 434).
La sociologia e la psicologia sociale hanno lungamente indagato l’ambito delle norme sociali, ovvero quelle regole di condotta che possono essere esplicite o implicite e che riguarda singoli individui o gruppi sociali.
Le norme sociali, a differenza di quelle tecniche e giuridiche, non sono obbligatorie. Il fatto che esse semplicemente esistano non è garanzia che vengano rispettate. Esse rappresentano solamente il sistema di aspettative che il gruppo ha nei riguardi di coloro che ne fanno parte. Le norme sociali sono apprese e vengono seguite dalle persone in modo automatico e spontaneo.
Il controllo sociale esercitato sui membri di una collettività ha lo scopo di far sì che tutti rispettino le norme. Il controllo sociale può essere interno o esterno. Il primo (detto anche primario o informale) opera attraverso la socializzazione di nuovi membri (bambini, immigrati, ecc.). Il secondo (detto anche secondario o formale) opera attraverso la sanzione, cioè un provvedimento punitivo o ricompensativo nei confronti di un individuo che pone in essere una determinata condotta.
Nelle poco estese aggregazioni tribali il controllo interno esercitato dai suoi membri è sufficiente a garantire l’ordine sociale. Nelle società numericamente più estese e più complesse, il controllo sociale non è affidato soltanto alla collettività, ma ad organizzazioni che promulgano leggi ed al sistema giudiziario che ne cura l’applicazione.
Ma tutti rispettano le norme sociali?
La risposta è: no. In una società che diviene di giorno in giorno più violenta e poco rispettosa di ruoli, scarsamente propensa a riconoscere l’autorità (la cronaca è piena di casi di medici e professori aggrediti e picchiati), il mancato rispetto delle elementari regole di convivenza a detrimento della democrazia e della stabilità sociale dovrebbe oggi costituire materia di una seria, continuativa ed approfondita riflessione. Le componenti coinvolte in questo imbarbarimento collettivo sono diverse. Ad esempio il linguaggio di giornali e media che soprattutto nella recente era pandemica, hanno alimentato divisioni e contrapposizioni (“vax”, “no-vax”), odio sociale e narrazioni a senso unico, erigendo la “fede nella scienza” a totem religioso del Terzo Millennio, con un dogmatismo fideistico nei fatti del tutto antiscientifico e degno delle epoche di maggiore oscurantismo della Storia.
Ci sarebbe anche il lungo discorso delle politiche scolastiche dei vari governi in carica negli ultimi due decenni, i quali, seguendo dettami neoliberali e dunque mere logiche di mercato, hanno, di fatto, svuotato di significato l’istituzione scuola, vista di volta in volta come semplice “parcheggio” o come “azienda” dove il “cliente” ha diritto a ricevere la massima soddisfazione con il minimo sforzo.
Tale riflessione coinvolge anche la crisi profonda che la famiglia tradizionale, quale principale agenzia educativa, attraversa da tempo. Crisi legata senza dubbio alla “società liquida” così ben raccontata da Zygmunt Bauman. Una società in cui contano l’individualismo e l’apparire, i legami sono fragili e incerti, la comunità si è frantumata, l’omologazione regna sovrana ed il carico di violenza che ne segue è proprio il frutto di questo frantumarsi di legami che interessa l’uomo all’interno della società globalizzata.
Vi sono modi diversi che le persone hanno di porsi nei confronti di una norma universalmente accettata, vale a dire: interiorizzazione, accettazione, insensibilità, conformismo, rifiuto.
L’interiorizzazione fa sì che chi segue la norma vi abbia dato la sua intima adesione, la segua perché intimamente convinto della sua bontà, o del fatto che contravvenendovi si incorre in una sanzione negativa.
L’accettazione è seguire la norma, anche in mancanza di una piena e convinta adesione dell’animo.
Insensibilità alla norma è non essere toccati dal suo significato o dalla sua esistenza. è come dire “esiste ma non mi interessa”.
Il conformismo porta a seguire le norme perché si ritiene che non adeguandosi si venga emarginati da un gruppo. Questo è tipico delle aggregazioni giovanili, dove allontanarsi o contravvenire alle regole del gruppo di riferimento significa essere additato come diverso, escluso, rifiutato dal gruppo stesso. Ma il conformismo esiste a tutti i livelli della vita sociale. Conformismo non significa accettare intimamente le norme socialmente imposte, significa comportarsi in un modo socialmente accettato per tranquillità, interesse, opportunismo, diplomazia.
Il rifiuto è la negazione recisa della norma, che può sfociare anche in atteggiamenti delinquenziali, o comunque passibili di sanzione. Chi è autore di schiamazzi notturni può essere segnalato alle autorità per disturbo della quiete pubblica.
Filosofia e sociologia sono alleate nell’offrire oggi una comprensione della crisi di valori che interessa la vita umana ed il vivere civile.
La sociologia può darci gli strumenti tecnici per addentrarci nel complesso ambito delle relazioni sociali.
La filosofia, con la sua visione più ampia, si fa largo nella nostra interiorità e ci aiuta a comprendere chi siamo e cosa vogliamo.
In un mondo che sembra smarrire valori, gentilezza, sogni e speranze, sempre più in preda ad emozioni negative e devastanti come odio, paura, invidia sociale, angoscia esistenziale, la filosofia ci offre consolazione ma anche forza per ritrovare la rotta smarrita. Basti pensare quanta motivazione può offrire un passo di Spinoza che parla dell’etica della gioia. Oppure leggere la proposta di Locke in tema di tolleranza religiosa. Accostarsi a Martha Nussbaum che parla della comune esperienza della fragilità umana e della vita buona. Prendere un passo di uno dei filosofi che vi ho citato all’inizio di questa breve disamina e provare passione ed interesse, sentire che una luce si accende nell’anima.
Sarebbe bello che nelle aule scolastiche venissero spenti gli smartphone e si potesse scoprire che nella filosofia c’è tanta passione e tanto calore umano, perché ci parla di umanità, sempre. Ci parla di cose che ci riguardano da vicino e di come vivere meglio. Ecco perché, soprattutto nell’approccio ai problemi dell’etica e della morale, essa può avere un grande significato per i giovani in età scolare, alle prese con un mondo complesso, nel quale occorre essere più che mai vigili e critici verso la “modernità” ed i suoi derivati peggiori, per coltivare la propria umanità ed attingere quella che Aristotele (che molto si è occupato di etica e morale) chiamava l’eudaimonìa (“vita riuscita”), cioè la scoperta e la pratica di quanto di eccellente vi è in ciascuno, per una vita ricca di senso.