Fabio Laiso*
La filosofia di Ortega y Gasset è comunemente definita razional-vitalismo o della ragion vitale, facendo coesistere in un’unica formula due termini che prima facie ci sembrano del tutto inconciliabili. L’assunto di partenza della gnoseologia proposta dal filosofo spagnolo è che ogni atto di coscienza sia irriducibile a qualsiasi riflessione; l’oggetto che io percepisco non è identico a se stesso nell’atto della riflessione, per essere colto autenticamente dovrò afferrarlo solo nella sua “esecutività”. Nel passaggio tra udire un suono e sentire di udire un suono, quel suono non è più il medesimo ma è come se subisse l’influenza del Me, facendosi non più un suono tra tutti quelli che compongono la polifonica sinfonia del mondo, ma irrimediabilmente il mio suono. Se cerco l’essenza di quel suono tendo a separarlo dal Me che ascolta; per converso, se mi rivolgo al pensiero del suono per poterlo conoscere lo separo dal mondo che lo ha generato. Come uscire da quest’aporia che da più di duemila anni attanaglia la filosofia?
La ragion vitale di Ortega si propone come un tentativo di superare sia il realismo “ingenuo” che afferma che le cose esistono in sé e per sé, sia l’idealismo che sostiene esista solo il mio pensiero delle cose e nient’altro. Il filosofo spagnolo vede invece la coesistenza dell’io in mezzo alle cose, nel loro accadere qui e ora: «Non serve a nulla parlare delle cose ponendosi dinanzi ad esse, senza entrarvi» (J. Ortega y Gasset, Cos’è filosofia?, Genova 1994, p.51). La ragion vitale è interpretazione (logos) che si dà della vita nell’atto stesso di viverla. Più importante dell’essere e del conoscere quel suono, per Ortega è il viverlo “esecutivamente”, senza isolarlo dal contesto naturale in cui esso viene prodotto, né dal soggetto che lo percepisce. Pensiero riflettente e pensiero riflesso – sebbene per il filosofo spagnolo siano due cose distinte – si trovano sempre uniti nell’esecutività dell’atto; visto che oggetto e soggetto esistono entrambi non in una dualità, ma in una corrispondenza, o semplicemente coesistenza, andranno appresi in un unico atto percettivo. All’esse est percepi di Berkeley, egli vi contrappone l’essere come essere vissuto originariamente, in carne ed ossa; al cogito ergo sum di Cartesio, egli vi oppone un “penso dunque sono tutto ciò che mi circonda”. L’Essere di Ortega è cinetico non catastematico, corrisponde al flusso tortuoso del vivere che è sempre un impasto di moti d’animo, sentimenti, volizioni; conoscere l’essere del mondo non significa astrattamente conoscere il tode ti, la sostanza di ciò che indago, ma piuttosto risponde all’esigenza concreta di sapere come regolarsi dinanzi alle cose che mi si danno. Se col cogito cartesiano la filosofia moderna scopre il concetto di coscienza, di soggettività come “recinto” ma anche come “reclusione” dell’uomo nei confronti del naturale atteggiamento del vivere, Ortega si propone di aprire quella gabbia riportando il suo muto ospite di nuovo in mezzo al vociare del mondo. Pertanto la circum-stantia (tutto ciò che mi sta intorno) è un concetto fondamentale della sua filosofia, essa è il luogo proprio dove l’io sperimenta se stesso e senza del quale quell’io si farebbe altro-da-sé. Esiste dunque un rapporto osmotico tra l’io e la circostanza, quest’ultima intesa nella doppia valenza di “limitazione” e “peculiarità”: la circostanza non solo segna i limiti del mio mondo, ma fa sì che io sia quello che mi circonda e, per converso, quello che mi circonda mi fa essere ciò che sono. “Yo soy yo y mi circunstancia, y si no la salvo a ella no me salvo yo”, scrive nelle Meditaciones del Quijote; altrove sosterrà: «Ognuno di noi è per metà ciò che egli è e ciò che è l’ambiente in cui vive» (Ivi, p.25). Le cose dipendono da me, ma anch’io dipendo dalle cose in una interrelazione reciproca. L’esistenza di ogni individuo si presenta dunque composta da due principali ingredienti: per il 50% da circostanze e per il 50% da progetti. «La nostra vita — scrive Ortega — si decide per opera propria, si anticipa. Non ci è data già fatta, come la traettoria del proiettile… ma consiste nel decidersi, poiché vivere è trovarsi in un mondo non ermetico, ma pieno di possibilità» (Ivi, p.150).
Vi è qui un primo punto di contatto col pensiero di Sartre: per entrambi i filosofi l’esistenza precede sempre l’essenza. Se per la realizzazione di qualsiasi oggetto materiale si passa dall’ideazione al progetto e infine alla concreta costruzione di esso; nelle vicende umane le cose seguono un percorso inverso: un uomo prima nasce, poi si fa, diventa qualcosa, decide si seguire questa o quella direzione. La gravità e il fascino di un’esistenza stanno proprio nel trovarsi difronte un’infilata di giorni e di notti che non possono essere vissuti da altri al posto mio, e a cui io sono chiamato, velis nolis, ad attribuire un senso. «E così esistere – dice Ortega – diventa per l’uomo una faccenda poetica, da drammaturgo o romanziere: egli deve inventare alla propria esistenza un soggetto, conferirle una fisionomia che la renda, in qualche modo, suggestiva ed attraente» (J. Ortega y Gasset., Meditazioni sulla felicità, Milano 1994, p.60). Eppure, per il pensatore spagnolo le possibilità non sono illimitate: «D’altra parte, queste possibilità non sono illimitate — in tal caso non sarebbero possibilità concrete, ma pura indeterminazione, e in un mondo di assoluta indeterminatezza, in cui tutto è ugualmente possibile, non si può decidere nulla. Perché vi sia decisione bisogna che ci sia limitazione e possibilità, determinazione relativa. Questo si esprime con la categoria “circostanze”» (J. Ortega y Gasset, Cos’è filosofia?, p.150). Vivere significa quindi dimenarsi tra libertà e fatalità, muoversi all’interno di un perimetro dai confini tracciati ma ampi, in cui le possibilità sono limitate ma tuttavia aperte. In questo senso, delle tre dimensioni temporali, il futuro è quella in cui maggiormente si rivela l’essenza dell’individuo poiché esso è il terminus ad quem di tutto il percorso esistenziale, il faro verso cui sono orientate le scelte e la progettualità. «In un buon ordine psicologico, dunque – spiega Ortega — decisiva non è la somma di ciò che siamo stati, ma ciò che aneliamo ad essere: l’appetito, l’affanno, l’illusione, il desiderio. La nostra vita, vogliamo o no, è, nella sua stessa essenza, futuribilità. L’uomo è spinto du bout du nez dalle sue illusioni; immagine che nel suo barocchismo pittoresco è giustificata poiché, in effetti, la sua punta del naso è ciò che suole andare all’avanguardia, ciò che va da noi a ciò che è più in là nello spazio; insomma, ciò che ci anticipa e ci precede» (Ivi, p.154). Vi è qui una seconda analogia con la psicologia esistenziale di Sartre che, rifiutando l’introspezione psicologica e l’enorme importanza attribuita all’inconscio dalla psicanalisi, puntava l’attenzione non verso il passato ma verso le scelte future che l’individuo è chiamato a compiere. Nel pensiero esistenzialista, nell’arco di una generazione, è stato principalmente il rapporto tra uomo e libertà a subire una modificazione sostanziale, passando dalla concezione dell’uomo come prigioniero della circostanza (Ortega) a quella dell’uomo come libertà in situazione (Sartre). Per il filosofo francese, infatti, la situazione è il coefficiente di accessibilità o inaccessibilità di un fine determinato dalle mie scelte e non dalla posizione in cui la vita mi ha situato. «Il coefficiente di avversità delle cose – scrive Sartre — non può essere argomento contro la nostra libertà; perché è per mezzo nostro, cioè mediante la posizione preliminare di un fine, che nasce questo coefficiente di avversità» (J.-P Sartre, L’essere e il nulla, Milano 1972, p.583). La posizione da me occupata in un evento dipende esclusivamente da come mi rapporto all’evento stesso, da ciò che ho deciso di farne; sono responsabile perfino del valore di situazioni che non sono in nessun modo dipese da me, ma che mi mettono sempre davanti a dei nuovi possibili che le mie capacità dovranno trasformare in possibilità. Di fronte ad una guerra, ad esempio, potrei sempre scappare, arruolarmi, stare da una parte o dall’altra della barricata, infine, decidere per l’extrema ratio del suicidio: per un solo evento, che mi sovrasta in tutta la sua radicale inevitabilità, ci saranno svariati modi di approssimarmi ad esso.
Se l’esistenza di ogni individuo in Ortega si presentava composta per il 50% da circostanze e per il 50% da progetti, in perenne equilibrio tra fatalità e libertà; le percentuali con Sartre si sono radicalizzate: l’esistenza dell’individuo dipende al 100% dalle sue decisioni. Libertà che per il filosofo francese coincide con progetto: «I soli limiti contro i quali la libertà urta ad ogni istante, sono quelli che si impone da sola» (Ivi, p.639). Se ad esempio ci chiedessimo qual è l’invariante dell’oggetto-coltello, ovvero quello che lo fa essere proprio ciò che è, identità e non alterità, probabilmente risponderemmo la funzione di tagliare. Ma io posso ugualmente usare il coltello per piantare un chiodo nel caso non disponessi del martello. Allora dovrò ammettere che è il progetto a stabilire l’invariante delle cose cui si rivolge: l’invariante di ogni oggetto è il progetto del suo utilizzo. D’altronde, ogni invenzione, dalla polvere da sparo alla fissione dell’atomo, non è utile o nociva in sè, ma è come una scatola vuota da riempire di significati a seconda dell’uso che se ne fa. Per questo la libertà non è un’allegra scampagnata all’aria aperta ma piuttosto una condanna: siamo condannati ad essere liberi, perché non possiamo sottrarci all’inevitabilità della scelta e, seppure si decidesse di non scegliere, anche quella sarebbe una scelta. La responsabilità dell’agire è tutta nelle mani del soggetto agente che non può, in caso di fallimento, utilizzare l’attenuante delle circostanze, visto che lui stesso è diventato l’artefice delle sue circostanze: «Quello che mi accade, accade per opera mia e non potrei affliggermene né rivoltarmi né rassegnarmi» (Ivi, p.665). In questo senso, la psicologia esistenziale nega l’azione meccanica dell’ambiente sul soggetto; tale azione è sempre indiretta poiché è il soggetto che decide di orientare le sue scelte in relazione all’ambiente. Nella Critica della ragion dialettica, una delle ultime opere di Sartre, in cui si cerca di proporre una versione “esistenzialista” del marxismo che pareva già a quei tempi (1960) smarrirsi sempre più in pastoie socio-politico-economiche, il filosofo francese manterrà saldo questo fondamento della sua ontologia: non sono le condizioni sociali o materiali (Ortega direbbe le circostanze) a fare l’individuo ma, in ultima istanza, è sempre questo a determinare quelle. Così preciserà: «Ripetiamo anzi con il marxismo: non ci sono che uomini e relazioni reali tra uomini; da questo punto di vista, il gruppo è solo, in un certo senso, una molteplicità di relazioni e di relazioni fra queste relazioni» (J.-P. Sartre, Critica della ragion dialettica, cit. in Id., Il pensiero filosofico, Firenze 1972, p.242).
Il medesimo discorso varrà in rapporto alla temporalità. Il passato solo apparentemente è qualcosa di statico e ormai immutabile, invece saranno proprio le mie scelte future ad attribuire valori positivi o negativi al passato, facendolo rivivere ancora o seppellendolo per sempre nei sottoscala della memoria: «Ѐ il futuro che decide se il passato è vivo o morto» (J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, p.603). L’unica cosa di cui non posso ritenermi responsabile, dice Sarte, è la responsabilità stessa, non potendo in alcun modo considerarmi il fondamento del mio essere: in definitiva, non ho chiesto io di nascere!
Questo cambio di prospettiva di Sartre, in realtà, era avvenuto inizialmente in un campo di applicazione diverso da quello ontologico, esso traeva origine da una gnoseologia del tutto originale rispetto alle filosofie precedenti, dove a fare capolino è un nuovo concetto di “coscienza”. Ne La trascendenza dell’ego, un articolo pubblicato nel ’38 su Recherches philosophiques, Sartre, a differenza di quanto i filosofi avevano sempre sostenuto (es. Kant o Husserl), propose l’originale teoria per cui l’ “io” non è una struttura formale della coscienza, ma ne risulta esterno come un qualsiasi oggetto del mondo. Se l’ “io” non abita stabilmente la coscienza, essa può avere coscienza di sé nello stesso modo in cui ha coscienza di una casa, di un albero, dell’ “io” di un altro. La coscienza, soltanto filtrando la realtà attraverso il proprio “io” (la coscienza di sé), o se vogliamo il Me, può generare sentimenti come l’angoscia o l’autostima. L’angoscia, infatti, non è che la paura della coscienza di sé di non essere in grado di attribuire un senso adeguato alle cose del mondo. Di contro, l’autostima è la consapevolezza della coscienza di sé di essere capaci di attribuire un senso adeguato alle cose esterne. Ma angoscia ed autostima sono percezioni non-posizionali, non-tetiche, che dimostrano l’assoluta contingenza dell’Io (o del Me) rispetto ai contenuti di coscienza. Tutti gli stati psichici di un Io (rabbia, delusione, disincanto etc.) possono essere considerati indipendentemente da quell’Io, ma quell’Io non può essere considerato indipendentemente dai suoi stati psichici, non vi può sfuggire poiché se li ritroverà sempre nella coscienza. La distinzione tra coscienza irriflessa (la coscienza dell’oggetto svincolata dalla coscienza di sé) e coscienza riflessa (la coscienza di sé che coesiste con quella dell’oggetto) è particolarmente evidente quando, per esempio, sono assorto nei miei pensieri e sento suonare il campanello. Nell’udire il suono trasalgo come se qualcosa dall’esterno avesse rotto quell’armonia irriflessa che mi portava a vagabondare nei labirinti della mia immaginazione. Col suono del campanello, l’io ritorna in sé, prende coscienza della situazione e si determina ad agire: chi può essere alla porta?, aprire o non aprire? Il filosofo francese notava come questo “sforzo riflessivo di sdoppiamento” della coscienza, prima o dopo, sia destinato allo scacco in quanto l’io finirà sempre per “rientrare” nella sua sede naturale (la coscienza), applicando ai contenuti del vissuto i suoi giudizi categoriali. Perché ci sia un’apprensione incontaminata dell’oggetto, dovrei tenere stabilmente separati l’oggetto di conoscenza dal conoscente, il quale non dovrebbe mai avere percezione di sé nell’atto del conoscere; ma questo è impossibile. La radicale innovazione della teoria proposta da Sarte sta proprio nel considerare la non necessaria contemporaneità o compresenza dell’io nei due momenti percettivi. Nell’atto di udire un suono la coscienza è coscienza del suono e basta, ma è solo nel momento successivo (la presentazione secondaria), in cui sento di udire un suono, che l’io vi fa capolino. Da questo punto di vista l’io non va inteso come struttura permanente della coscienza; contrariamente alla tesi di Ortega secondo cui la coscienza per l’io è come il carapace per il crostaceo, un blocco uniforme e indiviso: «La coscienza resta sempre con sé, è inquilino e casa, volta a volta, è la mia intimità: l’intimità superlativa e radicale con me stesso» (J. Ortega y Gasset, Cos’è filosofia?, p.98).
Le vicende di Ortega e di Sartre mostrano come, nell’arco di appena un ventennio, il pensiero esistenzialista abbia saputo riformularsi, indicando nuove e inattese soluzioni che hanno apportato modificazioni sia nella teoria della conoscenza sia nel campo dell’ontologia. Ma soprattutto dal punto di vista etico le cose non sono rimaste inalterate. In specie, ci si potrebbe chiedere se, emancipare l’uomo dal demone della circostanza, abbia rappresentato una ricaduta nel soggettivismo trascendentale o piuttosto un processo di crescita spirituale utile a far diventare l’uomo finalmente maggiorenne. Il pensiero di Sartre dovette subire notevoli critiche e malintesi proprio per la radicalità con cui metteva l’uomo di fronte alle sue responsabilità, negandogli la possibilità di accampare qualsiasi scusa per le scelte sbagliate, anche sbagliate da altri, poiché esiste sempre un modo diverso di porsi dinanzi ai fatti. Egli stesso così descrisse quel clima di ostracismo che si respirava nell’immediato dopoguerra: «Era il tempo dei topi di cave, dei suicidi esistenzialisti: la buona stampa mi copriva di merda e la cattiva anche: celebre per un malinteso» (in Les Temps Modernes, ott.1961). Forse una delle conseguenze più iconoclaste a cui l’etica sartriana inevitabilmente conduce, sta nello svelamento dell’irrazionalità del sentimento della compassione. Se, come ci insegna la filosofa americana Martha Nussbaum (Cfr. M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Bologna 2009), una delle condizioni necessarie per provare compassione dell’altro è il giudizio sulla natura non meritata della disgrazia capitatagli, nell’ottica di Sartre in cui ogni evento dipende da me non può esistere disgrazia del tutto “immeritata”. Inoltre, se io riesco ad incanalare una sventura verso un percorso inaspettato e creativo, a rigore, quella non può neanche più essere definita “sventura”. Il fatto che per il filosofo francese sia sempre il progetto a precedere la volontà, in quanto questa è solo l’annunciatrice di quello, avrà come inevitabile conseguenza etica che nessuna azione umana può veramente dirsi inintenzionale. Ma siamo sicuri che guardare le cose da questo punto di vista sia davvero così riprovevole? Se cominciassimo a considerare le azioni non solo dalle intenzioni ma anche dalle conseguenze, non valuteremmo forse molti misfatti della nostra epoca in modo più equilibrato, attenuando quella distonia, spesso davvero intollerabile, tra enormità del delitto ed esiguità della pena?
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Bibliografia
J. ORTEGA Y GASSET, Cos’è filosofia?, Marietti, Genova 1994.
Id., Meditazioni sulla felicità, SugarCo Edizioni, Milano 1994.
J.-P. SARTRE, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1972.
Id., La trascendenza dell’ego, Marinotti Edizioni, Milano 2011.
Id., Il pensiero filosofico, La Nuova Italia, Firenze 1972.
M. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2009.
*Fabio Laiso si laurea cum laude nel ’94 in Lingue e letterature straniere moderne all’Orientale di Napoli. Fuori dall’ambito accademico, è traduttore e studia temi di carattere filosofico e filologico. Attualmente vive e lavora a Napoli