Raramente mi capita di commuovermi leggendo pagine di un libro di carattere filosofico. Spesso ne rimango colpito, non poche volte mi taccio e accolgo brividi sulla cute delle braccia, ma solo in alcune, eccezionali occasioni rimango commosso – laddove, beninteso, la commozione non si intende come lacrime di emozione, bensì come una profonda sensazione di sbigottimento, a metà tra l’incapacità di parlare, talora anche di pensare, di fronte a un’enorme grandezza, e l’immensa gioia per la presenza della stessa. Questa sera si è verificato uno di tali, sporadici casi. Non è di grande interesse in sé, me ne rendo conto; però è funzionale allo sviluppo di un discorso che, a parer mio, potrebbe rivelarsi in fondo interessante, perciò prego il Lettore di avere pazienza, se vorrà, e di seguirmi per un po’, con comprensione e clemenza quanto possibile, verso l’introduzione di un interrogativo frizzante.
Lo scritto in questione era un piccolo prologo di Pavel Florenskij a una sua opera maggiore; non è necessario sapere chi Florenskij fosse, né di quale opera si tratti, poiché tale prologo ha una funzione quasi a sé stante. Esso, benché lo stampo filosofico sia innegabile, più che un trattato discorsivo appare come una semplice descrizione: la descrizione dei sentimenti dell’Autore durante il momento del crepuscolo, e le riflessioni annesse. Neanche troppo originale, si penserà. Eppure sono pagine di una potenza rara – le immagini rievocate, i simboli utilizzati, i concetti espressi in maniera semplice e lapidaria, rendono l’introduzione in questione (il cui titolo è Sulla collina Makovec) una lettura memorabile. Ma non siamo qui per tesserne le lodi. Al di là della bellezza, infatti, che magari può essere frutto di un giudizio puramente soggettivo, il testo sa offrire alcuni spunti sui quali vale la pena soffermarsi. Continua a leggere
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Undici parole
> di Andrea Sergi*
UNDICI PAROLE – Prima parte
Le parole di maggior valore sono le più estese semanticamente, ed al contempo le più benefiche, per l’anima individuale e per la collettività. Tutti dovremmo averne un concetto chiaro ed esprimibile, ma non pare sia così. Se chiedessimo di definire queste parole ad un certo numero di persone scelte a caso, ovunque ci si trovi, ascolteremmo in molti casi risposte risalenti alla dottrina religiosa insegnata loro da bambini, o che si sono scelta da adulti, secondo vari gradi di convinzione. Qualcuno non avrebbe granché da dire, ma troveremmo anche quelli che partono all’attacco, che negano la bontà o l’esistenza stessa dell’amore, della felicità, della giustizia, della libertà, della verità, che se la prendono con la vita e con l’esistenza stessa: tra le parole comprese nel dizionario aureo, costoro salverebbero forse il piacere, ma in un’accezione tanto ristretta da far sembrare spirituali persino i Cirenaici dell’antica scuola. Trovare una concezione nitida, razionale, logica di quei termini non è facile e, per alcuni, nemmeno desiderabile. Quel che di mostruoso è avvenuto nell’età contemporanea, come le guerre mondiali, l’invenzione delle armi nucleari e i danni agli ecosistemi, secondo certe correnti di pensiero, sarebbe da imputarsi proprio alla cosiddetta razionalità occidentale. Con questa espressione non si vuol certo intendere che esistano tante diverse razionalità quanti sono i punti cardinali; piuttosto, anziché come una preziosa acquisizione della cultura occidentale, la sovranità della ragione è giudicata alla stregua del canto delle sirene, qualcosa che seduce ed uccide. È una delle possibili reazioni al mix di meraviglie e disastri risultante dalla situazione in cui versa la coscienza collettiva in questa fase storica, tra un primato della religione ormai inattuale ed un primato della ragione ancora potenziale e controverso. Il conflitto globale delle idee vede in campo più parti: c’è chi pensa di uscirne rilanciando la sottomissione alla fede, popolare od esoterica che sia, e chi ritiene si debba invece ragionare di più e meglio, procedere con la ricerca scientifica ed insieme con la riflessione filosofica, facendo altresì tesoro dell’esperienza negativa, senza altri ritardi. Gli uni e gli altri convergono nell’esecrazione di una terza classe, quella di chi si concentra solo sul vantaggio immediato e privato, grande o piccolo che sia, che sanno trarre dal sistema capitalistico globale, senza preoccupazioni quanto alla giustizia, alla pace ed all’ambiente. Tutti quanti sono infine additati come poveri illusi da chi vede certa e non lontana la definitiva catastrofe del mondo. Ognuno di noi, più o meno consciamente e coerentemente, non può che porsi in una di queste posizioni. Dalle pagine che seguono, spero che la mia risulti chiara ed avvalorata. Continua a leggere
L’amore oltre le stelle. Intervista a Vito Mancuso su scienza e filosofia
> di Paolo Calabrò
Lei parla di amore chiamando in causa la scienza e le sue acquisizioni teoriche, dalla biologia alla meccanica quantistica. In che modo – e in che misura – è possibile farlo?
Ancor prima di essere un sentimento, l’amore è la manifestazione di una tendenza intrinseca all’essere stesso. Partiamo dall’immagine tradizionale dell’amore che gli antichi ci hanno trasmesso nella figura del dio Eros o Cupido che scaglia la freccia: è certamente un’immagine poetica – la si è sempre trattata così – ma è realmente solo questo? Perché la mente ha sentito (e continua a sentirlo: l’immagine è tutt’altro che desueta) il bisogno di rappresentare il darsi dell’amore attraverso l’immagine della freccia? È chiaro: perché la sente congruente, efficace, adeguata a esprimere il fenomeno fisico dell’innamoramento. L’innamoramento è di fatto un fenomeno fisico, che può essere pensato – come ho approfondito nel mio ultimo libro (Io amo. Piccola filosofia dell’amore, ed. Garzanti, N.d.R.) – come un’onda, proprio del tipo di cui parla anche la fisica. La definizione di “onda” data dai manuali di fisica è “perturbazione che si diffonde nello spazio trasmettendo energia ma non materia”. Penso che chiunque sia stato innamorato abbia vissuto su di sé l’esperienza di una “perturbazione”, che si è mossa dentro di lui spostando energia ma non materia. È effettivamente possibile, a mio avviso, stabilire un parallelo tra l’innamoramento e l’onda elettromagnetica; non è forse vero che il soggetto colpito dalla “perturbazione” si trasformi in un vero e proprio pezzo di ferro per il quale l’altro – o l’altra – non è né più né meno che… un grande magnete, che lo attrae irresistibilmente? L’amore è un fenomeno cosmico che investe tanto gli umani quanto ogni altro aspetto della realtà. E la cosa più sorprendente è che lo fa secondo modalità tutt’affatto simili.