Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

“Il diritto alla pigrizia” di Paul Lafargue

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Da mesi in Francia il popolo si batte contro la legge che innalza l’età pensionabile a 64 anni. Il presidente Macron, sempre più scollato dalla realtà e sempre a difesa del potere finanziario di cui è espressione, è al vertice della sua impopolarità. La sua azione di governo ha diffuso un malcontento ed una rabbia sociale nel Paese come non si vedeva da decenni a questa parte, riproponendo un conflitto sociale incandescente. In questo momento storico, si torna dunque a parlare di lotta di classe. Ne discutiamo in questo saggio, proprio attraverso l’opera di un autore francese. Il messaggio è: il capitalismo non può erodere tutto il nostro tempo-vita. Abbiamo diritto alla pigrizia, apportatrice di benessere, riposo, vitalità e creatività.

La lotta di classe ieri e oggi

Nel 1971 in Italia usciva il film “La classe operaia va in Paradiso”, di Elio Petri. Interpretato dall’intramontabile Gian Maria Volonté, nella parte dell’operaio Ludovico Massa detto Lulù, il film suscitò sin da subito attacchi e polemiche, per poi essere premiato a Cannes l’anno successivo. Come affermò Petri, ognuno avrebbe voluto trovare nel film le proprie ragioni: sindacalisti, intellettuali, comunisti, maoisti, studenti di sinistra. “Invece questo è un film sulla classe operaia”, chiosò il regista. Al di là delle letture che all’epoca della sua uscita furono date – e che potete trovare riassunte su Wikipedia – l’aspetto che maggiormente colpisce secondo me, chiunque guardi questo film, è la drammatica rappresentazione del tempo della vita umana letteralmente divorato dai ritmi di fabbrica. Il protagonista Lulù, la sera arriva a casa così stanco dal lavoro che non riesce nemmeno a mangiare e ad avere rapporti con la sua compagna. Per guadagnare di più si sottopone a ritmi snervanti, che lo fanno odiare dai suoi colleghi di lavoro ed amare dai padroni della fabbrica. Un giorno, perde un dito in un macchinario e questo incidente è l’inizio della sua trasformazione. Lulù comincia a prendere parte attiva alla lotta di classe, è arrestato dalla polizia, perde il lavoro, la compagna e anche il sostegno degli studenti impegnati nella lotta. Reintegrato al lavoro, l’uomo riprende i ritmi frenetici di prima e, per superare la sua alienazione, urla ai suoi compagni quello che ha sognato. Ha sognato di essere morto e di avere trovato la sua compagna, Militina, nell’aldilà. Poi, attraverso una fitta nebbia, ha ritrovato tutti gli altri manovali. La classe operaia era andata in Paradiso.

Il film è, insomma, una tragica narrazione della vita operaia asservita alla produzione ed all’arricchimento dei capitalisti. Il riposo, non concesso in questa vita, sarà forse possibile solo da morti.

Coltivare il proprio spirito e godere della famiglia è impossibile. L’operaio, schiavo dipendente dal macchinario, vive solo per lavorare e produrre senza sosta.

Dalla seconda metà del 2022 fino a quando viene scritto questo saggio, aprile 2023, le televisioni ci mostrano le immagini di una Francia continuamente in rivolta contro il progetto di legge che aumenta l’età della pensione di due anni. Ai Francesi, Macron ha imposto la “retraite” a 64 anni.

I Francesi hanno un notevole gusto della lotta ed una resilienza senza pari, che li ha portati quotidianamente in strada a protestare contro il progetto di legge. I francesi sono anche quel popolo estremamente amante del loisir e dell’arte, che affolla teatri, mostre, biblioteche, librerie, cinema e conferenze come se andasse in luoghi sacri. Perché per loro la cultura è sacra. Adesso, una volta che il progetto è diventato legge, i Francesi non si sono fermati, anzi: la lotta è diventata ancora più dura e destinata a durare ancora chissà quanto.

Parigi e molte città in Francia, per protesta sono state invase di spazzatura. Bruciati i cassonetti dell’immondizia. Cantati slogan e svolte marce con la partecipazione di migliaia e migliaia di persone. Dopo l’approvazione della legge, è iniziata la protesta delle casseroles. I francesi, armati di pentole e padelle, protestano nelle strade contro Macron, il presidente della Repubblica che non ha ascoltato il suo popolo, ma che pretende di essere ascoltato in improbabili “allocuzioni” televisive. In una di queste sere roventi, cittadini francesi hanno accerchiato la Bastiglia, e non è l’unico dei gesti forti che sono stati capaci di compiere in questi mesi.

Attualità dell’opera di Lafargue

L’innalzamento dell’età della pensione alle soglie dei settant’anni è un fenomeno che ha riguardato tutta Europa. Non soltanto la giornata lavorativa si è allargata a dismisura, tra inutile burocrazia e riunioni altrettanto inutili, ma il tempo vita è sempre più eroso da politiche che trattengono più a lungo le persone al lavoro, in un’età in cui si dovrebbe fare i nonni e dedicarsi al meritato riposo. L’aumento dell’età pensionabile pone seri problemi a diverse categorie soggette a lavori usuranti, quali operai, autisti, piloti, forze dell’ordine, personale ospedaliero, ma anche professori di scuola, visto che questa è una professione ormai riconosciuta tra le più usuranti in assoluto, anche se da almeno vent’anni la narrazione mainstream e il discredito sociale buttato addosso agli insegnanti li vorrebbero sempre “fannulloni con tre mesi di ferie”. Un’immagine alterata, che non corrisponde affatto alla realtà, in cui è facile scambiare dei professionisti per dei missionari.

Proprio in Francia, nel 1880, esce un piccolo saggio dal titolo “Il diritto alla pigrizia”, opera piuttosto evocata in questi roventi giorni di proteste francesi. Il titolo originale è “Le droit à la paresse”. Ne è autore il brillane giornalista Paul Lafargue, militante socialista, genero di Karl Marx in quanto ne ha sposato la figlia Laura. Intellettuale dalla vita avventurosa, Lafargue nasce nel 1842 a Santiago de Cuba da una madre mulatta e da un padre francese. La militanza politica a favore degli oppressi è la sua ragione di vita, in quanto nelle vene di Lafargue scorre il sangue di tre razze oppresse: i mulatti, i giudei e gli indiani. Espulso dall’Università francese perché implicato nella lotta socialista, diventerà medico conseguendo la laurea a Londra, poi lascerà la professione dedicandosi ad altro forse, dicono i biografi, per il dolore provato per la scomparsa dei suoi tre figli, morti tutti in tenera età. Lafargue proverà l’esperienza del carcere, farà viaggi clandestini in giro per l’Europa, cambierà più volte impiego, sarà autore molto prolifico e divulgherà il pensiero marxista, anche se, forse, il marxismo non lo aveva completamente assimilato.

Il giornale francese Libération, ha definito “Il diritto alla pigrizia” come un libro “da rileggere con urgenza”.

In effetti, si tratta di un libro attualissimo, per la tematica trattata e per il modo in cui la tratta. Il libro ha come sottotitolo “Confutazione del “Diritto al lavoro” del 1848”. Quest’ultimo era un’opera di Pierre Proudhon, che era stata edita da Garnier a Parigi nel 1848.

Nella prefazione l’autore spiega che “la morale capitalista, pietosa parodia della morale cristiana, è un anatema nella carne del lavoratore”.

Il piccolo saggio è diviso in quattro parti: 1) Un dogma disastroso; 2) Benedizioni del lavoro; 3) Cosa segue la superproduzione 4) A aria nuova, canzone nuova.

Perché il lavoro è un dogma e perché è disastroso

«Una strana follia possiede le classi operaie delle nazioni nelle quali regna la civilizzazione capitalista. […] Questa follia è l’amore del lavoro, la passione moribonda del lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenitura. Invece di reagire contro questa aberrazione mentale, i preti, gli economisti, i moralisti, hanno sacro-santificato il lavoro».

Questo è l’incipit della prima parte del libro. È di sapore marxista e nitzscheano insieme. La lotta di classe e l’invidia sociale dei deboli che schiacciano i forti con la morale.

Lafargue attribuisce ai summenzionati predicatori le “spaventose conseguenze del lavoro nella società capitalista”.

Infatti, sottolinea l’autore, in questo tipo di società il lavoro è la causa di tutte le degenerazioni intellettuali e di tutte le deformazioni organiche. Il dogma del lavoro ha creato masse di schiavi, servitori delle macchine.

L’autore ricorda che gli antichi Greci non avevano che disprezzo per il lavoro. Infatti lo affibiavano volentieri agli schiavi, mentre «l’uomo libero non conosceva che gli esercizi corporali ed i giochi dell’intelligenza».

«I filosofi dell’Antichità insegnavano il disprezzo per il lavoro, questa degradazione dell’uomo libero; i poeti cantavano la pigrizia, questo dono di Dio».

Cristo predicava la pigrizia nel Discorso della Montagna. Egli, infatti, ricordava che i gigli dei campi non lavorano e non tessono, eppure sono più riccamente vestiti di re Salomone.

Dio lavorò per sei giorni, creò il mondo e poi si riposò per l’eternità

Invece, ci sono alcuni popoli, come gli abitanti dell’Alvernia (in Francia), gli Scozzesi, i Cinesi, che hanno fatto del lavoro una necessità organica. Che si sono lasciati pervertire dal dogma del lavoro.

La conclusione è che: «Tutte le miserie individuali e sociali sono nate dalla passione per il lavoro».

Le benedizioni che derivano dal lavoro

Filantropi e moralisti del XVIII secolo, afferma Lafargue, hanno in mente un solo ideale: dodici ore di lavoro al giorno!

In tal modo, «le officine moderne sono diventate delle case ideali di correzione nelle quali si incarcerano le masse operaie, dove si condannano ai lavori forzati per dodici e quattordici ore, non solo gli uomini, ma anhe le donne e i bambini! E dire che i figli degli eroi del Terrore si sono lasciati degradare dalla religione del lavoro al punto da accettare, dopo il 1848, come una conquista rivoluzionaria, la legge che limitava a dodici ore il lavoro nelle fabbriche; essi hanno proclamato come un principio rivoluzionario il diritto al lavoro. Vergogna ai proletariato francese! Solo degli schiavi sarebbero stati capaci di una simile bassezza. Ad un Greco ci vorrebbero venti anni di civilizzazione capitalista per concepire una tale degradazione».

Lafargue pone l’accento sullo sfruttamento infantile e sulle crisi di sovrapproduzione. E la sua ironia si fa sferzante. Infatti l’autore afferma che, nonostante il suo sia «il secolo del dolore, della miseria e della corruzione», i filosofi hanno intonato «canti nauseabondi in onore del dio Progresso, il figlio maggiore del Lavoro». Lo hanno fatto il «pietosamente confuso Auguste Comte», il «ridicolmente chiaro Leroy-Beaulieu», il «ciarlatenescamente romantico Victor Hugo», l’«ingenuamente grottesco Paul de Kock».,

Insomma, un grande abbaglio collettivo, sostenuto da una mirabolante retorica, che ha propagato la morale borghese e capitalista, avida, bulimica di lavoro umano, causa di «una giornata di lavoro smisuratamente lunga» che sfinisce gli operai e li priva delle ore di riposo necessarie per recuperare le forze. Come dice il dottor Villermé (un precursore della sociologia e l’inventore della medicina del lavoro), «non è più un lavoro, un dovere, è una tortura, e la si infligge a dei bambini dai sei agli otto anni». E questo lungo supplizio alla lunga è dannoso per la salute. Villermé si riferisce all’industria cotoniera. Sempre Villermé, osserva che anche i condannati al carcere e gli schiavi delle Antille lavorano meno degli operai francesi. In Francia, con la Rivoluzione del 1789 sono stati pomposamente dichiarati i Diritti dell’uomo, ma non va dimenticato che prima di quella data in questa nazione esistevano delle manifatture che impiegavano i lavoratori solo sei ore al giorno.

Ecco perché Lafargue può esclamare: «O miserabile aborto dei principi rivoluzionari della borghesia! O lugubre presente del suo dio Progresso»!

In questa triste epoca, gli economisti incitano a lavorare e a produrre sempre di più, mail risultato di questo superlavoro è una sovrapproduzione che non viene assorbita dal mercato e che conduce a due inesorabili conseguenze: la disoccupazione degli operai e la bancarotta delle industrie.

Dunque, conseguenze della sovrapproduzione

Continuando nella sua disamina della vita operaia e dei suoi ritmi assurdi, Lafargue coglie il punto centrale della questione: la vita legata ai macchinari della fabbrica divora il tempo vita dei lavoratori e li priva del gusto di vivere. Li priva della gioia. Spegne in loro ogni gioia di vivere.

Marx ha parlato di alienazione, Lafargue di gioia che viene a mancare. In effetti, il concetto è lo stesso.

I macchinari hanno soppiantato il lavoro artigianale delle antiche corporazioni. Ma la vita non può essere solo lavoro. La vita richiede di avere tempo per «gustare le gioie della terra, per fare l’amore e scherzare, per banchettare gioiosamente in onore dell’allegro dio della Pigrizia».

L’autore coglie anche un altro punto della questione: la mancanza di strumenti culturali e di coscienza della propria condizione degli operai, i quali si sono lasciati facilmente indottrinare dal dogma del lavoro e dell’astinenza.

«L’astinenza alla quale si condanna la classe produttrice obbliga i borghesi a consacrarsi disordinatamente al superconsumo dei prodotti che quelle manifatture disordinano». Lafargue, in questo processo, osserva una trasformazione antropologica della classe borghese. All’inizio della produzione capitalista, egli afferma, il borghese era un uomo ordinato, dai costumi ordinati e tranquilli, senza grandi pretese. Ora, invece, «per riempire la sua funzione sociale di non produttore e di super consumatore, la borghesia deve non soltanto violentare i suoi modesti gusti, perdere le sue abitudini laboriose da due secoli a questa parte e abbandonarsi al lusso sfrenato, alle indigestioni tartufate e alle dissolutezze sifilitiche, ma anche sottrarre al lavoro produttivo una massa enorme di uomini al fine di procurarsi degli aiuti».

È una borghesia debosciata, che si è comodamente seduta, anzi è sprofondata nel suo nuovo genere di vita. Per questa nuova classe agiata, che vive dello sfruttamento altrui, la sola vista delle miserie e della rassegnazione della classe operaia, nonché la sua «degradazione organica generata dalla passione depravata del lavoro, aumentano ancora di più la sua repulsione per tutte le imposizioni del lavoro e per tutto ciò che restringe il godimento». In buona sostanza, «serrando il proprio ventre, la classe operaia ha aperto a dismisura il ventre della borghesia condannata alla super consumazione». Ma l’apice dell’attualità arriva quando Lafargue afferma che «il gran problema del capitalismo non è più di trovare dei produttori e decuplicare le loro forze, ma di scoprire dei consumatori, di eccitare i loro appetiti e di creare loro dei bisogni fittizi». È un circolo vizioso: milioni di prodotti si affastellano nei depositi, più alti delle piramidi d’Egitto. La produttività sfida ogni consumo, ogni spreco. Gli operai, in preda alla passione depravata e disordinata per il lavoro, chiedono lavoro e ancora lavoro, ingombrando il mercato di prodotti. Essi hanno il «vizio del lavoro» e manca loro la «virtù della pigrizia». Eppure, continua l’autore, un grande Paese, in Europa, sfidando gli uccelli del malaugurio, ha dimostrato che diminuire le ore di lavoro fa bene all’economia piuttosto che male: l’Inghilterra.

In questo grande Paese, nonostante lo scetticismo degli economisti, le ore di lavoro dono state ridotte a dieci e il risultato è che l’Inghilterra è la prima nazione industriale del mondo. Questa formidabile esperienza dimostra che per «rendere più forte la produttività umana, occorre ridurre le ore di lavoro e moltiplicare i giorni di paga e di festa». Eppure, il popolo francese non è convinto di ciò. Lafargue analizza ancora l’istupidimento della classe operaia, che non comprende ancora, almeno nel suo Paese, in Francia, che solo riducendo le ore di lavoro che sfiniscono le forze, che abbrutiscono le persone, che uccidono le loro belle facoltà mentali, la produzione può raggiungere livelli elevati.

A nuova aria, canzone nuova

Lafargue afferma ironicamente che gli operai ammalati di lavoro dovrebbero essere obbligati per legge a consumare tutti i prodotti che producono, allegerendo la borghesia dall’obbligo di consumatore universale. Occorrerebbe, continua, una legge «per mettere al bando il lavoro».

Ben venga quallo che l’autore chiama le régime de paresse, il governo della pigrizia. Solo in tale regime, come già accadeva nel mondo antico, è possibile coltivare tutte le più belle qualità dello spirito.

«Nel governo della pigrizia, per ammazzare il tempo che ci uccide secondo per secondo, ci saranno degli spettacoli e delle rappresentazioni teatrali, sempre e sempre; è un lavoro già pronto per i nostri legislatori borghesi. Saranno organizzati in bande che percorreranno fiere e villaggi, dando delle rappresentazioni legislative».

A suon di discorsi sulla politica straniera, di molteplici promesse legislative, di minacce, di imbonimenti e di intontimenti, di danze politiche borghesi, di parole commoventi, la fatalità storica sorge, sconvolgendo la Francia: la classe operaia strappa via dal suo cuore il vizio del lavoro che avvilisce la sua natura e si leva con la sua forza orribile, non per reclamare i Diritti dell’uomo, che non sono altro che diritti allo sfruttamento capitalista, non per richiedere il Diritto al lavoro, che non è altro che il diritto alla miseria, bensì per forgiare una legge ferrea: quella di non lavorare per più di tre ore al giorno. Se ciò accadesse per davvero «La Terra, tremerebbe allora di gioia, sentirebbe agitarsi in essa un nuovo universo».

Ma come può accadere questa rivoluzione, si chiede Lafargue? Come chiedere a un proletario corrotto dalla morale capitalista una risoluzione virile?

A questo punto l’autore, che non si professa cristiano, evoca come ha già fatto in altro punto del libretto la figura di Cristo:

«Come Cristo, la dolente personificazione della schiavitù antica, gli uomini, le donne, i bambini del Proletariato scalano penosamente da un secolo il duro calvario del dolore: da un secolo, il lavoro forzato spezza loro le ossa, uccide le loro carni, attanaglia i loro nervi; da un secolo, la fame morde le loro interiora e rende allunicinati i loro cervelli! O Pigrizia, abbi pietà della nostra lunga miseria! O Pigrizia, madre delle arti e delle nobili virtù, sii balsamo delle angosce umane»!

L’attivismo della terza età oggi: dono della paresse

Nella piccola Appendice all’opera, Lafargue, che ha concluso con una invocazione alla Pigrizia, non avendo soluzioni pronte per riportare alla ragione un’umanità impazzita, si rivolge all’equilibrio ed alla razionalità del mondo antico.

La saggezza degli antichi, infatti, ha risposte valide in ogni tempo.

Gli antichi filosofi, secondo Lafargue, con le loro argomentazioni possono bene controbattere al dogma del lavoro.

Ad Atene, gli uomini liberi dovevano esseri liberi per mettere tutte le loro forze intellettuali e corporali al servizio della Repubblica. I lavori faticosi erano dunque attribuiti agli schiavi. Presso i Lacedemoni, le donne non dovevano né filare né tessere per non derogare alla loro nobiltà.

I Romani non conoscevano che due mestieri nobili e liberi: l’agricoltura e le armi.

«I filosofi antichi discutevano sull’origine delle idee, ma essi erano d’accordo che si trattava di aborrire il lavoro». Secondo Platone, la natura non fa né fabbri né calzolai. Occupazioni di questo tipo degradano le persone che le esercitano, mentre i commercianti sono una categoria di bugiardi abituati a mentire che la città tollera come un male necessario.

Per Senofonte le persone dedite a lavori manuali non sobno mai elevate a cariche politiche ed è giusto che sia così. L’opinione è condivisa da Cicerone,

«Proletari abbrutiti dal dogma del lavoro – esorta Lafargue –, ascoltate il linguaggio dei filosofi, che vi si nascondono con una cura gelosa: un cittadino che dona il suo lavoro per del denaro si degrada al rango degli schiavi, commette un crimine, che merita anni di prigione».

E aggiuge: l’ipocrisia cristiana e l’utilitarismo capitalista non avevano pervertito questi filosofi delle Repubbliche antiche. Le Repubbliche ideali di Platone e di Aristotele vivevano i più grandi loisirs (ozii, piaceri). Per cui il grande sogno di Aristotele è il nostro: non una vita di macchinari d’acciaio pesante e instancabili. Gli operai non comprendono ancora che la macchina è il redentore dell’umanità, quella che darà loro il tempo libero, il Dio che darà loro svago e libertà.

Coerente con la sua visione del tempo vita da gestire in autonomia, Paul Lafargue e sua moglie si diedero stoicamente la morte con l’acido cianidrico in una sera di novembre del 1911. Il duplice omicidio fu salutato tra la commozione generale. Lafargue lasciò due righe scritte per spiegare quel gesto: arrivati alla soglia dei settant’anni, lui e sua moglie non volevano essere sopraffatti dalla vecchiaia e non volevano essere di peso a nessuno. Questo era il tempo limite che marito e moglie, uniti nella vita e anche nella morte, si erano dati volontariamente e coscientemente.

Altri tempi, voi direte. Osserviamo oggi la terza età e vediamo quanto gli anziani siano attivi. Vanno alle mostre, frequentano concerti e conferenze, affollano le località di villeggiatura, vanno al cinema e al teatro, leggono più degli altri. Perché? Perché hanno più tempo. Essendo fuori dalla cosiddetta “vita attiva” hanno tutto il loro prezioso tempo da dedicare alla “paresse” decantata da Lafargue. Hanno maggiori disponibilità economiche, perché i figli sono grandi e lavorano e se hanno anche la fortuna di avere una casa di proprietà le possibilità di coltivare lo spirito sono anche più ampie.

Per questo i governi del mondo dovrebbero seriamente pensare a donare più tempoi libero e più pigrizia anche a chi è in età da lavoro, per almeno tre ragioni. La prima, è che il lavoro sia sempre una benedizione e non si trasformi in una maledizione o in un incubo perché nella vita si lavora e basta, avendo la possibilità a stento di pagare le bollette e di mangiare. La seconda è che, avendo più tempo libero, le persone farebbero come gli anziani: sarebbero più portate a fare acquisti e soprattutto a potersi permettere divertimenti e viaggi, dando una mano non indifferente alle economie. La terza è che, avendo corpi e menti più riposati ed efficienti, sarebbero vittime in misura minore di malattie corporee e psichiatriche, che incidono sul servizio sanitario nazionale, oltre a lavorare meglio e ad aumentare anche il fatturato delle aziende.

Per questo l’opera di Paul Lafargue oggi è così attuale e consigliabile a chi si occupa di politiche del lavoro.

Il grande umorismo che pervade le pagine de Il diritto alla pigrizia fu il motivo del successo dell’opera, che fu, insieme al Manifesto comunista, l’opera di propaganda socialista più tradotta in molteplici lingue.

Bibliografia

CICERONE, Dei doveri, I, tit. II, cap. XLII.

DARWIN CHARLES, Descent of man.

DESCARTES, Les Passions de l’âme.

Docteur BEDDOE, Memoirs of the Anthropological Society.

LAFARGUE PAUL, Le droit à la paresse, versione in francese online: www.marxists.org/francais/lafargue/works/1880/00/droit.pdf

LEROY-BEAULIEU PAUL, La Question ouvrière au XIVe siècle, 1872.

PLATONE, Repubblica.

PLATONE, Le Leggi.

PLUTARCO, Vita di Licurgo.

REYBAUD LOUIS, Le Coton, son régime, ses problèmes, 1863.

SENOFONTE, Economico.

VILLERMÉ LOUIS RENÉ, Tableau de l’état physique et moral des ouvriers dans les fabriques de coton, de laine et de soie, 1840.

Autore: Lucia Gangale

Lucia Gangale, native of Benevento, is a journalist, blogger, essayist and professor of History, Philosophy and Human Sciences. In addition to books of history and sociology he wrote stories and poems. He is dedicated to photography and director of short films. It 'an expert in communication techniques and tourism marketing. She is the editor in chief of the six-monthly cultural publication “Reportages Storia & Società”, founded in January 2003. https://www.bookelis.com/auteur/gangale-lucia/29762 Journaliste, blogger, essayiste et professeure d’histoire, de philosophie et de sciences humaines. En plus des livres d’histoire et de sociologie, elle a écrit des histoires et des poèmes. Elle se consacre à la photographie et réalisateur de courts métrages. C’est une experte des techniques de communication et du marketing touristique. En janvier 2003, elle a fondé le magazine semi-annuel “Reportages”. Elle collabore sur des portails de philosophie et est “brain” de “AgoraVox”, www.agoravox.fr. Son blog est: luciagangale.blogspot.com

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