Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

COME SCRIVERE. RIFLESSIONI SU UNA CRITICA DELLA SCRITTURA

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“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.”

Questo pensiero, espresso dal filosofo e semiologo Umberto Eco nel 2015 durante il conferimento della laurea honoris causa in Comunicazione e Cultura dei media, ha sollevato nel momento in cui è stato espresso, e ancora oggi quando lo si richiama, un polverone che ha avvolto la figura di Eco poco prima della sua dipartita. Molti hanno cercato, per salvare il filosofo da un’improbabile e paradossale gogna mediatica, di stemperare i toni di quella affermazione battendo sul fatto che essa fosse un’uscita ironica, seppur poco felice, di un pensatore che spesso rivela una punta di pungente sarcasmo nelle sue affermazioni. c’è chi ha visto in queste parole una provocazione alla quale alcuni hanno reagito con una piatta e semplice indignazione, altri cercando di cogliere il vero bersaglio critico di tale affermazione. Naturalmente, di fronte ad alcuni tipi di pensieri che toccano le nostre abitudini più comuni e usuali sembra scontato, se non a tratti anche legittimo, credere che essi siano una sorta di attacchi ad personam e, spesso, proprio questo loro effetto è quello ricercato dagli autori che provano così a mettere in moto la nostra riflessione. Certamente una frase del genere sarebbe rimasta solo un’uscita infelice se non fosse stata accompagnata da un seguito, spesso e volentieri dimenticato o appositamente ignorato, che collega la frase nella sua singolarità ad un’analisi più profonda delle dinamiche mediali e dei tipi di comunicazione che si instaurano attraverso di esse. Eco, infatti, osserva: “La TV aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità”. Inoltre il semiologo invita i giornali “a filtrare con una equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno […] I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù, ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno”.

Questa seconda parte della sua riflessione rende palese come intorno al problema delle dinamiche mediali si concentrano una serie di questioni non solo di natura mediatica, ma didattica, etica, ermeneutica e comunicativa. Dunque, per giungere al cuore del problema relativo alle dinamiche mediali ci sono una serie di punti opachi che fanno da scudo alla questione e la cui difficoltà di approccio rende più ostica la trattazione e l’analisi di tali campi. Sicuramente, però, c’è un elemento che li sorregge e li raggruppa tutti e che a primo impatto non è individuabile, anche se fondamentale. Questo elemento, che costituisce il punto della questione e della realtà mediale attuale, è la parola, nello specifico il rapportarsi dell’individuo medio all’elemento base della parola attraverso quella sorta di tessitura della parola che è lo scrivere. Scrivere, oggi in particolare, è divenuto parte integrante della nostra quotidianità, anche se lo scrivere ha necessariamente cambiato forma, scopo e uso. Se cinquanta anni fa un lavoratore dei campi poteva passare giorni senza scrivere nulla, oggi anche il più umile dei lavoratori esercita attivamente la scrittura anche semplicemente attraverso un banale commento su un social. Naturalmente il problema non riguarda l’allargamento della fruizione o dell’uso tecnico-pratico della scrittura: sostanzialmente non è cambiato nulla nella capacità tecnica della scrittura di oggi rispetto a quella di cinquanta anni fa se non per quanto riguarda i supporti tecnologici utilizzati, mentre la possibilità di scrivere e di esercitare la scrittura, in sé, non rappresenta un elemento negativo. Certamente, però, ciò che è cambiato è l’ambiente in cui la pratica dello scrivere si inserisce e ciò comporta la necessità di spostare l’attenzione anche sul contenuto, ovvero sulla capacità della scrittura di essere veicolo di messaggi sia ad un livello esplicito, sia ad un livello implicito.

Per affrontare la questione relativa a ciò che potremmo definire il doppio momento della scrittura, quello conscio del registro esplicito e quello inconscio del registro implicito, e quella relativa alla percezione della scrittura nel mondo dei media contemporanei, ovvero di come viene vista e percepita la funzione della scrittura, bisogna scomodare, seppure appena appena, due studiosi del fenomeno scrittura e comunicazione: Jacques Derrida e Walter J. Ong.

La riflessione critica di Jacques Derrida, che investe vari campi, dalla filosofia del linguaggio all’ontologia fino alle analisi di filosofia politica e di etica caratteristiche della sua riflessione degli anni Ottanta e Novanta del secolo passato, ha come solido punto l’analisi e la destrutturazione di ciò che egli chiama metafisica della presenza. Questa metafisica, che si presenterebbe in maniera nascosta nei più svariati autori del passato, tende a difendere la presenza intesa come la convinzione di un’unità, di un principio unificatore, di un logos esistente nella struttura della realtà è rivelantesi nelle manifestazioni dell’Essere, coglibile, guarda caso, attraverso le categorie e i concetti che l’uomo predispone nella sua ricerca in rapporto alla realtà. In pratica l’uomo agirebbe nel mondo in quanto la struttura che sottosta ai fenomeni e li unifica è rintracciabile proprio attraverso l’esercizio del suo pensiero filosofico e scientifico. Questa convinzione elevata a metodo ha il rassicurante effetto di garantire all’uomo la corrispondenza tra la struttura del suo pensiero e quella della realtà, fornendo una presa sicura su di essa. Lo sforzo del filosofo francese sta nel mostrare come questa concezione logocentrica comincia a tentennare non appena si aggrediscono alla base i principi sui quali essa si fonda, non appena, facendo intervenire la differenza come concetto disgregatore, si comincia a lavorare sulle giunture, sulle crepe della struttura di pensiero, sgretolando le convinzioni. Ciò che avviene in scritti importantissimi come La struttura è la differenza e Della grammatologia è la decostruzione della metafisica della presenza proprio a partire dall’elemento basilare del linguaggio e della parola. Il logocentrismo, infatti, si esprime su più livelli, a partire da quello ontologico fino ad arrivare al campo etico (questione che troverà sviluppi significativi in Gayatri Spivak e Martha Nussbaum), e trova il suo punto particolarmente forte proprio nel linguaggio. Il logocentrismo, che si esprime in campo gnoseologico e ontologico attraverso la convinzione dell’esistenza di una struttura unificatrice, di un centro di senso, di un apparato sicuro di concetti e di una corrispondenza tra essi e la realtà, nell’analisi del linguaggio si esprime attraverso una preminenza dell’orale sullo scritto, una centralità della parola preferita rispetto alla parola scritta. Quest’ultima, infatti, è definita come una figlia bastarda e parricida del pensiero, qualcosa di lontano dal pensiero perché, a differenza della voce che parte dal petto e dunque dalla sede dell’anima, la scrittura è qualcosa di ‘sputato fuori’, di abbandonato e morto. Derrida mostra come questo pregiudizio della scrittura inteso come ombra e parvenza del sapere sia radicato anche in uno dei pensatori-cardine della filosofia occidentale come Platone, che denigra la scrittura nel mito di Teuth presente nel Fedro. La parola scritta, una volta lanciata nel mondo, diviene fraintendibile e non più difendibile poiché non più modificabile. Proprio questo aspetto, che dai più è definito come un difetto, e visto da Derrida come un pregio della scrittura, poiché su di essa può essere applicata la decostruzione come pratica per cogliere l’inconscio, il non detto della scrittura. Nella scrittura si annida, così, una sorta di doppio registro, uno conscio, costituito dal messaggio esplicito che l’autore vuole trasmettere e dall’effetto desiderato del testo, e uno implicito che si nutre non solo di ciò che l’autore nasconde al pubblico, ma anche di ciò che l’autore nasconde a se stesso e che affonda le sue radici in elementi non controllabili come in linguaggio, l’ambiente, l’epoca, la cultura personale, l’istruzione. Naturalmente, se si volesse applicare il portato di queste riflessioni alla situazione e all’utilizzo della scrittura sui social, si dovrebbe, preliminarmente, notare come l’immediatezza, o l’apparente immediatezza, di essa sulle nuove piattaforme digitali cambia molte delle carte in gioco. Innanzitutto con il cambiare il target la scrittura cambia la sua forma: se in passato opere del calibro di una Fenomenologia dello spirito di Hegel o dello Zarathustra di Nietzsche, o ancora del Discorso sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo erano concepite come frutto di un lavoro mediato, costante e molto lungo poiché rivolto ad un pubblico spesso scettico, ostico o restio, oggigiorno i post acchiappa consensi o le notizie clickbait possono avere un’immediatezza disarmante oltre che un effetto, in proporzione, spaventoso. Proprio a questo livello si capiscono meglio le parole di Eco e la sua preoccupazione riguardo le ‘legioni di imbecilli’: La nostra povertà nei confronti della parola sta non tanto nel fatto che opere di genio vengano spesso surclassate da chiacchiere da bar, cosa che ci avvisa che forse come esseri culturali non siamo neppure più idonei fruitori di tali opere, ma nell’incapacità che spesso viene dimostrata nel difenderci da questo tipo di comunicazione. Oltretutto, proprio questa mancanza di mediazione nella scrittura dei social rende ancora più ostico l’utilizzo di una eventuale decostruzione, elemento che ci avvisa che qualcosa è cambiato sia nella percezione della scrittura, sia nel suo utilizzo. La scrittura è vista sempre più come discorso, quasi come chiacchiera: nelle chat, nei post, nei tweet la perdita di formalità della scrittura conduce verso un ritorno dell’oralità, o meglio, verso una scrittura che tende a l’oralità.

Si può, allora, parlare propriamente di una oralità di ritorno come ha fatto Ong nel suo Oralità e scrittura? O, piuttosto, bisognerebbe parlare di una visione orale della scrittura?

Sicuramente le nuove tecnologie hanno contribuito non poco a scompaginare il già tormentato rapporto dell’individuo con un elemento così atipico come la scrittura. La rapida accelerazione che ha subito l’evoluzione tecnologica nel campo della diffusione delle informazioni, e che continua a subire, rende ancora più difficile una riflessione esaustiva sul tema. Una delle difficoltà, appunto, è legata ai tempi: è sufficiente pensare già al fatto che tra l’invenzione della stampa a caratteri mobili e la messa a punto del primo computer sono passati centinaia di anni, mentre tra la comparsa dei primi computer ingombranti, pesanti e di difficile utilizzo, alla dominazione degli smartphone, utilizzabili con facilità anche da un bambino, il tempo trascorso è quello di qualche decennio, per dare l’idea della velocità con cui il rapporto dell’uomo con l’uso della scrittura si modifichi.

La seconda difficoltà è legata al tempo: per quanto ci si possa sforzare di avere o trovare una linea guida nei nostri rapporti con questo campo in continuo mutamento, e che ci faccia capire qualcosa su cosa gli eventi che si consumano in questi spazi significhino o possano significare per noi, siamo comunque e sempre calati in questo determinato orizzonte degli eventi del quale non cogliamo la totalità, o almeno la parvenza di essa, poiché da tale orizzonte non possiamo estraniarci semplicemente tirando ci su per i capelli.

Nonostante tali difficoltà, si tenta spesso di delineare una sorta di sviluppo del rapporto dell’uomo con la sua medialità, con la sua capacità di comunicare e altrettanto spesso, nel definire i rapporti tra le fasi della comunicazione precedente a quella digitale e globalizzata e quella attuale, vengono schierati una serie di armamenti concettuali basati su una serie di coppie di opposti che caratterizzerebbero le due fasi. Le principali sono: linearità-simultaneità, semplicità-complessità, frammentazione-continuità, razionalità-immediatezza, unisensorialità-sinestesia, tutte volte a sottolineare una cresciuta complessità e fluidificazione dei rapporti rispetto alla situazione precedente, quasi che la scrittura tradizionale e le forme della comunicazione passata siano condannate ad una linearità e ad una semplicità del codice che nella contemporaneità non si troverebbero più.

Nell’individuare i tre stadi della comunicazione, Ong opera una classificazione più o meno netta delle fasi di evoluzioni dalle forme lineari dell’oralità e della scrittura a quelle complesse delle forme ibride basate sull’avvento della tecnologia. Da un primo stadio orale-aurorale, basato sulla visione della parola-evento come avvenimento grazie al quale l’uomo si relaziona alla realtà, si giunge a quello elettronico basato sulle tecnologie e caratterizzato da una oralità di ritorno. È da notare che la fase intermedia, dominata dalla scrittura, è vista come il punto in cui l’oralità viene tradotta in rappresentazione grafica conferendo alla parola una presenza visiva, denotando qui toni di distanziamento dall’anima dell’oralità e di abbandono del pensiero nella scrittura tipici della metafisica della presenza che Derrida aveva criticato. Ma questo tarlo della presenza agisce ancora più in profondità nel concetto di oralità di ritorno: secondo Ong, con l’avvento della tecnologia si è passati da uno stadio orale, con il primato dell’udito, ad uno stadio scritto, con il primato della vista, per finire in uno stadio elettronico in cui vista e udito si esplicitano nell’immediatezza della comunicazione. Infatti, anche se Ong tende a specificare che la sinestesia proposta è di tipo nuovo, non essendo più possibile l’intronizzazione o il primato di un senso sull’altro, in questa visione opera la volontà di seppellire il senso pericoloso della scrittura cercando di pareggiarne il carattere eversivo o deviante, nascondendo che, più che una riorganizzazione del sensorio, ciò che opera è uno spostamento dell’oralità nel carattere scritto: lo scrivere diviene il parlare. La riorganizzazione dello spazio della scrittura nel fenomeno dei social, della chat, della divulgazione rapida, del clickbait accosta pericolosamente la scrittura al parlato, ne assume i caratteri, ne fagocita gli obiettivi e ne veste la parvenza modificando la sensazione del singolo nei confronti del sistema mediatico e la nostra sensibilità collettiva nei confronti della scrittura stessa. La scrittura, perdendo il suo carattere di elemento mediato e assumendo sempre più la parvenza dell’immediatezza, tende a perdere anche il suo carattere di struttura, rendendo più difficile un’eventuale decostruzione del discorso dal suo interno. La pericolosità di ciò sta nel fatto che questa modalità della scrittura mette in campo quelle strategie di cui dispone il discorso retorico orale, immediato e pulsionale, rendendo il senso critico quasi inabile ad operare ogni difesa. Se ne deduce che il problema della scrittura, nell’epoca dell’informazione, non è tanto contenutistico quanto procedurale: il rifrangersi della retorica orale sulla scrittura in uno spazio in cui la scrittura può essere confusa con l’oralità ed esercitata come l’oralità, se non addirittura come chiacchiera, conduce, o può condurre, pericolosamente al fenomeno delle legioni di imbecilli aventi lo stesso diritto di parola di un premio Nobel analizzato da Eco nel suo celebre intervento.

Come spesso accade nella frenetica società che ci nutre ed innerva le nostre vite, il problema è legato alla questione dell’educazione: la soluzione, prima ancora di essere legata ad una correzione del contenuto, del che cosa, dovrebbe passare per la riflessione sulla forma, sul come. Sarebbe auspicabile, allora, un’educazione alla scrittura caratterizzata da una “critica della scrittura” dal sapore fortemente kantiano: come nell’approccio critico kantiano avveniva che la riflessione si dirigesse, prima che sul contenuto della conoscenza sulle condizioni di possibilità di essa, così si dovrebbe portare luce sulle condizioni di possibilità dello scrivere come elemento basilare per la formazione di una responsabilità nello scrivere, che della scrittura se ne prenda cura. “Cura l’arte della scrittura, ed essa ti arricchirà; sii diligente nell’arte della scrittura, ed essa ti riempirà di ricchezze e di abbondanza”, recitava un antico inno sumerico.

BIBLIOGRAFIA

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Giugliano D., Derrida-Saussurre. Segno e differenza, bulzoni, Roma 1994

Miller G.A., Linguaggio e comunicazione, La Nuova Italia, Firenze 1999

Morcellini M., “La prospettiva della media education” in Lezione di comunicazione. Nuove prospettive di interpretazione e di ricerca, Ellissi, Napoli 2003

Ong W. J., La presenza della parola, Bologna, Il Mulino, 1970

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