> di Andrea Sergi*
UNDICI PAROLE – Prima parte
Le parole di maggior valore sono le più estese semanticamente, ed al contempo le più benefiche, per l’anima individuale e per la collettività. Tutti dovremmo averne un concetto chiaro ed esprimibile, ma non pare sia così. Se chiedessimo di definire queste parole ad un certo numero di persone scelte a caso, ovunque ci si trovi, ascolteremmo in molti casi risposte risalenti alla dottrina religiosa insegnata loro da bambini, o che si sono scelta da adulti, secondo vari gradi di convinzione. Qualcuno non avrebbe granché da dire, ma troveremmo anche quelli che partono all’attacco, che negano la bontà o l’esistenza stessa dell’amore, della felicità, della giustizia, della libertà, della verità, che se la prendono con la vita e con l’esistenza stessa: tra le parole comprese nel dizionario aureo, costoro salverebbero forse il piacere, ma in un’accezione tanto ristretta da far sembrare spirituali persino i Cirenaici dell’antica scuola. Trovare una concezione nitida, razionale, logica di quei termini non è facile e, per alcuni, nemmeno desiderabile. Quel che di mostruoso è avvenuto nell’età contemporanea, come le guerre mondiali, l’invenzione delle armi nucleari e i danni agli ecosistemi, secondo certe correnti di pensiero, sarebbe da imputarsi proprio alla cosiddetta razionalità occidentale. Con questa espressione non si vuol certo intendere che esistano tante diverse razionalità quanti sono i punti cardinali; piuttosto, anziché come una preziosa acquisizione della cultura occidentale, la sovranità della ragione è giudicata alla stregua del canto delle sirene, qualcosa che seduce ed uccide. È una delle possibili reazioni al mix di meraviglie e disastri risultante dalla situazione in cui versa la coscienza collettiva in questa fase storica, tra un primato della religione ormai inattuale ed un primato della ragione ancora potenziale e controverso. Il conflitto globale delle idee vede in campo più parti: c’è chi pensa di uscirne rilanciando la sottomissione alla fede, popolare od esoterica che sia, e chi ritiene si debba invece ragionare di più e meglio, procedere con la ricerca scientifica ed insieme con la riflessione filosofica, facendo altresì tesoro dell’esperienza negativa, senza altri ritardi. Gli uni e gli altri convergono nell’esecrazione di una terza classe, quella di chi si concentra solo sul vantaggio immediato e privato, grande o piccolo che sia, che sanno trarre dal sistema capitalistico globale, senza preoccupazioni quanto alla giustizia, alla pace ed all’ambiente. Tutti quanti sono infine additati come poveri illusi da chi vede certa e non lontana la definitiva catastrofe del mondo. Ognuno di noi, più o meno consciamente e coerentemente, non può che porsi in una di queste posizioni. Dalle pagine che seguono, spero che la mia risulti chiara ed avvalorata.
Amore
Volere il bene è l’essenza dell’amore; i diversi tempi, i modi, gli oggetti di tale volontà articolano l’amore nelle sue specie. Una di queste è l’amore di sé, il cui rapporto con l’amore per l’altro è aspetto assai delicato, nella vita attiva e nella riflessione. «Nessuno può amare gli altri, né sentirsi amato, se non ama se stesso», è massima diffusissima e del tutto condivisibile, giacché un concetto prevalentemente negativo della propria persona comporta una chiusura anche nei confronti degli altri, ma è altrettanto vero che le più grandi dimostrazioni d’amore sono quelle di chi, all’occorrenza, sa mettere in secondo piano il proprio piacere e la propria stessa vita. A causare l’apparente contrasto è l’eventualità che l’oggetto dell’amore, ad esempio la compagna della vita, il figlio, la propria gente, sia severamente colpito dal male, tranne che il soverchio dolore non lo spinga a chiedere per primo di essere accompagnato alla morte. In certi drammatici casi, sottrarsi al sacrificio significa rinnegare ciò che si è stati, diventare incapaci di amare nuovamente, provare per se stessi l’esatto contrario di quell’amor proprio che aveva spinto al tradimento e, probabilmente, concludere nella vergogna i propri giorni.
Non sempre, però, il male di chi amiamo esige la nostra abnegazione, non quando la sua causa è puramente psicologica e la persona è responsabile di se stessa; nessuna separazione sarebbe altrimenti possibile senza un tragico epilogo. Per questo, in uno Stato dalla popolazione culturalmente eterogenea, e politicamente progredito, la legge dovrebbe in ogni caso astenersi dall’imporre l’obbligo del vincolo; in materia di unioni e di figli, dovrebbe suonare pressapoco così:
1. Lo Stato tutela le persone adulte che si amano e che vogliono vivere insieme, indipendentemente da qualunque fattore estrinseco al sentimento, compresi il sesso, il numero, la consanguineità e la religione. Queste persone possono presentare ad un organo amministrativo una dichiarazione congiunta di unione, in virtù della quale far valere i diritti all’assistenza in caso di bisogno, e quelli ereditari. La dichiarazione non produce alcun automatismo quanto alle proprietà, la cui eventuale comunione dipende solo da ulteriori accordi tra le parti
2. Ogni neonato entra a far parte dell’unione convivente e vi resta fino alla maggiore età, con le relative conseguenze in materia di diritti e doveri, a meno che non venga richiesto all’amministrazione pubblica e da essa accettato, nel rispetto dei necessari requisiti, l’affidamento permanente a terzi. La madre singola può esigere il contributo finanziario del padre naturale, in proporzione alla condizione dello stesso, o richiedere l’aiuto pubblico previsto per le situazioni più difficili.
3. I bambini e gli adolescenti hanno diritto alle cure ed alla cultura richieste dalla loro età. Di questo, la responsabilità spetta primariamente ai genitori naturali, ma in caso di loro scomparsa, impossibilità o volontà condivisa, essa può passare a chiunque altro sia in grado di garantirle. È dovere dei cittadini denunciare eventuali omissioni, come degli organi giudiziari individuare i responsabili e ripristinare la giustizia.
4. La dichiarazione smette di aver valore legale quando i dichiaranti si presentino all’amministrazione per la procedura di annullamento, durante cui essi dovranno comunicare all’autorità giudiziaria le loro intenzioni riguardo agli eventuali figli minorenni, naturali od adottivi; in caso di contenzioso, o per accertarsi che non vi sia omissione di responsabilità, l’autorità dovrà avviare gli interventi opportuni. Sono previsti tempi ragionevoli fra la dichiarazione positiva e quella negativa, come fra quella negativa ed una nuova dichiarazione positiva, affinché siano impediti eventuali abusi di tale ufficio.
5. Chiunque lo voglia può suggellare il connubio con qualsiasi specie di rito matrimoniale; tuttavia esso è privo di valore giuridico, non stabilisce cioè alcun diritto o dovere ulteriore a quelli già previsti; non può dunque essere celebrato da un pubblico funzionario, e non sostituisce la dichiarazione pubblica di unione. Di conseguenza, anche il divorzio riguarda solo l’eventuale credo degli interessati.
Bene
In relazione ad un dato ente, il bene sta nel principiare e nel mantenersi della sua presenza nello spazio – l’estensione – e nel tempo – la durata; il meglio sta nel suo incremento, il male nella riduzione e nel finire: stati e mutamenti dovuti alle acquisizioni, agli scambi, alle cessioni di parti. Queste sono per la maggior parte involontarie, non essendovi volontà nella maggior parte delle cose. Il contrario vale per gli animali, che a tutto rispondono con le sensazioni: godono o soffrono, secondo la scala estetica della loro specie. Infine noi uomini, alla sommità degli esseri di questa parte della Via Lattea, ci rendiamo anche conto di questi fatti. Più o meno.
C’è l’uomo singolo, e ci sono innumerevoli tipi di insiemi, dai più ristretti, le coppie di vario genere, al più vasto, la specie, l’Homo Sapiens (L.). Per tutti, singoli ed insiemi, c’è un bene ed un male; è superiore compito del pensiero comprendere se e come bene con bene, male con male degli uni e degli altri possano essere unificati, dentro e fuori l’umano, e a qual fine. Quanto alla possibilità, questa è evidente. Ciò che ognuno di noi chiama bene per sé è in ultima analisi la sua presenza nel mondo, con il corpo, con i sensi e con la mente. Certi luoghi sono migliori di altri perché fecondi, moltiplicatori di presenza: l’anima ed il corpo degli altri più di tutto, giacché la protrae, nella prole e nella coscienza degli estimatori, anche oltre la sua fine biologica. Questo non è espandersi a spese altrui, non è farsi spazio a prezzo della paura e dell’odio, ma con l’altrui beneplacito. In fondo, tutta qui è la coincidenza del bene dell’uno e dei molti, il cemento della società. Il come è presto detto: essendo o facendo ciò di cui può beneficiare l’insieme umano, beltà, arti e scienze, ciò che dispone gli altri alla ricompensa, minore se è cosa umile, maggiore se nobile.
Così, pur tra ingenti diseguaglianze e gravi ricadute, è cresciuto l’Homo Sapiens, tanto che il bene dell’altro da sé, quello degli elementi e dei regni naturali, si è posto sotto la sua tutela. Lo spazio guadagnato da un ente è sottratto ad un altro, anche fosse solo aria; lo spazio è infinito, ma a vista di telescopio solo la porzione in cui siamo è favorevole alla vita, e non ci pare più nemmeno tanto grande. C’è una soglia nella riduzione degli enti naturali, oltre la quale il bene che sappiamo ottenerne comincia a ribaltarsi in male, giacché se quelli non vi fossero punto non vi saremmo neppure noi. Se, in certe sue direzioni, la crescita si deve fermare, meglio sia per nostra saggezza che per forza; quanto più quest’ultima si manifesta, tanto più è segno che la prima è carente. La telecomunicazione è un esempio alternativo di crescita, molto sedentario, ma a basso impatto ambientale.
Certo, anche approntando tutte le possibili soluzioni contro il male, fuori e dentro di noi, compresa la riconversione professionale di chi deve ad esso il suo pane, come l’oncologo, il poliziotto ed il tragediografo, il destino dell’uomo, singolo, popolo o specie, è la fine. Non si tratta di una nostra peculiare sfortuna, ma è quello che succede a tutte le entità, tutto ciò che non è l’eterno essere, per il quale il male non c’è, tutto è bene. Noi siamo differenti solo perché lo sappiamo. Dispiace un po’ vedere che ancora tanti se ne angustino, che, per vivere sereni, tanti debbano illudersi di essere immortali, rifugiandosi negli antichi miti della metempsicosi e della resurrezione o, a volte, cercando di travestire di sofismi la verità, ma è abbastanza comprensibile: pensare al male che verrà adombra il bene attuale. Se si vuol stare nel vero e al contempo godere, conviene dunque non fissarsi sulla nostra fine ventura: è del tutto inutile, se non dannoso, visto che ne anticipa certi effetti, se non i tempi stessi. Un bel gioco, invece, potrebbe essere immaginare il dopo uomo, quel che prenderà immediatamente il suo posto. La fantascienza ha nell’estinzione totale della specie umana un suo invalicabile confine, mentre gli astrofisici passano direttamente al collasso dell’universo intero; salvo imprevisti, tra le due catastrofi ci sarà un’epoca intermedia, ed è strano che nessuno se ne occupi. Sarebbe bello, per esempio, avere in un’altra specie vivente un erede, biologico o mentale, terrestre o forestiero. Sempre che di noi erediti solo il meglio, beninteso.
Essere
Le parole d’uso più frequente sono anche quelle più indeterminate, in un certo senso vuote, proprio in quanto oltremodo significanti, diremmo ipersemiche: questo, tra i verbi, vale soprattutto per “essere”. Nella frase «adesso il sole è alto», è potrebbe essere sostituito con sta in, si trova in, ma sarebbe affrettato inferirne che “essere” significhi senz’altro “stare o trovarsi in un certo luogo”; con più bel costrutto, posso intendere lo stesso fatto dicendo «il sole splende alto», ma ancor meno “essere” significa “splendere”. Se dico «il sole è splendente» o «il sole è pallido», il significato diventa “avere una certa luminosità”, mentre se, restando sul soggetto, ma cambiando ordine di idee, dico «il sole è una stella», allora l’essere è l’appartenere ad una certa classe di oggetti. La stessa parola connette dunque il sole a qualunque sua pertinenza, e ciò vale per ogni altro soggetto, solo cambiando forma se questo è plurale, passato, futuro, condizionato, chi parla o chi ascolta. Indica l’atto del riconoscimento se, vedendo un uomo ad una certa distanza, dico «quello è mio cugino Piero»; se presento la stessa persona ad un’altra dicendo «questo è mio cugino Piero», introduce un aspetto immutabile del soggetto, in questo caso la sua ascendenza comune alla mia, eccetera.
Se oltre che detto è anche pensato, e pensato a ragione, il verbo essere designa in realtà il nostro sapere, e “sapere” potrebbe sostituirlo, se ciò non suonasse, oltre che desueto, troppo insistente su colui che parla, come i nostri esempi una volta riformulati: «io so alto, so splendente il sole, lo so appartenente alla classe delle stelle». Quando il sapere ha i caratteri dell’ovvietà, un tal modo di esprimersi mostrerebbe uno scrupolo irritante: «quell’uomo laggiù», o «quest’uomo che ti presento, lo so mio cugino Piero», cioè «lo conosco come tale». Molto probabilmente, il signor Piero si risentirebbe per una siffatta presentazione. «Come sarebbe? Dubita che io sia suo cugino? O che io sia appunto io, Piero?», potrebbe pensare, ma solo perché la comunicazione sociale non vuole troppa pedanteria. Di fatto, io non ho minimamente messo in dubbio il mio rapporto di parentela con Piero, né tanto meno la sua identità: sul piano gnoseologico, la mia espressione è inappuntabile. Sapere, conoscere e concepire son tutt’uno con verità, a differenza che immaginare, ipotizzare, credere. Se avessi detto « credo quest’uomo mio cugino», allora sia Piero che l’altra persona avrebbero avuto maggior diritto a turbarsi, a meno che non siano due filosofi scettici fino all’eccesso.
La corrispondenza semantica di essere e verità rende solenne la forma predicativa del verbo; gli esempi più celebri hanno infatti autori e soggetti famosi. Fu con questa che Dio diede sostanza all’immaginazione, cominciando a creare e, rivelatosi a Mosè, se ne servì in riferimento a se stesso, per dirgli come si chiamava. All’indicativo presente, questa forma del verbo suggerisce una durata infinita del soggetto. Anche Gesù, secondo l’evangelista Giovanni, disse più volte «io sono»: alcuni Giudei gli credettero, ma gli osservanti ne furono indignati, e quando, per spiegarsi ancor meglio, affermò che il suo essere era precedente quello di Abramo, lo vollero morto, giacché, per la loro legge, era quel che meritava chi si equiparava a Dio. La stessa forma si trova in Agostino e in Cartesio, laddove intesero dimostrare la certezza della propria effettiva esistenza, in virtù del dubitare stesso, o del pensare. Probabilmente fu proprio una così elevata valutazione del pensiero che valse al Discorso sul metodo la messa all’indice da parte del Sant’Uffizio, insieme all’intera opera del suo autore ed a quasi tutto il meglio della letteratura d’ogni tempo.
Finché l’essere eterno è “Dio” o l’“io”, per come li intende la fede, non siamo ancora all’essere unico, in quanto Dio, gli angeli e l’anima dell’uomo sono sì enti immortali, ma distinti, sia tra loro che dal mondo. All’origine dell’essere sostantivo c’è invece Parmenide. Nel poema che di lui è stato tramandato, l’Eleate narra come fu la dea Giustizia a rivelarglielo, parlando di un essere senza nome:
Orbene io ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole, quali vie di ricerca sono le sole pensabili; l’una che è [ἔστιν] e che non è possibile che non sia, è il sentiero della Persuasione (giacché questa tiene dietro alla Verità); l’altra che non è e che è necessario che non sia, e questo, ti dico, è un sentiero del tutto impercorribile. […]
Questo τό ὂν ha una serie di attributi: ingenerato, imperituro, tutt’intero, unico, immobile, senza fine, continuo, uniforme, indivisibile, simile ad una sfera compatta. Non può quindi trattarsi di un ente individuale o specifico, ma dell’essere in sé. La similitudine con la sfera contraddice l’infinità spaziale, ma con la rettifica di Melisso la rappresentazione è perfetta, sempre che ci si attenga all’essere prescindendo dai suoi contenuti, che sono l’esatto contrario. È il saldo involucro contenente il fluido divenire degli enti; a quest’ultimo la dea si riferisce introducendo il punto di vista dei mortali, quasi si riferisse ad Eraclito e ad Empedocle. Ai primordi della filosofia, Parmenide ne ha già colto il concetto culminante, seppure non al punto da poterlo esprimere in una forma diversa da quella mitica. I filosofi la abbandonarono presto; tuttavia, una volta inclusa la questione dell’essere nelle forme dialettiche e logiche, il concetto ne risultò disgregato, nell’arduo tentativo di enumerarne e descriverne i «molti modi». Né Aristotele, né i tanti che nei secoli lo seguirono nella fatica poterono evitare che, in pieno Novecento, un loro perfetto conoscitore come Martin Heidegger destasse attorno a sé l’interesse del mondo colto ponendosi daccapo la domanda su che cosa fosse l’essere; egli finì poi col riconsegnare la risposta ai poeti.
Eppure, la difficoltà che impedì ai Greci di denotare il concetto nella sua unitarietà non è molto diversa da quella che presenta una frase come «vado a prendere una bottiglia»: in mancanza di altre informazioni, non possiamo sapere se si parla solo di vetro o anche d’altro, magari di Barolo, o di Chardonnay. Le bottiglie possono essere vuote o contenere molti tipi di liquido, ma in certi gradevoli contesti non c’è bisogno di specificare: “bottiglia”, per metonimia, significa “vino”. Lo stesso vale per l’essere e il divenire, salvo che qui non si tratta di un connubio temporaneo come quello del liquido e del vetro: non sono mai stati separati, e mai lo saranno. Non esiste un termine unico ed apposito per esprimerli, ma nemmeno se ne avverte il bisogno, quando si tiene presente che “essere”, in via indiretta, dice anche “divenire”, e viceversa.
Se l’essere creava difficoltà, non diversamente poteva fare il non essere. Abbiamo visto come l’essere, sul piano semantico, coincida con il sapere: quanto al non essere, nulla cambia. Dire e pensare ciò che non è anziché ciò che è, per esempio «il sole non è alto» se sono le otto di mattina, « non è il sole a girare intorno alla Terra», «quello non è mio cugino» se è uno che gli somiglia soltanto, o che si trova al suo posto, è sempre sapere. Il ricorso alla negazione, di norma, avviene per evitare gli equivoci, sia come prevenzione che come correzione, quando c’è chi ha in mente qualcosa di diverso dalla realtà, fatto comune e mai proficuo. Se si può dire, con il Sofista di Platone, che all’essere appartiene anche il non essere, è per queste aspettative, intenzioni, simulazioni psichiche, nonché per il ricordo e la giusta previsione, il non-essere -più ed il non-essere-ancora, che, congiunti all’ente, sono lo stesso del divenire. Nemmeno lo spazio vuoto è puro nulla, in quanto capacità, campo e percorribilità dell’ente.
La simmetria di essere e sapere si conferma rovesciando i termini della questione: da un lato essere e non essere sono sapere, dall’altro sapere e non sapere sono enti. Il sapere è la mappa dell’essere; includerlo interamente in essa gli è ovviamente impossibile, anzi, anche mettendo insieme tutto il sapere di tutti si ottiene ben poca cosa rispetto alla realtà infinita; per questo l’imparare non ha limiti, non solo nel singolo, ma anche nella specie sapiente. Eppure, la nostra mappa può almeno indicare con frecce ai quattro lati che l’essere prosegue. Dato per esperienza alcunché come ente, il passaggio dal noto all’ignoto avviene lungo le due direzioni del tempo, il passato ed il futuro, e le due dello spazio, l’esterno e l’interno; oltre i confini del sapere determinato, tutto quello che possiamo porre come vero è, rispettivamente, l’essere prima, l’essere dopo, il contenere e l’essere contenuto, e tutto quel che possiamo senz’altro escludere è il nulla. Volendo aggiungere altro, saranno ipotesi, sempre meno probabili quanto più si fa distante il punto di partenza. Dove l’uomo ha compiuto i maggiori avanzamenti è all’interno dell’ente: oltre a non richiedere né macchine del tempo né esplorazioni ultragalattiche, è questa l’unica strada teoricamente finita, se l’essere è diverso dal nulla. La fisica ha compiuto passi tali da poter consegnare all’umanità l’essenza dell’universo, ma per stabilire che lo è di tutti gli universi bisognerebbe esser giunti al termine delle altre tre strade: queste, però, oltre a presentare forti difficoltà di percorso, sono sicuramente infinite. È comunque un’ottima ragione per disinteressarsi di qualcosa sapere che non possiamo saperne altro che è.
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Dal punto di vista dell’individuo, l’essere è come una lontana ed esotica località, la meta ideale dell’uomo medio per una vacanza lungamente desiderata: una splendida esperienza, sempre che non si incorra in imprevisti che la guastino. Alcune caratteristiche sono peculiari. Anzitutto, qui non vi sono residenti fissi, niente indigeni, perciò non si può pensare solo allo svago: dopo un primo periodo di ambientazione, bisogna anche darsi da fare. Altra differenza è che, tramite opportuni accordi interpersonali, è possibile invitare propri simili: è anzi così soltanto che il viaggio di ciascuno può avverarsi. Insieme alle delizie, non mancano mai i disagi, ma, nella maggior parte dei casi, risultano più che accettabili, specie se si considera la residenza da cui si parte ed a cui necessariamente si ritorna: questa residenza, questa casa, infatti, non è altro che il non essere, ed è la stessa per tutti.
Di norma, l’identità del viaggiatore è nota a pochi e, dopo la sua partenza, viene rapidamente dimenticata, a causa dell’ordinarietà del suo agire. È infrequente che il contributo dato in termini di incremento delle attrattive sia tale da procurare al soggetto la celebrità imperitura. Per fortuna, non è comune neppure la notorietà acquisita per gravi demeriti.
Tra i comportamenti che si osservano fra i turisti ve ne sono di assai curiosi. I più comuni sono dovuti a credenze, frutto a loro volta di limiti mentali che stravolgono in larga misura la realtà dell’esistenza, al cui posto vengono a trovarsi bizzarre simulazioni immaginative e marchiane contraddizioni. Antiche di secoli o di millenni, esse hanno sempre esercitato un notevole influsso, ed i testi a cui si richiamano sono considerati sacri dai credenti, ispirati da intelligenze superiori o perfino sovrumane. Il complesso di narrazioni, dottrine e pratiche riconducibili a tali credenze è detta religione, e tutte ebbero inizio in Asia, per poi espandersi nel mondo. Durante il loro massimo fulgore, non vi era Stato che non rendesse obbligatoria l’osservanza di precetti religiosi, un’identificazione di religione e politica che si è mantenuta inalterata in gran parte del mondo islamico, mentre in quello di tradizione cristiana è andato pian piano scemando a partire dall’epoca rinascimentale, senza però scomparire del tutto.
Al concetto secondo cui l’esistenza umana, non diversamente da quella di ogni altro ente determinato, è un passaggio dal non essere all’essere, possibile una volta sola e necessariamente seguito da un definitivo ritorno, le religioni contrappongono, ognuna a suo modo, tutt’altra versione dei fatti. Secondo quelle sorte in Medio Oriente, più che di un viaggio si tratta di un trasloco, essendo la morte pensata come un transito dell’io da una modalità provvisoria ad una definitiva dell’essere. Stando ad altre credenze, formulate principalmente in India, tali modalità sono in gran numero, ed il soggetto, morendo e rinascendo, passa dall’una all’altra, migliorando o peggiorando la propria condizione; ben pochi eletti, tutti di sesso maschile, si sottraggono a questo indesiderabile nomadismo, stabilizzandosi nella sola dimora davvero felice, l’essere sublime. Dovunque viene asserita la divisione dell’io in due parti, una perenne e l’altra transeunte, idea del tutto priva, evidentemente, di basi scientifiche, o almeno logiche.
La funzione consolatoria spiega ampiamente l’affermarsi delle religioni e delle filosofie che ne condividono lo spirito. Il non essere non è certo una sede attraente, anche se preferibile a qualunque genere di inferno. Tuttavia, l’accettazione di questa realtà non dovrebbe troppo spaventare. Restando nella metafora, chiunque abbia compiuto almeno un viaggio di quelli speciali sa bene che le bellezze del luogo prescelto assorbono tutta l’attenzione, e che il pensiero del ritorno alla propria realtà quotidiana, sentita a volte come grigia e pesante, non si presenta se non quando è imminente. Molto più comprensibile è la credulità dei sofferenti cronici ed il loro essere alimentata da chi li assiste, essendo la verità dei fatti, in questo caso, un dolore che si aggiunge all’altro. In simili casi, però, la resistenza stoica e perfino l’eutanasia (lodevole lo Stato che né la proibisce né la impone) hanno una dignità superiore.
Felicità
Non c’è uno strumento per misurarla con precisione, come la temperatura di un corpo, o di un ambiente, o l’intensità della corrente elettrica, ma la felicità è una grandezza simile a tutte le altre. È la sensazione positiva prodotta da ciò che è percepito, dell’io e del non-io, quando esigenza e condizione corrispondono, almeno per quel che nell’esigenza vi è di essenziale. Le esigenze cambiano da un individuo all’altro, ma non tanto da non avere nulla in comune tra loro, persino comprendendo gli animali, ai quali l’ambiente idoneo e la salute sono essenziali come per l’uomo, che è però più complesso, quindi più esigente e delicato: il suo esser cosciente richiede la salute psichica, cioè la proficua attività delle funzioni mentali interagenti: memorizzare, ragionare, immaginare, agire bene, cioè secondo verità e giustizia. Si può sempre sbagliare, ma non gravemente, ed è obbligo porre rimedio al più presto. Se anche il corpo ed il clima ben rispondono alla sensibilità, per via naturale o con l’aiuto della tecnica, non si può che essere felici, per la lunga o breve durata di tale fortuna, e quando essa cambia, com’è destino, ma non è ancora intaccata la memoria, il ricordo di un dolcissimo sapore accompagna la vita che resta.
Non è dunque per tutti, non è per sempre e può essere grande o piccola. Tutti, però, conosciamo filosofi, professionisti o dilettanti, che dopo aver molto riflettuto son giunti ad una conclusione molto diversa. Già Kant, gettandovi fantomatiche ombre di bassezza, ne aveva offuscato il concetto, che, insieme ad altri di pari grado, aveva fatto ritorno sulla Terra dopo un lungo viaggio nelle sfere celesti; qualcuno cominciò poi a sostenere che la felicità non esiste affatto, mentre abbonda il suo contrario. Se con essa si vuol intendere l’immaginaria condizione degli dèi, allora la questione è semplice, basterà ripiegare su termini più terragni, come “benessere” o “pacchia”. Talvolta il malinteso nasce dal considerare solo l’illudersi degli ingenui, l’ingannevole euforia della fiducia mal riposta. Ben note sono pure le agiografie di quei santi che esultavano dove gli individui ragionevoli non lo fanno, in quanto erano divorati dalla malattia o prossimi all’esecuzione capitale, e le cronache riguardanti certe sette religiose, i cui adepti si dicevano felicissimi mentre preparavano le venefiche misture con cui poco dopo si sarebbero suicidati: tutte dimostrazioni che non sempre chi si dichiara felice è attendibile. Eppure, a costoro i pessimisti somigliano non poco. Certo si guardano bene dal credere che un’altra vita, migliore per chi ci crede e peggiore per gli altri, segua la morte di ciascuno, convinzione radicata nei mistici al tal punto da non far loro avvertire il dolore fisico, o da spingerli ad accorciare drasticamente i tempi della dipartita, ma il contemptus mundi e l’immagine della lacrimarum valle mettono d’accordo gli uni e gli altri, mentre chi trova piacere nel mondo non se ne dà pensiero.
I teorici dell’infelicità come Schopenauer, uno che viveva per convincere il prossimo a smettere di vivere, presumono di dimostrare che non si può essere al contempo nella verità e felici, ma non si sa di quale verità parlino. «Il mondo è mia rappresentazione» è forse verità? Non esiste il rappresentato, ma solo la rappresentazione? O sono la stessa cosa? È come dire che non esiste la Torre di Pisa, ma solo la sua fotografia, o che le due cose sono una sola; come dire che l’Antartide è un filmato sull’Antartide. Forse anche l’espressione e ciò che esprime sono la stessa cosa, perciò la parola “cane” abbaia, la parola “freddo” ha il cappotto. Di questo genere è la sedicente verità che introduce tutte le altre, fino ad una definizione di volontà che, dopo esser stata posta nel corpo piuttosto che nell’anima, diventa coincidente con quella di esistenza. Messosi come tanti alla ricerca del principio assiomatico della realtà, Schopenauer lo identificò, secondo un antico vizio filosofico, con un elemento della psiche umana. La ragione era stata prescelta dall’odiato Hegel, e la memoria mal si adattava; c’è poi l’immaginazione, che, tolte le briglie, è sogno e miraggio, ma anche qui nulla di nuovo, mentre alla volontà nessuno aveva ancora pensato. Antecedente a tutto, ragione compresa, quindi fuori controllo, la volontà è stoltezza, sicché lo squallido simbolo della realtà tutta non può essere che il pazzo insanabile. Quel che alla fine viene dimostrato è proprio l’opposto di quel che si voleva: dove non si può essere felici non è nella verità, ma su un cumulo di assurdità.
Altra autorità in materia resta Leopardi, la cui atrabile raggiunge effetti persino grotteschi. Ben nota è la pagina dello Zibaldone in cui egli esprime la sua compassione per le povere piante, le quali giammai godono delle giuste condizioni climatiche, e vengono ripetutamente calpestate; per i fiori, dalla vita troppo breve, sempre violentati dalle api irriguardose; per gli alberi, che sopportano con stoico silenzio il prurito e le dolorose morsicature delle formiche e delle larve, senza nemmeno poter piegare i rami per grattarsi. Che crudeltà questa Natura! I bravi giardinieri fanno del loro meglio, ma la lotta per alleviare le aspre pene che essa infligge agli incolpevoli vegetali è impari. Tuttavia, bisognerà pure riconoscere che api e calabroni, nel loro sguazzare nel polline, come pure gli altri insetti che pasteggiano indisturbati, si diano buon tempo e, se è vero che i gusti non si discutono, c’è poco da reclamare se la Natura od il Fato hanno voluto riservare la felicità a quei piccoli mostri.
Giustizia
Sin dagli albori della Storia, la giustizia ordinaria non è mai bastata, tanto che il senso comune intende giustizia solo come riparazione, imposizione all’ingiusto di una pena che ripristini l’equilibrio infranto; se poi l’atto non si compie in tempo, il danno aumenta, e richiede un intervento più ingente.
La giustizia ordinaria è vita quotidiana, prassi in gran parte automatica, al margine dell’attenzione. Prendiamo ad esempio la piazza principale di una città, in un qualunque Stato moderno ed in tempo di pace: è un pomeriggio di bel tempo, c’è chi passeggia, chi scatta una foto, chi siede ad un tavolino di un bar conversando o ridendo; qualcuno è solo e legge un giornale, altri servono bevande e stuzzichini ai tavoli, un giramondo suona il violino. Il campo percettivo di ognuno comprende un certo numero di persone, disposte su diversi piani, a seconda dell’attenzione che vien loro prestata; tutti interagiscono con tutti, dal livello minimo del puro percepirsi reciproco visivo e uditivo, a quello medio dello scambio commerciale, fino ai più alti della comunicazione verbale dei contenuti psichici e del contatto fisico. L’interazione è una dinamica di dare e avere, che ha la sua misura soggettiva nella valenza estetica della percezione, secondo la scala del piacere e del dolore: sopra lo zero, la ricezione è più o meno positiva, ciò che ognuno dà all’altro è bene e tutto procede giustamente. I problemi cominciano quando tale valenza, per motivi risalenti alla volontà dell’altro, scende sotto lo zero. Si va dal fastidio dato da un tizio che si mette a parlare con voce troppo alta ed espressioni triviali, o fruga nelle proprie narici; poi l’asticella scende, cioè il danno aumenta, con l’offesa verbale, ancor più con il furto e con l’aggressione fisica, infine crolla nel fondo per opera della mano omicida.
Soffermiamoci sul primo di tali casi, quello dello zotico. Entro una certa misura, egli viene pazientemente sopportato, non tanto per la modesta rilevanza del danno, quanto per la mancata distinzione tra i presenti, il non rivolgersi a nessuno in particolare. Questo non rende la sua condotta meno ingiusta: al contrario, l’ingiustizia, che deriva sempre da un errore di concetto, è qui certa seppur lieve, poiché non vi è nessun motivo razionale di ritenere l’intero genere umano, rappresentato dai frequentatori pomeridiani della piazza, immeritevole del minimo decoro. Avesse lo stesso oltraggio, per chiari segni, un destinatario selezionato, l’effetto prima disperso tra la moltitudine si concentrerebbe su pochi, o su di uno solo. Ad un osservatore esterno che voglia giudicare il fatto sarebbe utile sapere se i due, chiamiamoli i signori Bruno e Aldo, abbiano dei trascorsi. Mettiamo che non si conoscano affatto, e che l’ingiuriato non abbia rivolto all’altro che un’occhiata distratta. Bruno, solo a guardarlo, ha trovato in Aldo qualcosa di indegno. Il suo aspetto non gli piace, la sua postura nemmeno, e non si chiede perché, non sa e non gli importa sapere di lui, delle sue origini, delle sue relazioni, delle sue attività, del suo pensiero: la sensazione gli dice che va contrastato, e lo fa con un odioso gesto della mano. Esso dice: “ce ne passa, fra noi due, quanto fra il sole ed un moccolo, un’aquila reale ed un pollo di batteria. Questo mondo non è per gli inetti come te, dovresti farti da parte, magari scavare una buca e starci dentro, faresti più bella figura, anziché prender calci al trionfale passaggio di gente del mio valore”. Non che Bruno sia del tutto convinto di essere nella piena verità, ma con quel rapido gesto si esprime, per scommessa, come se lo fosse.
Torniamo ora alla giustizia e definiamola come equivalenza tra percezione e risposta nell’interazione umana. La percezione di Aldo da parte di Bruno ha una valenza negativa, e dal punto di vista soggettivo egli, rispondendo altrettanto negativamente, è nel giusto; ma nella sensazione ha peso il livello di coscienza, e se questo è basso, o mediocre, il risultato assiologico è relativamente inattendibile. La giustizia progredisce dunque con la coscienza e con la verità di cui questa è capace, nell’individuo e nella Storia. Nel caso immaginato, l’errore da cui consegue l’inferiorità di giudizio sta tutto nello sbilanciare l’oggettiva somiglianza tra sé ed un altro individuo della stessa specie a favore della differenza, trascurando l’identità. Nessuna delle possibili reazioni di Aldo potrebbe scagionare Bruno, neanche nello strano, ma possibile caso che Aldo, rispetto al gestaccio rivoltogli, convenga pienamente con il suo contenuto. Già da tempo erano nati nel suo animo dubbi su di sé, non avevano fatto che accrescersi e, dopo numerose conferme, gliene giungeva una che aveva l’acre sapore del veleno mortale. Ormai anche uno sconosciuto poteva leggere nel suo aspetto, scorgere la tenebra che si portava dentro, e chi non è vittima ha tutte le ragioni per volerla scacciare come una malattia, ogni mezzo è lecito. Ecco dunque il tapino alzarsi da dov’era seduto ed allontanarsi dalla piazza e dalla vita, che si toglierà di lì a breve. Vedendolo andarsene, Bruno prova un intimo compiacimento. Aveva dunque ragione? Naturalmente no, semmai è Aldo a commettere lo stesso errore, ma con tragico esito, essendosi identificato con la classe disgraziata. Non si può ancora parlare di reato, ma c’è qui un’istigazione preterintenzionale al suicidio.
Tuttavia, Aldo potrebbe avere tutt’altro carattere, ed il suo sangue ribollire per la sconcertante insolenza di quel tanghero, che forse ha già visto altre volte in giro per il centro e sempre evitato. Vorrebbe colpirlo, ma non si lascia trascinare dall’impulso fra tutta quella gente, e si conforma al linguaggio gestuale: lo fissa piegando a ghigno un angolo della bocca, annuisce col capo e tende la mano verso di lui, con la palma verso il basso. “Fai pure lo spiritoso”, vuol dire quel cenno, “che appena ho un po’ di tempo ti aggiusto”. Se anche uno solo sparge il seme della calunnia, questa è tanto pronta ad attecchire che a lasciar correre ci si ritrova in breve tempo con il nome infangato, pensa Aldo. L’altro non si scompone: è convinto che il gesto minaccioso sia solo fumo, e che alla resa dei conti si vedrà quanto sia superiore lui a quel babbeo. Nient’altro di significativo per quel giorno, ma i due probabilmente si ritroveranno e combatteranno: come nell’antico duello ordalico, ciò stabilirà chi ha ragione e chi ha torto, e se l’esito sarà incerto starà a loro decidere se risolversi al pareggio o aggiornare il verdetto ad un secondo scontro. In ogni caso, la congettura che ha innescato la contesa mostra di nuovo tutta la sua inconsistenza: i due galantuomini si rivelano tanto affini da essere interscambiabili, tant’è che, all’infuori dei parenti stretti e dei pochi amici, a nessuno importa di loro e di chi vincerà: chiunque sia stato a cominciare, quando si arriva alle cornate un caprone vale l’altro.
Fortunatamente, né il suicida né il duellante erano il vero Aldo. Egli trova nella vita troppo interesse e piacere per sentirsi più che appena sfiorato dalla provocazione di un poveruomo; preso da tutt’altro, il tempo di un batter di ciglia per dedicargli un pensierino augurale, e l’episodio è già fuori dal suo spazio psichico. Per recar danno a chi ha una coscienza sviluppata bisogna alzare la posta e correre maggiori rischi, perciò l’evenienza tende a farsi più infrequente.
Come tutte le linee di separazione, anche la soglia del reato, che è quella tra levità e consistenza del danno, astrae necessariamente dal continuo della realtà. Ogni nuova assemblea legislativa ne eredita il tracciato e può modificarlo. Oltre quella soglia, la giustizia si fa interesse pubblico: chi ha subito un reato si rivolge alle preposte istituzioni giudiziarie. Il vantaggio individuale di tale organizzazione è palese se l’offeso non dispone dei mezzi necessari per far fronte autonomamente al male ricevuto, ma anche chi si trova nella condizione opposta deve seguire la medesima prassi, rinunciando all’atto di forza privato. A persuaderci della ragionevolezza di quest’obbligo potrebbe bastare l’inquietante prospettiva di trovarci di fronte ad un atto di violenza e restar interdetti dall’eguale possibilità che si tratti di delitto o di giusta ritorsione per una precedente offesa; soprattutto c’è però la consapevolezza che la società non è come un arcipelago di milioni di piccole isole, ma come un continente: a causa della continuità tra le parti, il sopruso subito da uno è una minaccia per tutti e, se non se ne fa carico lo Stato, si sparge nella popolazione un’insicurezza tale da ostacolare gravemente tanto il lavoro che il riposo. Ovviamente parlo di uno Stato che sia in grado di comprendere e servire l’interesse generale, altrimenti è inaffidabile, e quel che accade nel suo territorio, estintasi da gran tempo la poesia tragica, è buono solo come spunto per qualche film d’azione di altro e meno sfortunato Paese.
Fine prima parte
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*Andrea Sergi, nato a Parma nel 1963, dopo essersi laureato al DAMS di Bologna con una tesi sul rapporto tra arte popolare e arte intellettuale, si è occupato per lungo tempo di arti visive, come insegnante, fumettista, pittore e restauratore. Si è parallelamente dedicato alla poesia, pubblicando Ipnagogia celeste (Perugia, 1996), nonché ad opere di carattere filosofico.