Raramente mi capita di commuovermi leggendo pagine di un libro di carattere filosofico. Spesso ne rimango colpito, non poche volte mi taccio e accolgo brividi sulla cute delle braccia, ma solo in alcune, eccezionali occasioni rimango commosso – laddove, beninteso, la commozione non si intende come lacrime di emozione, bensì come una profonda sensazione di sbigottimento, a metà tra l’incapacità di parlare, talora anche di pensare, di fronte a un’enorme grandezza, e l’immensa gioia per la presenza della stessa. Questa sera si è verificato uno di tali, sporadici casi. Non è di grande interesse in sé, me ne rendo conto; però è funzionale allo sviluppo di un discorso che, a parer mio, potrebbe rivelarsi in fondo interessante, perciò prego il Lettore di avere pazienza, se vorrà, e di seguirmi per un po’, con comprensione e clemenza quanto possibile, verso l’introduzione di un interrogativo frizzante.
Lo scritto in questione era un piccolo prologo di Pavel Florenskij a una sua opera maggiore; non è necessario sapere chi Florenskij fosse, né di quale opera si tratti, poiché tale prologo ha una funzione quasi a sé stante. Esso, benché lo stampo filosofico sia innegabile, più che un trattato discorsivo appare come una semplice descrizione: la descrizione dei sentimenti dell’Autore durante il momento del crepuscolo, e le riflessioni annesse. Neanche troppo originale, si penserà. Eppure sono pagine di una potenza rara – le immagini rievocate, i simboli utilizzati, i concetti espressi in maniera semplice e lapidaria, rendono l’introduzione in questione (il cui titolo è Sulla collina Makovec) una lettura memorabile. Ma non siamo qui per tesserne le lodi. Al di là della bellezza, infatti, che magari può essere frutto di un giudizio puramente soggettivo, il testo sa offrire alcuni spunti sui quali vale la pena soffermarsi.Anzitutto, il carattere quasi poetico dello scritto, che, come detto, poco ha a che vedere con l’oggettività e impersonalità che, in teoria, dovrebbero essere proprie di un saggio filosofico, fa sorgere una domanda: cos’è che emoziona? È il messaggio filosofico che colpisce, oppure sono le sensazioni suscitate da quello stile “sfumato”? In questo caso, probabilmente, sono entrambe le cose. Eppure, quel che è degno di nota, a mio avviso, indipendentemente dalla risposta, è la domanda stessa: perché, cioè, le due ipotesi sono separate? Perché il messaggio filosofico e le sensazioni suscitate vengono poste come due cose diverse? Perché così sono, verrebbe da rispondere. La prima, infatti, “parla alla mente”, la seconda “al cuore”. E questo non lo si nega; pare quasi una banalità, tanto che da questa distinzione vengono influenzate arti intere – la musica, la poesia, la scultura, ad esempio, vengono generalmente considerate forme di bellezza “immediata”, che emoziona cioè prima ancora che il ragionamento discorsivo sopraggiunga; il romanzo e il saggio, invece, di solito emozionano proprio per i loro contenuti “razionali”. Mente contro cuore, dunque; razionalità contro immediatezza. Le definizioni sono vecchie come il cucco, e anche la questione in sé non è sicuramente troppo originale – ma che vuol dire? Cioè, cosa s’intende affermando che la musica “parla al cuore” (o alla pancia, come dicono i più volgari) e il trattato filosofico “alla mente”? Cos’è la razionalità, e che significa contrapporla all’immediatezza? E soprattutto: se sono così diverse, perché alla fine, poi, rientrano nello stesso insieme? In sostanza: quali sono le differenze che dividono i due concetti, e cosa invece fa sì che, nonostante queste, essi abbiano comunque, seppur con sfumature diverse, lo stesso effetto su di noi – l’effetto del Bello?
A questo punto sembrerebbe necessario concentrarsi prima di qualunque altra cosa sul definire il Bello. Eppure esso, benché conosciuto da tutti, è un concetto che difficilmente può essere contenuto in poche righe, e men che meno in intere pagine o addirittura volumi; ciò che abbiamo sono semplicemente strumenti per tentare di descrivere un sentimento e fare in modo che chiunque capisca a cosa ci si sta riferendo, ma che tuttavia non sono del tutto adatti al compito. È infatti una cosa tentare di argomentare quali caratteristiche rendano bello qualcosa di bello; altro par di maniche è racchiudere esaustivamente in un solo concetto quel sentimento di cui si sta parlando. A causa di ciò, e anche per evitare che si sforino i tempi, ritengo seriamente che per riferirsi al Bello bastino queste parole: “quel sentimento”; quel sentimento di profonda commozione, di severo distacco dal mondo, di vergogna e contemporaneamente di esaltazione, in cui la vita ci appare migliore di quanto non lo sia mai stata. Ecco, benché per i motivi sopra citati sono convinto che tali espressioni non siano neanche lontanamente vicine a descrivere con precisione il Bello, credo che siano sufficienti per rendere un’idea anche solo vaga di ciò di cui si sta parlando, affinché possa essere compreso senza troppi fraintendimenti. Ma se il Bello è un sentimento, come si può definire bello un oggetto esterno? Senza avventurarsi in teorie troppo originali, la risposta pare intuitiva: bello – inteso come oggetto – è ciò che suscita il sentimento del Bello. Ora, dunque, c’è da chiedersi se una cosa può essere bella solo (o principalmente) per una parte di noi, diciamo la razionalità, e per un’altra no.
Di primo acchito, sembra sicuramente difficile considerare di trovarsi in balia di un sentimento simile senza che questo implichi alcun tipo di coinvolgimento emotivo; ma anche la situazione contraria, quella cioè in cui ci si trova dispersi nella pura emozione senza una qualche presenza della coscienza, della “mente”, non corrisponde totalmente a ciò che viene suscitato in noi quando entriamo in contatto con qualcosa che sia bello (a meno che non si consideri l’esperienza del Bello come uno stato estatico, in cui la presenza a sé è completamente obnubilata dai sensi – e non è questa la nostra opinione, come si vedrà più avanti). È compito arduo spiegare a parole sensazioni di tale intimità, ma se volessimo farlo dovremmo dire, per quanto possibile, che pare proprio che ciò che abbiamo identificato come il sentimento suscitato dal Bello coinvolga la nostra intera persona, l’anima e il corpo, la mente e i sensi, la razionalità e l’immediatezza, di modo tale non che entrambe le parti si sentano chiamate in causa, bensì che la stessa differenza tra queste si annulli, non venga neanche più percepita, e rimanga solo l’unità che poi siamo noi. Scrive infatti Florenskij in quella famosa introduzione, raccontando i suoi pensieri al momento del sorgere del sole – e in quale altra situazione siamo più inebriati dal Bello se non quando, ritti su una collina, osserviamo sotto di noi l’intero mondo e la natura, e il cielo che apre gli occhi, le stelle che impallidiscono, e la rosea aurora che sorge dall’orizzonte? –: «Allora freme il “principio di un’altra vita”. Allora esulta la vita nuova. […] sempre in quest’aurora s’accende una stella, come una speranza, come una promessa, come “principio di un’altra esistenza”». Ecco che allora, in quest’ottica, il sentimento di cui parliamo non risulta né un’esaltazione dei sensi, né della razionalità, né di entrambe; appare invece come uno slancio vitale verso una dimensione ideale.
Eppure, anche questa definizione, nonostante sia qualcosa con la quale si può essere d’accordo quantomeno per ciò che riguarda la sfera dell’esperienza pratica, non solo risulta, a guardar bene, un po’ pomposa e poco nuova, ma presenta una parziale contraddizione con l’esperienza stessa: se non sembra messo in discussione, infatti, che il Bello invochi uno slancio dell’intera persona verso l’ideale, è altrettanto innegabile che vi siano comunque alcune cose belle che sfruttano più il ragionamento logico-discorsivo e altre che si appellano più direttamente “al cuore”. Il quesito posto alcuni paragrafi sopra, quello che si interrogava su quale fosse dunque il denominatore comune che leghi queste due tipologie di “bellezza”, può essere qui riscritto in altro modo, alla luce di quanto detto nel frattempo: se infatti ciò che hanno senza dubbio in comune è la capacità di suscitare in noi il sentimento del Bello, e che questo sentimento fa esperire lo slancio di cui abbiamo detto, e che tale slancio sembra andare al di là della sola ragione o della sola emotività, si capisce che per cercare di rispondere alla domanda si debba necessariamente risolvere prima la seguente: «Cosa suscita il suddetto slancio?» (dove “cosa” è soggetto e non oggetto). Ma sarebbe un vicolo cieco cercare di sbrogliare la matassa senza aver prima considerato meglio la natura di questa sporadica tensione verso l’Ideale.
Cosa che sta molto a cuore, è questo slancio. È la vita, si potrebbe dire. Non è estraneo, infatti, scorgere una distinzione tra la vita intesa come il corretto (o sufficientemente tale) funzionamento degli organi principali, e vita inteso come… eh. Vita inteso come vita, verrebbe da dire. Alcuni parlano di “attimi di vita vera” all’interno dell’esistenza, che a questo punto non risulta essere altro che ombra mendace e, francamente, inutile di qualcosa che, contrariamente ad essa, un senso sembra averlo. Ma siccome ci si comincia ad avventurare in argomenti fin troppo alti e, come tutti gli argomenti che richiedono una certa sensibilità, arbitrari, preferirei tirare acqua al mulino citando fonti ben più autorevoli di chi scrive. Come detto, questa distinzione immaginaria è qualcosa che la stragrande maggioranza degli uomini, credo, riesce a comprendere, benché non si capisca bene come spiegarla; sono, appunto, innumerevoli i filosofi, anche molto diversi e distanti tra loro, in cui si possono trovare pensieri che ricalcano o sottolineano una tale distinzione: si pensi, ad esempio, alla contrapposizione tra tempus e vita nel De brevitate vitae di Seneca; che poi, a ben vedere, sembra molto simile alla dicotomia esistenza-essenza in Sartre (seppur questi sia sicuramente più complesso e arzigogolato e quindi sia difficile darne un’esatta lettura in due parole); o si pensi a colui che mette d’accordo tutti per il nome che porta, quando scrive: «La vita consiste in rari momenti singoli di altissimo significato e in innumerevoli intervalli in cui nel miglior caso ci si aggirano intorno le ombre di quei momenti. L’amore, la primavera, ogni bella melodia, la montagna, la luna, il mare – tutto parla una sola volta veramente al cuore: seppure giunge mai a parlare». Attimi che irrompono estemporaneamente, quasi in maniera casuale nella quotidianità, nei quali si sente la Vita; «[…] attimi in cui le nuvole si squarciano, e allora noi, insieme a tutta la natura, aspiriamo all’Uomo». Di nuovo si trova un senso, una direzione da seguire, la forza e la speranza per tendere a un potenziale ancora indefinito, ma presente. E cosa suscita in noi il Bello se non momenti di questo genere? Non solo: è possibile che si provi un’esperienza simile senza sentire quello che abbiamo definito “sentimento del Bello”? Ognuno interroghi la propria coscienza e il proprio vissuto: è una conclusione opinabile e dedotta da semplici dati empirici e sicuramente non attraverso una logica inattaccabile, ma ritengo che la risposta sia, con altissima probabilità, negativa. E se con ciò non si è in disaccordo, allora il Bello agisce quando siamo in questi momenti, e siamo in questi momenti quando il Bello agisce, e questi momenti sono il sentimento del Bello. Cosa sono, dunque, questi momenti? A questo serve rispondere, se vogliamo risolvere il quesito iniziale – che cosa sono questi momenti, perché si danno, e, di nuovo, cosa fa sì che essi si diano.
Come si fa complessa la questione. Per quanto tenti di farne a meno, più si va avanti, più si rischia di diventare filosofici – e di questo già me ne scuso. Rispondiamo, dunque! Cosa sono questi momenti? Via al tele-voto! Quante definizioni, quanti aggettivi, strampalate descrizioni, usati e abusati termini leziosi potrebbero spendersi, senza arrivare a una conclusione che sia vicina ad essere anche solo vagamente corretta. Fortunatamente, a noi basta che la nostra curiosità e i nostri interrogativi siano soddisfatti quel poco necessario allo sviluppo dell’argomento proposto, e ben ci guardiamo dal desiderio di costruire un’inattaccabile struttura logica intorno a elementi che essa stessa fatica a comprendere. Rimanendo con i piedi per terra, insomma, ognuno si limiti a indagare, ancora una volta, il proprio animo. Come detto, molti termini e molte parole si potrebbero sprecare per descrivere ciò che sarebbe meglio non descrivere, ma che ci è indispensabile comprendere almeno in parte: e così si parla di eternità, di Assoluto, alcuni citano addirittura Dio. «E quando [l’anima] si sarà ricomposta e ordinata e sarà ritornata armonica e bella, oserà ormai vedere Dio», afferma Aurelio Agostino nel De ordine. Certo, questo sembra un tema ricorrente. Le nubi che si squarciano, dice il tedesco esplosivo, uno sguardo di sfuggita al mondo delle Idee, racconta Platone, la conoscenza intellettuale di Dio, teorizza Spinoza; la beatitudine. Ognuno di questi concetti ha un’intera filosofia alle spalle, e certo non vorremmo apparire riduttivi nel liquidarli così velocemente – questa volta sul serio, e senza ironia; tuttavia, se si considerano solo essi in sé stessi, un denominatore comune sembra evidente: lo sguardo verso il cielo, l’impressione di un tempo che pare fermarsi, l’arrivo di qualcosa a noi superiore. In un simile stato d’animo si è investiti più che mai dal Bello; così a me pare. Eppure, ciò non è ancora sufficiente. Non si annuncia solo qualcosa di superiore – ma di migliore. Una banalità: il Bello richiama il Bene. Sembra che il Bello sia tale in quanto riesce a mostrare agli occhi dei mortali l’immaginaria dimensione dell’Ideale, e l’idea sulla quale essa si fonda. Esiste un Bene nella nostra testa, e noi lo sappiamo; ma esso è il sole, come vuole Platone, sicché, pur sapendo benissimo della sua esistenza, non ci è permesso guardarlo; dobbiamo dunque cogliere indizi, manifestazioni terze, nelle quali Lui si presenta. Queste forme, che sembra che ci rivelino l’’infinito, l’Assoluto, il Bene – queste sono, mi pare, le forme che un uomo chiama nella sua vita: “belle”. C’è mai stato infatti un cristiano che si sia permesso di pensare che quanto di bello popolasse il mondo non venisse dal Dio, e che tutto ciò che venisse dal Dio non fosse bello? E se è vero il binomio Bene-Dio (mi domando come non possa essere così), e dato come assunto (non ce ne vogliano i più atei) che in ogni uomo che non sia una belva sia presente una dimensione astratta e ideale che si possa identificare con i valori e quindi il Bene, sembra che ciò che si definisce bello debba questo titolo alla suddetta dimensione. Allora i momenti di cui si parlava nel paragrafo precedente, e dunque lo slancio vitale da cui si è colti in presenza del Bello, cioè ciò che sia la razionalità sia l’immediatezza sanno ugualmente suscitare, ammesso che tutto quanto si è detto finora sia accettabile, sono momenti in cui in cui si manifesta quella dimensione, l’Ideale, il Bene, eccetera. Ma come “Dio” può mostrarsi in un paesaggio, in quadro, addirittura in un romanzo?
Ci si trova particolarmente d’accordo, soprattutto oggi, nell’identificare con il Bene l’utile. Ad alcuni, tuttavia, questa definizione non va molto giù, vuoi perché amorale, vuoi perché egoista, eccetera. Eppure, anche in questa loro avversità essi confermano la tesi stessa: un’idea del genere è male perché è dannosa; di conseguenza, se fosse il contrario di dannosa, e quindi giovevole, vantaggiosa, essa sarebbe bene. Questo vuole la stretta logica un po’ cialtrona dei filosofi. Ci sarebbe ovviamente da mettere in chiaro cosa si intende con utile, per chi, in quali situazioni e quant’altro, e questa, purtroppo, non è sede per discutere anche che cosa sia il Bene; ma c’è da riconoscere che dalle conoscenze sia psicologiche, sia socio-antropologiche di cui disponiamo al giorno d’oggi, tale definizione risulta la più probabile e verosimile, benché forse cruda e piatta. Oltretutto, se ben si guarda, questa non è né una novità, né un bieco modernismo che uccide con il suo grigiore fattuale l’incantevole immaginazione filosofica coltivata per millenni; che il Bene sia utile, anzi, è qualcosa di tremendamente scontato. Su questa nozione si basa tutto l’intellettualismo etico, che decanta un Bene talmente utile da rendere impossibile, a chi lo conosca, la scelta del male; ma in fondo anche gli epicurei, nell’atarassia, e gli stoici, con l’apatia, perseguivano uno scopo ideale per sé stessi, qualcosa che più di tutto poteva giovare all’animo umano, e come avrebbero mai potuto definirlo se non come “sommo bene”? E allora tutto quel che poteva condurre a ciò era sia auspicabile e vantaggioso, sia bene. Tirare in ballo Spinoza, poi, sarebbe fin troppo scontato, ma, diamine!, persino i cristiani più dogmatici, i quali l’idea di identificare bene e utile farebbe rabbrividire, assecondano perfettamente, in realtà, la stessa tesi: quale credente, infatti, oserebbe affermare che per l’uomo esista qualcosa di più giovevole dell’unione con Dio – il Sommo Bene per eccellenza? In fin dei conti, lo si può vedere bene anche solo riflettendo un poco sui termini: qualsiasi cosa possa avvicinare a una qualsiasi idea di bene, è utile per quell’idea – altrimenti a cosa sarebbe utile? Che utile sarebbe? Certo, questo non dimostra necessariamente che il riconoscimento di un vantaggio sia cronologicamente precedente alla formazione di un’idea di Bene, ma ciò importa ben poco: quello che appare, credo, evidente, infatti, è che ovunque c’è un Bene ci sono molteplici utili, e laddove c’è un utile, v’è sempre un’idea di Bene; e questo è sufficiente. Poiché, a questo punto, se riconosciamo sempre come vera la precedente affermazione, e cioè che Bello e Bene sono intimamente collegati, allora il Bello dovrà essere, a rigor di logica, altrettanto connesso con l’Utile. Ma, ancora: cosa può esserci di così utile in un romanzo, in un quadro, addirittura in un paesaggio?
Ora viene la parte più difficile. Fino ad ora, infatti, ho sempre avuto qualche rinforzo in alcuni grandi del passato, che, in quanto grandi, era più difficile mettere in dubbio. Da questo punto in poi, invece, temo che dovrò fare affidamento esclusivamente sulle mie forze. Sperando di poter persuadere il Lettore che almeno un briciolo di verità è contenuta nelle prossime parole, così come ci auguriamo, spostiamo di nuovo il fuoco dell’attenzione sull’uomo: perché, per poter rispondere al quesito sottoposto, è necessario stabilire prima cosa sia utile per l’essere umano in generale, cioè cosa renda tale qualcosa di utile.
Sembra enormemente stupido tentare di definire l’Utile. «Che sciocchezze! Dipende dalle circostanze!». Certamente: un martello può rivelarsi estremamente d’aiuto nell’appendere un quadro, ma alquanto superfluo in altre mansioni, come, ad esempio, pelare una carota. Eppure, come tutte le cose, al di là delle semplici circostanze (dimensione dalla quale il concetto di Utile, forse, è più difficile da staccare, rispetto ad altri), è evidente che ci siano elementi quotidiani che mantengono un’utilità più stabile e duratura. I soldi, diranno i più grezzi; la salute, risponderanno i più umili; la virtù, sospireranno i filosofi. Non a caso questi sono beni decisamente più desiderabili rispetto a un martello: hanno decisamente un’utilità maggiore, nel senso di più vasta. E se volessimo – dovessimo trovare un denominatore comune anche tra essi, per astrarre un concetto ancora più generale? Un fattore, l’abbiamo detto, è sicuramente quello della desiderabilità: se qualcosa è oggettivamente utile, sarà anche, per ovvie ragioni, meglio averlo che non averlo; se dunque non l’avremo, saremo in una posizione di svantaggio, e ciò non ci farà piacere, mentre, se lo otterremo, saremo in una situazione più auspicabile, e ce ne rallegreremo. Il raggiungimento di qualcosa di utile, infatti, genera sempre in qualche modo contentezza, poiché questo coincide con un potenziamento della nostra situazione; e più qualcosa sarà utile, più contentezza provocherà in noi ottenerlo. Se nell’esperienza di tutti i giorni queste affermazioni possono trovare riscontro, e non riscontro sporadico, bensì quasi sistematico, si potrà allora convenire che, preso per vero che ciò che è utile provochi contentezza, indagando cosa ci rende contenti si potrà trovare, almeno in parte, la risposta alla domanda “cos’è l’Utile?”, e da lì poi risalire fino al quesito iniziale.
“Cosa provoca contentezza?”, tuttavia, è una domanda fin troppo trabocchetto, per cui reputo che un procedimento inverso possa essere qui d’aiuto: stabiliamo, cioè, in primo luogo, cosa ci rende il contrario di contenti, cosa ci rende infelici. Siccome si sta andando lunghi, proveremo a rispondere direttamente: sembra che tutto ciò che provoca scontentezza sia legato da un elemento comune, che ha a che fare, a noi pare, con la limitazione della possibilità di agire (o di vivere) come si vorrebbe. Quando cioè si desidera (la scelta del verbo non è casuale) una certa cosa, ma essa non può essere realizzata, questo ci intristisce – indebolisce il nostro conatus vitale, affermerebbe Spinoza. Prendiamo ad esempio i più classici dei mali: che sia la malattia – essa infatti impedisce di compiere fisicamente determinate azioni che si vorrebbero compiere –, che sia la povertà – la quale limita il nostro raggio d’azione per ovvie ragioni –, essi tutti provocano una discrepanza tra volontà e azione, tra idea e realtà, tra, direbbero gli psicologi, «io ideale e io reale». Cosa allora creerà in noi contentezza? A rigor di logica, si dovrebbe rispondere il contrario di ciò che ci rende infelici: cioè, a rigor di logica, qualcosa che permette di realizzare al meglio la nostra volontà. Affinché questo però non risulti semplicemente un gioco retorico e cialtrone per arrivare alla conclusione desiderata (cosa che di certo è), affermeremo anche ciò di cui invece siamo intimamente convinti, cioè la motivazione umana, più che logica, per la quale sosteniamo la suddetta posizione: l’uomo è infatti animale razionale, per richiamare classiche espressioni, e solo in questo sta la sua particolarità, nell’essere razionale. E allora l’uomo utilizza la razionalità, e non può fare a meno di utilizzarla, e la applica alle diverse situazioni; così gli si presenta la scelta (un signore danese ha speso molte più parole e molto più belle e profonde a riguardo), cioè egli riesce a capire le situazioni, e quindi ad astrarre le possibili conseguenze di una o di un’altra azione. E se fosse un’azione a portare le migliori conseguenze possibili, l’uomo desidererà compiere quella; ma se quella non fosse perseguibile, egli si sentirà avvilito, non soddisfatto, scontento. La gioia quindi, quell’accrescimento del conatus, non si limita ad essere un “fare ciò che si vuole”, ma è un riscatto dell’indipendenza della propria capacità di valutare, di creare il migliore futuro possibile, e, solo dopo aver fatto ciò, dare adito alla spinta della propria volontà, e realizzarlo. Dunque, ciò che è utile sarà in grado di aumentare o la nostra capacità di valutare, o la possibilità di realizzare la propria volontà, oppure entrambe (e ciò vale sia in situazioni estemporanee, sia in ambiti più generali: ad esempio, per preparare una piatto, un ricettario che suggerisca quali ingredienti siano migliori da usare sarà utile nel primo senso – insegna a valutare meglio –, e gli ingredienti fisici saranno utili nel secondo senso – permettono di realizzare quel che si vuole; allo stesso modo, un testo che promuova la virtù a discapito dei vizi, sarà utile nel primo senso, mentre la virtù stessa nel secondo).
Ma cosa c’entra tutto ciò con l’arte? Se in qualche modo si intuisce come un saggio filosofico, per esempio, possa rivelarsi in questo senso utile, com’è invece possibile che un brano musicale e affini svolgano certi ruoli? Questo potrebbe essere il problema dell’immediatezza: cosa ci sta rivelando? Ebbene, per tornare a citare: «[La ragione] Si accorgeva inoltre che questo mezzo sensibile [la poesia] non aveva valore se i suoni non venivano regolati dalla durata e da una proporzionata varietà di acuti e di gravi. Riconobbe allora che le basi erano quei valori che in grammatica, mentre valutava attentamente le sillabe, aveva definito piedi e accenti. […] si accorgeva che tanto nella prosa ritmica come nei versi si ha il dominio dei numeri, e che essi sono una dimensione dell’universo. […] Passò quindi nel dominio degli occhi e percorse la terra e il cielo. Avvertì che per lei non aveva valore se non l’armonia e nell’armonia le figure, nelle figure le misure e nelle misure i numeri». L’armonia, bisogna ammetterlo, è sempre stata sinonimo di bellezza; purtroppo, da qualche decennio a questa parte, non si può più dire che invece bellezza sia sinonimo di armonia – ma queste sciocche derive non le prenderemo in considerazione. Nel passo riportato, tuttavia, Agostino suggerisce un ulteriore “strato”, un elemento che sta “al di sotto” dell’armonia stessa e che si rivela attraverso essa: il numero; numero che, poche pagine più tardi, definirà – sicuramente non in maniera originale, ma di questo a noi importa poco – ratio. La bellezza è armonia, che è numero, che è ragione e razionalità; la stessa ragione e la stessa razionalità che costituiscono e rendono possibile la scelta. La ragione che è l’Utile ultimo, poiché solo essa può assicurare all’uomo un accrescimento duraturo della sua capacità di valutazione; la ragione che è l’Utile ultimo poiché solo essa è in grado di costituire un ordine razionale e volontario, unico sistema all’interno del quale l’uomo ha possibilità di agire prevedendo o evitando ogni ostacolo, e dunque unico sistema all’interno del quale l’uomo può davvero agire come vuole; la ragione che nella sua forma perfetta, e non fallace e bistrattata dalle passioni come quella umana, coincide il Bene supremo (non è forse l’Intelletto di Dio inseparabile da Dio, e viceversa?). Proporre una realtà del genere, inoltre, non significa proporre una visione della bellezza e delle cose belle sterile e biecamente matematica; tutt’altro: ciò a cui l’Utile è utile, infatti, cioè il Bene, non riguarda solamente, come si è detto, una dimensione astratta in cui all’uomo è possibile immaginare un ideale sempre più perfetto – anzi: questo sarebbe vano se non fosse seguito da una potenza in grado di trasformare l’ideale in atto, esattamente come lo si era pensato (e ancora, non è questo il modo in cui agisce Dio?). Non a caso si parlava, nei primi paragrafi, di un sentimento del Bello come “slancio vitale”; non solo pietrificazione e ammirazione nei confronti di qualcosa di superiore, ma manifestazione di un’altra vita, di un potenziale nuovo tutto da realizzare – ed è questo allora, questa rivelazione di ideale e potenza di realizzare quell’ideale che ci dona la vera vita, quella contrapposta al tempus di Seneca. La musica, dunque, la poesia, la scultura, la natura, ma diamine!, al di là di queste cose sofisticate, il personaggio di un libro, un amico di cui abbiamo stima, una chiacchierata al bar, una corsa nella pioggia, un tramonto, un fiore, una risata, tutto ciò che è bello e che ci piace e ci dà gioia in ogni momento si rivela a noi e ci svela non una ratio astratta e generica, ma una ratio in atto, a cui nessuno potrebbe né aggiungere né togliere alcunché senza commettere sacrilegio, sintomo di un ragione che, nell’azione, se potesse rispondere all’attanagliante domanda umana: «Come si deve agire?», si limiterebbe a rispondere, con un sorriso: «Bene» – e a questo noi aspiriamo, e questo ci dona la Vita. Senza voler dunque stilare una gerarchia delle arti, penso si possa dire che, laddove il bello “razionale” illumina in particolare la ragione immobile e astratta, quello immediato la mostra in atto – ognuno poi trarrà le sue conclusioni. Penso inoltre che, se quanto detto risulta convincente, ma soprattutto è valido, allora forse è più verosimile del previsto affermare che «l’uomo è cattivo perché non sa di essere buono» e «allora tutto il resto sono pregiudizi, soltanto paure che ci hanno inculcato, e non esistono barriere di sorta, e così dev’essere…», poiché si è davvero «in un mondo la cui essenza è volontà di potenza», «colmo di speranze che non hanno ancora un nome, colmo di un volere e di un fluire nuovo». Un mondo, che, per alleggerire la chiusa, potrebbe essere sintetizzato con una frase che, anche se straripa di filosofia, potrebbe trovarsi nei Baci Perugina, da quanto è stata abusata: «ama, e fa’ ciò che vuoi»; posto che «quel che si fa per amore, è sempre al di là del bene e del male».
13 dicembre 2020 alle 14:31
Questo è il secondo intervento di Riccardo Casiraghi che leggo su Filosofia e Nuovi Sentieri. Sebbene un po’ lunghetti, mi sono piaciuti entrambi gli interventi, sia per le argomentazioni, sia per l’appropriatezza e la cernita delle citazioni, sia per l’accuratezza lessicale, sia per lo stile spigliato e leggermente malandrino. In entrambi gli interventi ho trovato stimoli che, come gli strati di una cipolla, partono dalla più esteriore delle evidenze e – citando un verso si una vecchia canzone – “piano piano, irresistibilmente”, conducono verso il profondo. Bene, bello, utile, per parafrasare il Gasiraghi medesimo. Se non fosse per la nota biografica dell’Autore, si direbbe di avere a che fare con un pensatore di una certa età e di una certa esperienza, ma la biografia ci riporta a un quasi ventenne. Notevole, direi. Ma nel presente contributo sull’Immediatezza (e tutto ciò che l’Autore vi include) ho trovato un passo per certi versi rivelatore della sua freschezza fisica e spirituale, là dove tra i vari esempi di “razio in atto” cita “una corsa nella pioggia” (intendendo ovviamente “una BELLA corsa nella pioggia”, con tutto ciò che di fisico e spirituale è contenuto in tale esperienza). Da runner stagionato quale sono, non posso che apprezzare, col fisico e con la mente, l’adeguatezza dell’esempio. Alla prossima caro Riccardo!
15 dicembre 2020 alle 20:41
Carissimo Piero, la ringrazio di cuore per le splendide parole. Mi rende molto contento che qualcuno possa apprezzare in maniera spontanea quelli che per me sono i primi esperimenti alle prese con tematiche e modalità assai complesse. Il suo commento, oltre che a farmi grande piacere, mi dà fiducia. Perciò, incrociando le dita, ricambio il suo saluto, e “alla prossima!”