> di Bruna, Stefania Massari*
Abstract: The intention of this article is to show how, through the analysis of various aspects of Kantian speculation in relation to “time”, it is possible to observe, in the philosopher of Konigsberg, a need to recover a thinking approach to philosophy, that was able to overcome the dualisms that affected the era that preceded the “enlightenment century”. Such is the sense of the Kantian concept of “metaphysics”, in which a “reason” was needed to be understood as “organic”, going beyond any theoreticism and scientism (today’s terms, as well as today’s drifts of philosophy), that the author had already begun to foreshadow substantially in his time, and which Hegel and the idealistic Wirkungsgeschichte had continued to undertake, as a philosophical approach to history.
Key-word: Time, Metaphysics, Thinking-Philosophy, Kantian-speculation, Philosophical-approach-to-history
«Il νοῦς vede, il νοῦς sente: tutto il resto è sordo e cieco»
(Epicarmo, fr. 249 Georg Kaibel)
L’idealismo in nuce. Kant e Hegel.
Il presente scritto intende mostrare come il tema della temporalità in Kant, centrale e cruciale nella sua speculazione, esprima essenzialmente il senso pieno del suo criticismo, ovvero la necessità di recuperare nell’uomo del suo tempo, auspicato come autentico interprete-lettore, un’ermeneutica pensante, e recuperando altresì quella stessa centralità, attribuita al pensare, propria della classicità greca (ripresa anche da una parte della patristica cristiana come pensiero del dato rivelato in una “teologia della rivelazione”), e che diventerà invece colonna portante di tutto il “classicismo tedesco”, trovando il suo culmine nella filosofia hegeliana (nel volgersi al mondo classico e allo stile dell’Atene della classicità, si caratterizza l’epoca che va da Kant agli idealisti come “classicismo tedesco”, recuperando insieme ad essi direttamente o indirettamente l’importanza del tema del νοῦς. Cfr. Karl Ameriks, «Introduction: interpreting German Idealism», in The Cambridge Companion to German Idealism, a cura di Karl Ameriks, Hank-McMahon, Cambridge University Press, Cambridge 2000. Inoltre, cfr. Werner Beierwaltes, Proclo, I fondamenti della sua metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1990. Id. Eternità e tempo: Plotino, Enneade III 7, Vita e Pensiero, Milano 1995). Che l’autore chieda tutto questo al lettore, come al mondo scientifico e filosofico della sua epoca, espressamente, dal momento in cui pone, in tutte e tre le Critiche, direttamente o indirettamente, il problema del senso e del tempo, diventa via via evidente dall’analisi delle sue opere. Il pensiero, in tale speculazione, tradotto in termini moderni, esige di mediare tra una dimensione teologica, cosmologica e psicologica, di tipo razionale, e un livello “metafisico-noumenico”. Eludendo tale vincolo causale “mediano” (in senso ideale – ovvero il vincolo della temporalità) infatti, si rischierebbe di rimanere sostanzialmente invischiati nelle maglie aporetiche di quel nozionismo, che Kant paventava nelle sue Critiche, il quale confermerebbe (invece di superare) proprio quel “mondo prekantiano” la cui “metafisica” riduceva essenzialmente l’uomo a uno “stato di minorità”. Nell’Estetica trascendentale della Critica della ragion pura, Kant afferma che il tempo non è un concetto empirico, se lo fosse non avrebbe a che fare col mondo oggettivo e trascendentale della conoscenza e del pensare. Il tempo non solo è quella “rappresentazione necessaria” che è fondativa di tutte le intuizioni, ma essa è condizione universale della possibilità e della realtà dei fenomeni. Solo attraverso la temporalità, quel mondo fenomenico che ci perviene attraverso la soggettività dell’esperienza e dei processi empirici, è possibile realizzarlo, ponendo come inscindibile il nesso che deve necessariamente legare realtà empirica e idealità trascendentale. Il concetto trascendentale del fenomenico, infatti sia afferente allo spazio sia al tempo ci “avverte” che gli oggetti del mondo fenomenico non ci sono minimamente noti, come oggetti in sé, ossia non ci sono già dati che nella loro mera ovvietà. Ossia essi, sebbene siano inconoscibili come in sé, necessitano dei processi di pensiero e dell’idealità per accedere alla loro “realitazione” in quanto fenomeni (cfr. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, a c. di Pietro Chiodi, De Agostini, Novara 2013, p.105, nel quale il traduttore riporta che il concetto trascendentale dei fenomeni nello spazio sia un “avvertimento critico” per il lettore, per ricordargli che “nulla di ciò che viene intuito nello spazio è cosa in sé”. La parola “realitazione” si riferisce alla speculazione hegeliana, avendo in mente, l’autrice del presente articolo, la continuità e lo sviluppo del pensiero kantiano nel pensiero hegeliano. Vincenzo Cicero nella Nota editoriale all’“Enciclopedia delle Scienze filosofiche in compendio [1830]”, Bompiani 2017, p.28, specifica il senso della traduzione di Realisierung con “Realitazione” e non già “Realizzazione” per designare come Hegel operi, ancora all’interno dell’Idea [della Realtà assoluta] risolvendo l’opposizione tra idealità e realità, e quest’ultima con diversa sfumatura sostantivale e aggettivale rispetta alla parola “realtà”). Il termine “Realitazione”, come può ben osservare il lettore è afferente al mondo hegeliano (Realisierung); nell’ottica infatti di una contemporaneità di un idealismo tedesco che venga fatto risalire fino a Kant, appare plausibile, per una fruttuosa e perspicua ermeneutica kantiana, utilizzare gli strumenti della filosofia hegeliana, e con essi e attraverso di essi giungere oltre e indietro nel tempo, ravvisando nella visuale kantiana temi che ricordano, non solo la classicità greca, ma anche alcuni padri della cristianità e, nello specifico, Agostino. Nella speculazione agostiniana si ravvisano infatti molti elementi comuni alla speculazione kantiana sul soggetto e infine al rapporto di Kant con la cultura del suo tempo. Nelle Critiche kantiane è riconoscibile un idealismo allo stato nascente (si vedano i testi di Emanuele Severino in cui l’autore afferma che l’idealismo rappresenta uno sviluppo coerente della filosofia kantiana. Nella presa d’atto di una contraddizione all’interno della cosa in sé è rinvenibile tutto ciò che può aver originato le tematiche sull’idealismo. Se la cosa in sé è un concetto essa è aperta al conoscere, ma se è aperta al conoscere essa non è più meramente in sé. Quello di Kant è un monismo soggettivo che opera tra la contraddizione fondamentale tra fenomeno e noumeno e l’inconoscibilità del noumeno stesso. Cfr. Emanuele Severino, La filosofia moderna. I grandi problemi del pensiero moderno da Cartesio a Hegel, Rizzoli, Milano 2004). Esso fiorisce attraverso una introspezione di tipo agostiniano, nonostante le maglie antinomiche della ragion pura, mediando, l’autore di Königsberg, tra razionalismo cartesiano e ragion pratica, e quest’ultima posta da esso in relazione con l’empirismo di area inglese. La speculazione sul tempo è centrale dunque nel pensiero dell’autore, e la sua centralità rimanda alla centralità dell’atto del pensare stesso in relazione alla filosofia (nel discorso sulla “divisione della logica generale in Analitica e Dialettica” Kant taccia di vacuità l’arte di chi riteneva di poter confondere la mera logica formale con la verità di una qualsiasi conoscenza, prescindendo dai suoi contenuti, essendo tali contenuti afferenti all’“arrischio” della formulazione di giudizi sugli oggetti, affermando qualsiasi cosa intorno a essi. Ovvero non può ridursi la filosofia a mera analitica formale o dialettica di stampo sofistico, come connessione o argomentazione coerente rispetto ad altre che ne siano ritenute incoerenti. “Un ammaestramento del genere, è, sotto ogni aspetto, incompatibile con la filosofia e la sua dignità.” Cfr. I. Kant, op. cit. pag. 132). Nel nesso pensiero-tempo è coglibile tutta la portata della “rivoluzione copernicana” del soggetto, soprattutto guardando alla filosofia kantiana con le lenti hegeliane di un “tempo (come periodo storico) appreso nel pensiero”, che ne abbia rappresentato l’evoluzione “necessaria” idealmente. Dunque la speculazione sulla temporalità è una precisa posizione, strettamente filosofica, sulla storia della filosofia stessa, che in Hegel diverrà esigenza dall’interno di tale branca specifica, di una “filosofia della storia”. Hegel infatti emerge come il risvolto prassistico della teoresi ideal-trascendentale prefigurata da Kant. Ciò sembra maggiormente comprensibile infatti proprio attraverso uno sguardo filosofico della storia. La necessarietà (ideale) della filosofia della storia, nel sistema hegeliano, infatti, non riguarda affatto evoluzioni o processi storicistici e immanentistici, bensì una prospettiva meramente ideale. Se e dove la storia si è realizzata nei termini descritti hegelianamente, ciò non significa che le fasi evolutive di essa fossero passaggi temporali fatalmente necessari. Occorreva guardare alla speculazione sull’“oggetto”, in generale, come tema filosofico, nel tempo prekantiano, dalla visuale della filosofia della storia, per potervi rintracciare in essa un’esigenza di “soggettivazione”. Infatti nell’epoca antecedente a Kant vi era un concetto di “metafisica” posto e considerato in senso occludente, pervasivo, ovvero affermante che l’esistente si giustificasse in relazione a una metafisica che lo doveva antecedere, come parametro totalizzante. La sincronia dell’“ipse-dixit”, infatti (il voler separare nettamente l’Eterno dal tempo) la suggestione di una “morale” meramente esteriore, era l’altro volto della chiusura razionalistica in senso strumentale, laddove risuonò invece in tutta la sua incisiva determinazione il motto kantiano, sintesi di tutto il sapere illuministico essenziale: “Sapere aude!”. Dalla visuale astratta di un oggetto come nozione, l’oggetto stesso “esigeva” il concreto. Perciò per il filosofo di Königsberg divenne essenziale una speculazione sul “tempo, oltre che sullo spazio, come schemi della sensibilità interna ed esterna; kantianamente, non poteva più pensarsi, senza temporalizzare l’oggetto del pensiero e l’azione del pensare, ovvero senza temporalizzazione. In questo dunque possiamo osservare un idealismo in nuce. Non vi è, fra le azioni cognitive e intellettive del soggetto, solo l’esercitare processi logico-seriali, come logica meramente aristotelica e il principio sincronico di non contraddizione. L’“Io penso” kantiano è il luogo kantiano della coscienza: l’“appercezione”, là dove, “luogo”, già nel senso comune, significa collocazione spazio-temporale (cfr. Luca Forgione, Attualità kantiane: nota sulla questione della conoscenza in sé in Kant, Paradigmi. Rivista di critica filosofica, n. 3-2008, p. 158: “La conoscenza empirica del sé non ha ovviamente un corrispettivo nella realtà, è conoscenza di un’attività, conoscenza che dura fin quando tale attività si rivolge all’esterno attraverso la sintesi delle rappresentazioni nello spazio, nel senso esterno. Ciò significa che il particolare fenomeno che si palesa nell’appercezione empirica – la percezione di esistere pensando di natura cartesiana – non potrebbe sussistere senza il previo coinvolgimento di ambedue le forme della sensibilità, spazio e tempo, ovviamente con ruoli diversi; e questo perché è necessaria una relazione con la realtà, una relazione che si istituisce attraverso le forme soggettive della spontaneità e della ricettività. Solo con il presupposto della presenza della sintesi conoscitiva rivolta all’esterno attraverso i filtri del tempo e dello spazio – presupposto anticartesiano e critico nei confronti dell’idealismo problematico e scettico – è possibile coinvolgere solo nel tempo la coscienza di percepirsi pensanti. C’è un’intuizione empirica del sé nel senso interno, e questa si palesa nel suo perdurare fin quando ci sono rappresentazioni che si rivolgono a oggetti esterni che perdurano nel tempo e nello spazio”. Esso è dunque, kantianamente, il punto in cui tutte le possibili percezioni vengono accomunate nella normatività di una immaginazione trascendentale, là dove esse vengono unificate per necessità, per una necessità di ideazione sensata, ma essendo unificate, perciò stesso vengono principiate, ovvero temporalizzate. Per sensato s’intende ciò che è proprio di un solo senso: che sia uno. Vi è così un rimando implicito all’uno in un luogo previo, e dunque alla metafisica, ma non è un tornare all’indietro antiquario, e ancor di più, astratto. La ragione diviene organo della metafisica in quanto e se si parli di una metafisica che esige e promuove il pensiero. Si osserva l’esigenza di tale metafisica dall’interno dei processi di ragione, attraverso analitica e deduzione. Per esserci un senso, per darsi, esso deve essere uno, accolto in una “appercezione” sintetica; se ci fossero tanti sensi, non si potrebbe avere “sensatezza” neanche a partire dal suo significato letterale, e laddove il domandare fluirebbe continuo. Da interprete e lettrice kantiana, seguendo a mia volta i canoni di un’ermeneutica che possa definirsi pensante, oserei affermare ciò, semplicemente per domandare sul “senso” di tale parola, che evoca una memoria della grecità. In Eraclito la parola “senno”, sinonimo di sensatezza, fu determinante nella formulazione della sua aforistica, là dove “pensiero”, parola situata nell’alveo semantico di senno e sensatezza, kantianamente significa, soprattutto e sostanzialmente, “esperienza” e non solo in senso meramente empirico. Ma come si potrebbe intendere l’“esperienza” in senso kantiano, posto che il pensiero, di essa non possa fare a meno, pena una sua derubricazione a “dogma” di una metafisica intesa in senso deteriore? Kant, per la sua posizione considerata ambivalente riguardo a questa idea è stato definito da alcuni interpreti “Giano bifronte”. Perciò risulta lecito domandare se nella speculazione kantiana prevalga il concetto di idea o di esperienza. Se analizziamo i testi kantiani, confrontandoci con qualche autore della letteratura secondaria, possiamo osservare che per Kant, e, come ne esprimeranno con chiarezza le opere, per Hegel, entrambi sono concetti che non possono fare a meno l’uno dell’altro. L’idea necessita di esperienza per definirsi e l’esperienza esige ideazione per regolarsi. Se ci si avventura in alto mare distaccandosi da riva si rischia la “pigra filosofia di un intelletto acritico”. Se si è troppo prudenti si sente il bisogno di una “metafisica” ragione (cfr. Silvestro Marcucci, Kant e l’esperienza scientifica [1770 – 1803], Studi Kantiani, Vol. 1 [1988], pp. 22 – 23. Si veda anche Id., Aspetti epistemologici delle finalità in Kant, Mondadori, Milano 1972; Apriori naturale ed apriori storico nella conoscenza e nelle scienze). Come nel motto “Fides quaerens intellectum” la fede si mostra bisognosa dell’intelligenza riconoscendosi nei limiti dell’umano, così l’esperienza nasce dalla consapevolezza dei limiti del mondo empirico, e della ragione svincolata dal mondo dell’esperienza. Possiamo osservare in questa presa d’atto della ragione kantiana, là dove il limite è il corrispettivo del “negativo” hegeliano, i prodromi dell’idealismo: l’ideazione è tale autenticamente solo se abbia significanza reale, ma ciò avviene solo attraverso una “temporalizzazione” delle categorie logiche del giudizio (cfr. Terry Pinkard, La Filosofia tedesca 1760-1860, Einaudi, Torino 2014, p. 49). È l’espressione temporale della serialità logica formale a trasformarle in categorie (schemata). Il tempo è il senso e forgia lo spazio. E ciò accade soggettivamente. Ma non tanto ciò che passa, invero, ciò che rimane è sostanziale. Non vi è solo “illusione trascendentale” nella prefigurazione di un “oltre”, di un poi, né di un prima o di un adesso, come presenza (manenza). Essa è necessità del senso oltre il sensibile. E il senso è il pensiero. Non si può pensare a discapito del senso, a partire dal sillogismo. La ragione esige l’uso del sillogismo, ed esso è seriale, temporale. Tale è la logica. Essa però esige una giustificazione per ogni “passaggio” del processo, ovvero esige un fondamento: una totalità serialmente ingenerata e qualitativamente incorruttibile (anolethron). E quella totalità (sub specie di un totus simul) è il tempo nella sua onnicomprensività principiale ed elementale che si esprime nelle categorie. E tuttavia vi è una libertà principiale, necessaria, come necessità che la spontaneità umana cominci l’esperienza, a livello di “autocoscienza universale”. La ragione esige dunque una permanenza (manenza plotiniana) che è l’inizio triadico della circolarità della logica hegeliana. Hegel è kantiano, in sé. Se rimaniamo infatti a livello della logica seriale la ragione crea antinomie. La libertà da un lato è esigita radicalmente e imprescindibilmente perché è necessario che vi sia una causa incausata che regga tutta la concatenazione causale e dall’altro negata in quanto serialità è linearità causale e deterministica e a partire da essa non vi può essere effetto senza causa. A partire da una Ratio ideale muta invece la prospettiva, vi si scorge una differenza di livelli di cognizione e di causazione (causalità formale e finale) e dunque ciò che a livello di serialità appare come illusione trascendentale, a livello di ratio ideale diventa progetto (di temporalizzazione, ovvero in divenire) trascendentale, di cui si delineano tentativi di definizione. Dunque la meditazione sul tempo rimanda al tema centrale del filosofare, ovvero alla libertà (cfr. T. Pinkard, Ethical Form in the External State: Bourgeois, Citizens and Capital, in Crisis & Critique, Volume 4, Issue 1, 2017. Qui Pinkard afferma che nella Logica hegeliana il “concetto”, che nel pensiero kantiano è l’unità sintetica dell’appercezione, non è solo soggettivo o solo oggettivo. Nei suoi giudizi e nella sue inferenze non ci si riferisce a una realtà al di là delle apparenze e che con esse non abbiano nulla a che fare o viceversa. Noi possiamo riferirci a cose obiettivamente ma in riferimento e in relazione a una interiorità soggettiva. Il concetto, non è dunque qualcosa di astratto e al di là del tempo, ma nemmeno imprigionato in una insensata serialità. Esso è la vita stessa nel concreto, temporale e ideale, che si esplicita nella dimensione normativa e nel diritto, in quanto esperienza soggettiva e oggettiva: «In the terms of Hegel’s Logic, the concept of life plays a role in the judgments and inferences which are characteristic of what he calls the “concept,” of what, in the misleading but ubiquitous term in Anglophone philosophy, is called “normativity” [Hegel’s own term for practical normativity is often simply the German term, “Recht”] […] Judgments and inferences about the “concept” [which Hegel identifies with Kant’s synthetic unity of apperception] have to do with proprieties, such as, for example, whether a conclusion follows from a premise, or whether a claim coheres with another claim. In such judgments, we are not just pointing out or counting, nor are we looking for the reality behind the appearance. Rather, we are evaluating something. On Hegel’s account, such evaluations go further than merely judging about the goodness or badness of inferences and claims, they also have to do with how good or bad certain types of things are themselves, given their relation to themselves and other things. Now, we can evaluate things either “subjectively,” in which case we examine various proprieties of judgment and inference [in our subjective thinking], or we can evaluate things “objectively,” in which case we are looking at systems of things and evaluating them in terms of whether they measure up to their concept [or evaluate even whether the concept of “measuring up” is appropriate to that system]. Finally, we can examine things that are objective – as systems measuring or failing to measure up to their concept – but which themselves also have a subjective interiority to themselves which means that they have an active self-relation in measuring up or failing to measure up to their concept»). Immaginare la possibilità di una coscienza libera come inizio e fine dell’ideazione e del fare, è regola imprescindibile della Ragion pura e postulato della Ragion pratica. Per Kant non è opportuno il realismo trascendentale che giunge all’empirismo trascendentale, ovvero l’incapacità di analizzare il fenomenico rispetto alla Cosa in sé, l’incapacità di quell’analisi atta a ragionare e a pensare. Ciò è il “pregiudizio comune”, o il fallace ragionamento del senso comune: scambiare l’apparenza per realtà, laddove va assolutamente fatto il distinguo idealistico-trascendentale (cfr. Henry Allison, Kant’s Transcendental Idealism, An Interpretation and Defense, Yale University Press, Yale University 1983, pp. 14-15). Se si scambiasse l’apparenza con la realtà si renderebbe plausibile l’universo berkeleyano. Quell’universo immateriale che non necessita di alcuna dialettica e di alcun pensiero e che non possiede alcuna spinta all’attualizzazione. L’imperativo categorico kantiano “esige” che si raggiunga “Il regno dei fini”, al fine dell’universalizzazione, ovvero che ci sia un principio di legalità o legislabilità, o di elaborazione di massime adeguate, valido per tutti gli agenti razionali, nell’universalizzabilità dei decreti e nella custodia della dignità delle persone; essendo il dovere formale che lo sostanzia fondato sulla libertà, esso si propone di raggiungere un regno di libertà (cioè il regno dei fini), tale dovere esige tale regno dei fini, e tale libertà essendo postulato della Ragion pratica ed evidenza oggettiva ininferenziale della Ragion pura, seppure a partire da essa incondizionato antinomico e ininvestigabile (T. Pinkard scrive: «La dottrina rivoluzionaria della libertà e dell’autonomia ci impegna a un ordinamento sociale liberale non perché questo ci rende più felici, bensì perché si tratta di una necessità morale richiesta dalla nostra stessa libertà». Cfr. Id. Op. cit. p. 71). La riflessione sul principio morale, come sulla stessa libertà, dunque è intrinsecamente collegata alla meditazione sul tempo e al pensare in generale. Il kantiano “fatto della ragione” è esso stesso la nostra radicale spontaneità nella ricezione del valore normativo di una istanza razionale, spontaneità dedotta dal riconoscimento del dovere formale come “fatto” di ininferenziale evidenza, e che è i.e. inderivabile, è libertà. Se negassimo tale “fatto”, lo eserciteremmo in ogni caso, confermandolo attraverso la nostra stessa libertà di negarlo (ibidem, p. 75). Senza libertà non vi è alcun pensiero e né una specifica posizione autoriale.
Il tempo in Agostino. Il tempo Agostiniano e Kant. Agostino e la libertà.
È noto il detto Agostiniano sulla difficoltà di esaurire e definire compiutamente l’idea del tempo, sebbene se ne possa avere interiormente consapevolezza del suo senso e del suo agire nel proprio luogo di esistenza. «Si nemo a me quaerat, scio, si quaerenti explicare velim, nescio», se nessuno me lo domanda lo so, se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più (cfr. Agostino, Confessioni, XI). Dio è agostinianamente l’iniziatore del tempo, colui che crea “dal nulla”, la cui esegesi più razionale è “per atto di assoluta donatività”, dal luogo dell’atemporalità, ovvero che vada oltre la stessa idea di eternità, sebbene, avrebbe chiosato Kant, non possiamo che argomentare tale divina condizione con canoni di giudizio temporalizzanti, cioè all’interno del kantiano schemata della sensibilità interna (cfr J. Moreau, Le temps et la création selon Saint Augustin, in “Giornale di Metafisica”, 1965, pp. 276-290). E ciò non significa misologia riguardo a ciò che è divino, rinuncia a una theoria (nel senso dato dai Padri della Chiesa, soprattutto orientali, e oltre tale senso), oppure teologia negativa o apofatica. Temporalizzazione è, in Agostino come in Gregorio di Nissa, uso dei canoni dell’akolouthia, là dove vi è un cominciamento che, in quanto “inizia” la successione dei momenti, prefigura rispetto a essi una meta, in quanto, akolouthia senza tale cominciamento sarebbe peccato, proprio perché mancante di theoria (Gregorio di Nissa, definisce tale cominciamento θεωρία τῶν ἀθεωρήτων, teoria che si può solo contemplare con l’anima ma non comprendere e di cui non si può prefigurare ulteriore teoria, teoria dell’invisibile e del nascosto, di contro all’essere creato di cui occorre elaborare una teoria speculativa perché esso si dispiega in una storia ordinata in un’ akolouthia, ma tale successione senza contemplazione della theoria “cominciante” sarebbe peccato: cfr. Jean Daniélou, L’Etre Et Le Temps Chez Gregoire De Nysse, E.J. Brill, Leiden, Netherlands 1970). Agostino si rifà pienamente ai Padri, anche se adotta sempre un approccio ermeneutico in relazione alla sua posizione interpretativa e alla sua esperienza di fede. In tale posizione agostiniana agisce il giudizio, come affermazione della propria esistenza e della propria coscienza, come volontà precipua di esistere e di pensare, e la memoria, entrambi ci avvicinano al Creatore in quanto caratteristiche essenziali del Dio. La memoria però non è mero soggettivismo. E così anche il giudizio. Essi appartengono costitutivamente al Dio-Trinità (cfr. Salvatore Taranto, Agostino e la «semantizzazione» del Tempo: il linguaggio di Dio che parla all’uomo, in Dialegesthai 2002, ISSN 1128-5478). La memoria è il luogo di incontro tra il divino e l’umano e il giudizio stesso è possibile in quanto rammemorazione del fatto o dell’evento suo oggetto. Il giudizio è valutazione e presa di coscienza. Dunque coscienza è temporalizzazione. E tutto è in relazione al Criterio del giudizio stesso. Vi è un criterio che agisce affinché gli eventi e i fatti possano essere messi in relazione nell’atto del giudicare. Tale posizione non può dirsi soggettivistica, in quanto Agostino è assolutamente al di fuori di ogni possibile contrapposizione di ordine teoreticistico, sorta in epoca moderna, tra “soggettivismi” e “oggettivismi”. Memoria è altresì codice intimistico. Essa rappresenta il luogo di inabitazione del divino. In interiore homine habitat veritas. E in virtù di un tale ospite così prezioso, tutto sarà orientato e vissuto (soggettivamente e oggettivamente, in linguaggio di conio moderno) in funzione di esso. Il tempo (la coscienza) dunque diventa il luogo attraverso cui è possibile guardare alla redenzione e tentare di giungervi, il luogo della salvezza. La memoria, essendo presente in tutti consente di poter generalizzare un discorso sulla salvezza. Tale discorso può assumere valore paradigmatico. Il tempo è la “fattualizzazione” del pensiero divino inerente alla creazione a parte hominis, come continuazione del suo atto creativo. È il tempo della redenzione, ovvero dell’acquisizione di una progressiva liberazione. Mentre infatti “i cicli degli empi” sono meccanici ripetitivi, la felicità e la salvezza sono uniche e donative, e “cominciano” il nuovo, l’ulteriore (cfr. Agostino, De civitate Dei XII). Prima di tale tempo, ovvero il tempo della possibilità di realizzare il dono divino e la libertà, non vi poteva essere tempo, e poiché non vi era tempo e Dio ne è il creatore, non è lecito (ragionevole) chiedere che cosa ci fosse prima di Lui poiché dove era Lui non vi era un prima o un dopo (canoni temporali), (cfr. Agostino, Confessioni XI: «Non enim erat tunc ubi non erat tempus»). Cosicché il tempo in Agostino acquisisce connotazione oggettiva, in quanto progetto divino, ma poiché si scopre dentro l’uomo, esso è da considerarsi anche secondo uno statuto soggettivo, in quanto interiore e personale. Agostino secondo questo rispetto evoca la dialettica trascendentale kantiana, anche perché il Dio di Agostino è il Dio della fede, ma Esso viene declinato in progetto di redenzione (offerto all’uomo come misura divina paolina), di conversio, e in questo senso soggettivato in canoni paradigmatici di oggettivazione (cfr. Salvatore Taranto, Agostino e la «semantizzazione» del Tempo: il linguaggio di Dio che parla all’uomo, op. cit., n. 3, La memoria-immagine decodificatore del linguaggio-tempo e fondamento del suo statuto oggettivo: «La fede, la quale sta alla base di questo dialogo [l’agire di Dio attraverso la sua parola che si comunica all’uomo], è una potenzialità vicina alla ragione e per questo ha bisogno di alcuni segni che permettano la decifrazione della sua validità. Ebbene, ciò è possibile solo nel tempo vissuto come personalizzazione [è infatti nella persona che si esercita la libertà di discernimento] ma insieme come evidenza oggettiva [poiché solo in una dimensione oggettiva è possibile percepire un messaggio universalmente valido]. Per questo Dio può parlare all’uomo, nel tempo, nella sua interiorità, ma insieme anche nell’universalità del suo genere. Questo linguaggio è, infatti, recepibile nella individualità universalmente, perché comprensibile a tutti: la memoria, come decodificatore di questo linguaggio, è una realtà oggettiva, non lo si dimentichi, in quanto essa è “parte” costituente della natura-immagine: tale linguaggio, come si è visto, è il tempo, l’unica dimensione dell’esistente reale contemporaneamente personale ed oggettiva; personale, perché costituente proprio di ogni singolo; oggettiva, in quanto riflesso della natura divina perché sua esplicitazione»). Qualsiasi discorso su un possibile “superamento” della concezione agostiniana sul “tempo” e per come riaffiora nelle speculazioni successive, nella dialettica trascendentale kantiana, è indice a mio parere di un certo “decentramento” di prospettiva. La questione del “tempo” riguarda l’aspetto speculativo e filosofico della storia e non può dissiparsi in dispute teoreticistiche. Vi è un tema filosofico di centrale importanza, come quello del tempo e della temporalizzazione rispetto all’atto umanamente necessario del pensiero e del pensare, ed esso è da considerare il filo rosso che “accomuna” (in “koinonia”) tutti coloro che si sono cimentati a farne “theoria” (cfr. Gabriele Gionti – Alfredo Sgroi, La teoria del tempo l’attualità di sant’Agostino, in Quaderno 4011-4012 pag. 252 – 265, Anno 2017, Volume III: «Nel 1905 Edmund Husserl, inaugurando un ciclo di lezioni sulla coscienza interna del tempo, dichiarò che le riflessioni sul tempo sviluppate da sant’Agostino nel libro XI delle Confessioni restavano insuperate»).
Kant e la necessità etica, del diritto e della politica. I temi fondamentali della speculazione hegeliana. Il tempo e le istituzioni umane. Kant e Platone.
Il pensiero stesso non può darsi che liberamente. Il pensiero non può che nascere da libertà ed ivi giungervi. Dunque che ha a che fare il tempo con la libertà e come esso si interrelaziona con la temporalizzazione? Che ha a che fare Kant con la libertà? Si può affermare che il tema della libertà sia al centro della teoresi e degli scritti kantiani (se rimaniamo nell’ambito del dibattito dossografico, siamo in dovere di riportare differenti tesi argomentative sul concetto di libertà in Kant e nello specifico sul tema dell’autonomia ad essa correlato. Larmore è un autore che ritiene fuorviante il concetto di autonomia kantiano, presupponendo la posizione kantiana un concetto di autorità individualistico. Katerina Deligiorgi ritiene invece che tale concetto sia centrale in Kant e che la libertà abbia a che fare sempre strettamente con la moralità. «Larmore has argued that a morality of autonomy is fundamentally misguided and that the Kantian conception of autonomous agents as self-legislators promotes the mistaken belief that the authority of moral norms depends on individuals [cfr. Charles Larmore, The Autonomy of Morality, Cambridge University Press, Cambridge 2008]. Underpinning this individualistic conception of autonomy, which Larmore attributes to Kant and to contemporary Kantians, is a hollow view of agency and an ultimately egoistic view of morality. It is certainly hard to see how autonomy can express a moral ideal, if it comes down merely to individual self-endorsement». Cfr. Katerina Deligiorgi, The Scope of Autonomy. Kant and the Morality of Freedom, Oxford, Oxford University Press, 2012). Kant guarda il mondo a partire da una “dislocazione temporale”, o parallasse. Egli guarda il tempo dal punto di vista dell’eterno. C’è un in sé agostinianamente interiore, come vi è un in sé, un incondizionato, nella dimensione esteriore, ma esso è in entrambi i casi insondabile all’umana ragione degli antagonismi, alla “ratio strumentale”, così come, tale in sé, non è considerabile kantianamente come “intuizione intellettuale” (come intellezione platonica), poiché a Kant tale dimensione non è utile al fine di contribuire pubblicamente al discorso illuministico del suo tempo, che si oppone a una “metafisica” totalizzante, onnipervadente. Eppure è possibile guardare al mondo (anzi è kantianamente necessario), nel suo fare pratico e nelle sue istituzioni, a partire da essa, dalla dimensione della libertà, accedendovi dal punto di vista della Ragion pratica. Dunque quella libertà è kantianamente possibile (abbiamo ascoltato dal vivo Luciano Dottarelli e Massimo Cacciari, nella loro prolusione su “Il tempo nella filosofia di Immanuel Kant”; L. Dottarelli con la Lectio Magistralis “Sensorium Hominis? La concezione del tempo nella filosofia di Immanuel Kant” e M. Cacciari con “Che cos’è il tempo? Decade kantiana”, a Orvieto, Palazzo del Popolo, Sala dei Quattrocento, il 1° dicembre 2017). Nella critica a Heinrich Schulz, Kant descrive l’assurdità dell’ipotesi di un “fatalismo universale” che vanifica il concetto di moralità e riduce il mondo a una sorta di teatro di marionette, là dove sia impossibile la stessa idea di “obbligazione” o “imperativo” (cfr. Immanuel Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a c. di Filippo Gonnelli, III. Recensione di Johann Heinrich Schulz, Laterza, Bari 2011 p. 25-26). Ma se la libertà è al centro delle riflessioni kantiane, e poi lo sarà di quelle hegeliane, non si può dare kantianamente riflessione sulla libertà, ovvero filosofia, senza pensarla in stretto rapporto con la storia, la politica e il diritto, ovvero con la morale e con l’antropologia. Come non è possibile considerare le tre Critiche kantiane al latere degli scritti sulla morale, sul diritto e sulla “filosofia della religione”. C’è una funzione di universalizzazione, un servizio al genere e all’intero, sia dal punto di vista della teoresi che dell’agire politico. Tale intero e tale universalizzazione sono in stretto rapporto con quella libertà e con quell’incondizionato che antecede l’agire pratico, ma che sta a “fondamento” di ogni ente fenomenico. Così come nel regime democratico, l’istituzione rappresentativa, ovvero un esecutivo distinto dal potere legislativo, determina il popolo nella sua capacità di autodeterminarsi e dunque determina la sovranità del popolo in quanto tale, il progetto (di universalizzazione e di costituzione del regno dei fini) determina le parti in rapporto a esso, le unifica, unifica le volontà (libere) nell’autentica libertà, che è l’unione delle libere volontà nell’adesione alla funzione pubblica stessa. Poiché il fine privato, sebbene non deve essere sovradeterminato, non si sostanzierebbe in un inautentico fine di libertà se non aderisse al fine di cui sopra. Tale distinzione tra fine pubblico e fine privato, ricorda molto da vicino la distinzione vigente in epoca della grecità classica tra πολίτης e ἰδιώτης. Anche Platone fa propria questa importante distinzione. Fra i possibili esempi dell’uso di tale distinguo in Platone, possiamo guardare al Cratilo, poiché esso può avvicinarci a delle significative sfumature di significato rispetto a questi due concetti, affrontando il tema della comunicazione di contenuti filosofici, dialettici e mitologici dal punto di vista strettamente del linguaggio. Nel Cratilo, Socrate invita Ermogene, dietro il quale egli ravvisa una visuale di stampo sofistico, e specificamente protagorea, che tende perciò ad assumere una posizione di estrinsecità tra nome e cosa, quasi che non ci possa essere un nome che accomuni i “nominanti” e che ci sia la possibilità di sovrapporre una sfera privata a una pubblica in relazione alla nominazione; e che il nome che ciascun singolo riferisce a un oggetto diventi il nome di quell’oggetto, indipendentemente dalla discrasia prodottasi tra pubblico e privato. Il sofismo, infatti, è proprio di chi difende la prerogativa dei singoli di detenere la libertà di attribuzione dei nomi, ciò che per Socrate non equivale ad autentica libertà (cfr. Plat. Crat. 385 a 5: Ἴσως μέντοι τὶ λέγεις, ὦ Ἑρμόγενες· σκεψώμεθα δέ. ὃ ἂν φῂς καλῇ τις ἕκαστον, τοῦθ’ ἑκάστῳ ὄνομα; – Ἔμοιγε δοκεῖ. – Καὶ ἐὰν ἰδιώτης καλῇ καὶ ἐὰν πόλις; – Φημί. [Forse dici qualcosa di valido, Ermogene; ma riflettiamo. Tu affermi che quel nome con cui qualcuno chiama ciascun oggetto è il nome per ciascun oggetto? – Così a me pare. – Tanto nel caso sia un privato a chiamare quanto nel caso sia una città? – Così dico.]) Come per Platone è indagabile a parte hominis il mondo iperuranico, per ritrovare quella stabilità progettuale (homologia – come sulle cose del mondo e del cosmo così deve essere della città), così kantianamente, seppure i modelli delle cose si traducono solo in esperienze (secondo ideologia illuministica, nella cui temperie Kant pensava e agiva) possibili in termini di categorie, il fine della teoresi non è ricadere nel mero nozionismo ma adoperarsi per il Regno universale dei fini. In entrambi i casi la temporalizzazione equivale all’uso mediato in termini di progetto universale, dal punto di vista platonico, di una “intellezione” anipotetica, e dal punto vista kantiano, di una libertà resasi evidente all’intelletto e all’esperienza appercettiva del dovere formale e della morale come fatto della ragione (evidenza). (Kant parla di Platone nella sua Dialettica trascendentale e nei Prolegomeni affermando l’impossibilità di seguirlo nell’affermazione teoretica dei modelli eterni e delle idee, talché il suo idealismo critico invece vuole indagare la possibilità di comprendere a priori solo gli oggetti dell’esperienza. Molti studiosi si sono avvicendati ad accostare i due filosofi, rispetto ai quali, vi era, ad esempio Schopenhauer, che valutava addirittura lo stato dei tempi della ricerca filosofica. Quest’ultimo notava che la filosofia tedesca dei suoi tempi fosse caduta molto in basso per non aver inteso propriamente Kant, e, attraverso di esso, Platone, egli stesso affiancando la sua concezione di volontà come rappresentazione, sia al noumeno kantiano sia alle idee eterne platoniche. Per Schopenhauer sia Kant sia Platone escludono che tempo, spazio e causalità possano essere determinate rispettivamente dalla cosa in sé o dall’idea, entrambi ritengono però che il mondo sensibile sia assimilabile a quell’apparenza che acquisisce realtà solo esprimendo tali realtà ultimative. Cfr. Paolo Rotta e G. Rotta, Il Platonismo di Kant, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Vol. 24, No. 6 [Novembre 1932], pp.544-553).
Il tempo in Kant. Il mandato newtoniano. Il tempo assoluto come postulato necessario nella philosophia naturalis.
Occorrerebbe considerare in maniera più approfondita la temperie culturale dell’epoca in cui Immanuel Kant è vissuto (ciò che Hegel chiamerà lo Zeitgeist, lo spirito del suo tempo) per comprendere meglio la sua posizione filosofica, in relazione al tempo, allo spazio e al rapporto tra fenomenico e noumenico, rapporto che, per Kant, deve essere mediato necessariamente da una “deduzione trascendentale”, la cui accessibilità di tipo gnoseologico varia a seconda che si tratti della prima Critica o della seconda. Oserei dire che la “deduzione trascendentale” sia quel “fatto necessitante” che per far afferire i concetti puri dell’intelletto (o categorie) agli oggetti (a cui idealmente afferiscono) si debba ricorrere a una deduzione di tipo trascendentale, come progetto ideale sull’oggetto. Laddove, mentre nella prima critica, se non vi è un teoreticismo dogmatico, di tipo razionalista in senso meramente strumentale, o vi è un irrazionalismo che oppone “fede” e “ragione” oppure una “fede razionale”, la fede kantiana nasce dall’ esigenza di “sopprimere il sapere inerente al sovrasensibile”(sapere della ratio strumentale – in quanto il sovrasensibile è inaccessibile alla ragion pura) “per sostituirvi la fede”, ben comprendendo che una fede che si sostituisca integralmente al sapere non può essere esperienza autentica, infatti quei progetti ideali che necessitano nella prima critica gnoseologicamente, ma non sono da essa accessibili, nella seconda si evidenziano nel loro mancato bisogno per ciò che riguarda la morale, come fatto autoevidente della ragione. Il secolo kantiano è quello illuministico. Tutto ciò che ha preceduto tale secolo ne ha costituito propedeutica. Nel seicento accadono dei rivolgimenti di vasta portata nel mondo scientifico. È il secolo di Galilei, di Newton e di Leibniz. Isaac Newton s’interessa al mondo filosofico e al pensiero leggendo Déscartes, Robert Boyle ed Henry More. Egli teme una deriva materialistica e ateistica nella filosofia della natura dei suoi tempi e si volge alla classicità greca, sia nell’aspetto geometrico e matematico, contro le derive della modernità, e sia cercando di dimostrare che la natura non dovesse avere meramente un ruolo passivo nel mondo fisico, in quanto mero meccanismo. Per quanto riguarda il tempo e lo spazio, Newton sente il bisogno di postulare, in via legittimamente razionale un punto di inizio dei loro processi e dei loro dinamismi. Come non si può infatti concepire razionalmente un processo che rinvii all’infinito il suo cominciamento, così deve avvenire anche nel moto osservato nel mondo fisico. Newton dunque postula uno spazio e un tempo assoluti, demandando alla filosofia della natura il compito di svilupparli razionalmente. Kant è critico del concetto di spazio assoluto, ma anche di una sua teorica leibniziana impossibilità (cfr. Jed Z. Buchwald, Mordechai Feingold, Newton and the Origin of Civilization, Princeton University Press, Princeton 2013, pp. 154-155. Il testo riprende la “Cronologia degli antichi regni”, saggio teologico newtoniano, pubblicato nel 1728 e accosta il Newton teologo, biblista e alchimista al Newton fisico e matematico. Il risultato offre al lettore della biografia dello scienziato una visione più completa della sua vita, consentendogli di poter comprendere molto più a fondo alcuni orientamenti teorici all’interno della sua fondamentale elaborazione in campo scientifico e matematico. «The burgeoning process of idolatry also helped Newton to account for the parallel corruption of natura philosophy. The very institution of ancient religion, he wrote, had been designed to ensure that the God of Nature should be worshipped in a temple which imitates nature, in a temple which is, as it were, a reflection of God. Everyone agrees that a Sanctum with a fire in the middle is an emblem of the system of the world» [cfr. Ibidem, p. 154]. Sì veda anche Niccolò Guicciardini, Newton, Carocci, Roma 2011). Quella di Leibnitz è posizione filosofica, quella di Newton meramente fisica, ma quest’ultima intenzionata a superare il meccanicismo filosofico-naturale di epoca cartesiana. Quella di Leibniz appare orientata a superare il nozionismo gnoseologistico di uno spazio concepito come mera estensione, laddove tale spazio, leibnizianamente inteso, era piuttosto da concepire come “ens rationis”. La “monade” leibniziana rappresenta infatti l’esigenza filosofica che ciascun ente abbia in sé una sua perfezione e determinazione essenziale, come propria interiore finalità (ciò evoca il Dio dell’interiorità agostiniana, ma anche la gnoseologia platonica ed hegeliana delle parti in relazione a un intero, concepito sia come idea iniziale in sé che come risultato del processo del pensare, come archè anypotheton e come meta epistemica e ideale). Per Newton invece il Dio è partecipe del suo creato, ed esso è valutabile solo a partire dall’assolutezza dei suoi attributi principali, ovvero il tempo e lo spazio. Ma l’esigenza kantiana è anche quella di superare il dualismo cartesiano che spinge la ricerca teorica verso l’empirismo e verso l’ontologismo, poiché in Cartesio stesso è possibile scorgere una confusione dei piani epistemologici e ontologici, desumibile dall’autoevidenza del cogito, affermato come pensiero e come attestazione dell’essere come esistenza (cfr. Luca Forgione, op. cit., p. 155: «L’idealismo trascendentale delinea, infatti, una prospettiva filosofico-mentalista intrinsecamente anti-cartesiana, stabilendo una netta cesura sulla possibilità di pervenire alla conoscenza della natura ontologica dell’ente pensante dalla sola forma in cui si palesa la “voce” dell’autocoscienza. Da questo punto di vista forse è proprio Cartesio a confondere i due piani, ma li confonde, ovviamente, in modo intenzionale: dalla tesi epistemica del cogito giunge a una conclusione metafisica sull’esistenza di una sostanza ontologicamente immateriale della cosa che pensa, in termini contemporanei, dalla concepibilità epistemica giunge, grazie all’ufficio dell’onnipotenza divina che non c’inganna, alla possibilità metafisica. Questo slittamento, e la possibilità cartesiana di considerare l’ente pensante un oggetto di conoscenza, produrrebbe solo una conoscenza illusoria, che sorgerebbe dalle condizioni formali realizzate dal dispositivo autoreferenziale del pensiero autocosciente: kantianamente, dall’unità trascendentale dell’appercezione, che non può essere oggetto di una conoscenza poiché rappresenta il presupposto logico e l’unità sintetica di tutti i giudizi che ineriscono all’Io dell’Io penso [e, quindi, della stessa possibilità della conoscenza]». Si veda anche Capozzi, Mirella, Kant e la logica, Bibliopolis, Napoli 2002, Id., «L’io e la conoscenza di sé in Kant», in Eugenio Canone [a cura di], Per una storia del concetto di mente, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2007, pp. 267-326). Tali possibili derive della teoria si traducono “sostanzialmente” in derive del pensiero. In conclusione, possiamo osservare come sia emersa attraverso l’analisi di vari aspetti della speculazione kantiana in relazione al tempo, che è strettamente collegata con il concetto di “metafisica” proprio dell’autore, nonché della “ragione” da intendere come “organicamente metafisica”, una esigenza di recuperare un approccio pensante riguardo alla filosofia, superando le derive teoreticistiche e scientistiche (tematiche odierne), che l’autore aveva cominciato a prefigurare già nella sua epoca, e che Hegel e la Wirkungsgeschichte idealista avevano continuato a intraprendere, come approccio filosofico della storia.
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*Bruna, Stefania Massari è nata a Bari, il 20 novembre, 1968. Si è laureata in Scienze Politiche, nel 1998, presso l’Università degli studi “Aldo Moro” di Bari. Ha conseguito il Perfezionamento in Criminologia generale e penitenziaria, nell’anno accademico 1998-1999, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’ Università degli studi “Aldo Moro” di Bari. Si è abilitata all’insegnamento delle materie giuridico-economiche nel 2002. Ha conseguito una Laurea in Scienze Religiose, nel 2003, presso l’ ISSR – Facoltà Teologica Pugliese. Dal 2007 insegna Religione Cattolica, nelle scuole secondarie di primo grado. Nel 2011 si è consacrata in forma privata, nelle mani di un frate francescano, per vivere laicamente l’essenza dei consigli evangelici. È cultrice delle discipline storico-filosofiche e filosofico-storiche. Pubblicazioni: Stefania Massari, La 75a primavera di un fiore, Incontro con il meridionalista Vittore Fiore, Pensiero e Arte, Anno XLIX – N. 1/4-1995. Stefania Massari, Mauro Picinni Leopardi alla “Quadreria Den Hertog” e Antoni Clavé a “La Panchetta”, Pensiero e Arte, Anno XLIX – N. 1/4-1995.
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