> di Giancarlo Vianello*
Il considerare la morte come tempio del nulla apre a due nuovi ambiti: il tema della morte e quello della coappartenenza di essere e nulla. Benché il pensiero occidentale abbia emarginato nel suo percorso il tema della morte (cfr. Hajime 1959, pp. 93-133), Heidegger definisce il Dasein come “essere per la morte” (sein zum Tode). La morte è il momento in cui l’essere entra nel nulla (Hinheingehaltenheit in das Nichts). La morte provoca angoscia, ma è proprio questa angoscia che ci spinge a trascendere la totalità degli enti e giungere all’essere. Permette quindi di superare la differenza ontologica tra ente ed essere. L’essere può venir pensato solo in relazione all’ente: l’ente è la cosa e l’essere ne è l’essenza. Solo che nello sviluppo della metafisica occidentale, l’essere è stato oggettivato e confuso con l’ente. Recuperare il senso dell’essere significa quindi saper vedere ciò che nega l’ente: il ni-ente, il nulla. Il nulla è diverso dall’ente, è l’altro polo della dicotomia Nichts/Etwas. Nell’essere dell’ente avviene la nullificazione del nulla, cioè il nulla permette l’esserci dell’ente.
In questa prospettiva, il nulla non è negazione, e quindi una realtà a posteriori, ma causa, e quindi una realtà a priori. Heidegger afferma che il nulla svela il senso dell’essere. Questo nulla può essere colto nell’angoscia in relazione alla morte, che è il luogo dove il nulla si rivela. Attraverso l’angoscia le cose sono messe in relazione con il loro poter non essere ed emerge il nulla da cui l’ente proviene. Per contro, il fatto che l’ente sia fondato sul nulla permette la libertà e ci salva da un rigido determinismo. Essere immerso nel nulla significa trascendere e il nulla si connota come trascendenza dell’esistenza, che infrange la logica e lascia intravedere l’essere come realtà completamente altra. Il nulla è un momento essenziale della manifestazione dell’essere. Per Heidegger, la metafisica, segnata dalla dimenticanza dell’essere, si muove in una dimensione ontica e nichilistica, che bisogna trascendere giungendo ad un pensiero essenziale (wesentliches Denken). Su questo si fonda l’anti-umanesimo del filosofo tedesco: per lui, la centralità del soggetto umano è Heimatlosigkeit, spaesamento, straniamento dal rapporto con l’essere, ingabbiati in un contesto esclusivamente ontico. Viceversa, l’essere al mondo, l’esser-ci, il Dasein non è un ente come gli altri, in quanto è in relazione con essere/nulla. Il Dasein, in quanto coscienza della propria finitezza, trascende la dimensione ontica. È stato fatto notare che Heidegger si muove in termini dicotomici (cfr. Steffney 1977, pp. 323-335). A differenza di altre prospettive, come ad esempio quella dello Zen, non riesce a superare la relazione essere/nulla, relazione in cui permane l’angoscia. Lo Zen si sarebbe espresso non in termini di relazione, ma di coincidenza. Il dualismo heideggeriano, che lo trattiene ancora all’interno di un orizzonte metafisico, si fonda sulle categorie di essere e nulla. Anche l’Ereignis, l’evento che origina l’essere/nulla, non aiuta a risolvere la difficoltà, in quanto aggiunge categoria a categoria. Come spiega Abe Masao: “Se la vacuità, o il mu assoluto, fosse il terzo aspetto che trascende la dualità di u (essere) e mu (nulla), non potrebbe essere vuoto assoluto, in quanto legato ad una relazione dualistica con u e mu”. Nell’Ereignis c’è essere. In tedesco, si dice: Es gibt Sein, letteralmente “Ciò dona essere”. Un qualcosa dona essere. Questa casuale caratteristica linguistica è rivelatrice di una presenza originaria che si relaziona in modo dualistico.
Similmente, l’essere per la morte si connota come un dualismo: vita/morte. L’evento della morte divide i due ambiti e se ne ha ancora, in tal modo, una visione oggettivata. Per Dōgen, viceversa nascita e morte sono eventi contestuali e presenti in ogni attimo. La morte non è, come nella prospettiva heideggeriana, un evento futuro che annichilisce. È invece presente nel processo eterno di rinascite in quanto impermanenza. Con ciò, il trans-antropomorfismo di Dōgen risulta maggiormente radicale. L’impermanenza è legge assoluta ed immanente, mentre l’essere per la morte è ancora una prospettiva esistenziale umana. Diversa, infine, è la visione del tempo: nella prospettiva del maestro giapponese, vi è una eterna frammentazione di realtà temporali prive di ogni ostruzione e quindi libere all’interno della totalità, in quanto tutti gli esseri e tutti i tempi si compenetrano nel Sé. Ogni singolo essere ed ogni singolo momento, che, ricordiamolo, sono coincidenti, sono un unicum che si colloca in un “tempo senza tempo”. Uji è una prospettiva trans-antropocentrica, in quanto lo stesso essere e lo stesso tempo sono considerati non sostanziali ed oggettivabili, Come si è visto, secondo il maestro giapponese, non tutti gli esseri hanno la natura di Buddha, ma tutti gli esseri sono la natura di Buddha. Sono epifenomeno della natura di Buddha. Pertanto, questa non può esser considerata come un oggetto e collocata in una comprensione dualistica: soggetto/oggetto. Tanto più che non è immutabile, essendo impermanenza.
Per Dōgen, come per il Buddhismo in generale, nascita e morte sono totalmente connessi. Nascita e morte non sono due stati diversi, come appare in una visione oggettivata, ma coincidono in ogni istante: e questo è, appunto, l’impermanenza. L’eterno susseguirsi di istanti di nascita/morte rappresenta il saṃ̣sāra. Prenderne coscienza apre alla possibilità di realizzare il contestuale nirvāṇ̣a. Nascita e morte sono manifestazioni della dinamica totale dell’universo e non si escludono a vicenda. Ogni attimo si colloca in una situazione del Dharma e, in quanto tale, è in un tempo senza tempo. O meglio, è tempo senza tempo. In questa prospettiva, si realizza uji, l’unità di essere e tempo: non c’è essere senza tempo e non c’è tempo senza l’essere. Il dharma della vita è tempo senza tempo, in quanto espressione della dinamica totale del Dharma. Lo stesso è il dharma della morte: hanno un prima ed un dopo, ma trascendono prima e dopo. Ogni essere ed ogni momento, che sono in realtà esattamente la stessa cosa, sono espressione della totalità. Questa consapevolezza si realizza quando, avendo recisi i vincoli dell’ego, si può affermare che “l’intero universo nelle dieci direzioni è in sé il Sé” (Shōbōgenzō, 1, 119).
Nella prospettiva heideggeriana, espressioni come: ”L’essere non è un ente e quindi non ha nulla di temporale e tuttavia è determinato dal tempo come presenza” (Heidegger 1969, p. 30) utilizzano termini come “non” e “nulla” in senso di una relazione negativa che, per passare ad una affermazione positiva, ha bisogno del termine disgiuntivo “e tuttavia” (cfr. Abe Masao 1975, p. 187). Nella prospettiva di Dōgen invece, l’espressione “L’essere non è una cosa e quindi non ha nulla di temporale” oppure “Il tempo non è una cosa, quindi niente che è” acquisiscono il senso di negazione assoluta che, in quanto vacuità, è contestualmente affermazione assoluta. Come tale, non ha bisogno di alcun termine disgiuntivo, perché esprime coincidenza.
Per Heidegger, il trans-antropomorfismo si attua collocando il Dasein nel mondo. Per Dōgen, il sé si emancipa nella realizzazione del Sé, in una prospettiva non duale. Per lui, il problema della morte si risolve trascendendo la dualità: vita/morte, passato/presente, anticipazione/attualizzazione, sé/mondo. Non vi è trasformazione, divenire, passaggio, perché queste sono categorie legate ad una concezione lineare ed oggettivata del tempo. C’è invece un darsi, libero ed assoluto, dell’intero universo in ogni singolo istante. L’identità di essere e tempo, che si esprime in uji, non è, ripetiamolo, un’identità oggettiva vista dalla prospettiva del soggetto. Invece, è una espressione del Sé, precedente ogni dualismo. Il risveglio del singolo sé al Sé è in grado di rendere la natura della coincidenza di tempo ed essere, che è la base costitutiva del reale. Allora le montagne saranno tempo ed i fiumi saranno tempo, perché senza tempo non ci possono essere né montagne, né fiumi.
Benché entrambi i pensatori enfatizzino l’identità di essere e tempo, vi è una certa differenza nel concepire ciò. In Heidegger questa identità è espressa in termini di co-appartenenza che si realizza nell’Ereignis. Sono, essere e tempo, doni dell’Ereignis. Ciò è l’essenza del pensiero. Viceversa, nella visione di Dōgen, la identità di essere e tempo si realizza nella loro compenetrazione senza ostruzioni. Ciò è possibile in quanto l’essere è al tempo non-essere, a causa della sua non-sostanzialità, e simmetricamente il tempo è non-tempo, per lo stesso motivo. Essere e tempo non sono “doni”, ma sono il reale. Non si tratta più di essenza del pensiero, bensì di essenza della vita.
Vi è un ultimo aspetto in grado di illuminare, nel confronto tra similitudini e differenze tra i due pensatori, che concerne il “non-pensiero” di Dōgen e “l’impensabile” di Heidegger. I due termini sembrano essere convergenti, ed in una certa misura lo sono, si collocano tuttavia in due prospettive divergenti. Per il primo, il pensiero del non pensiero include entrambi i termini e si realizza nel trascendere la condizione samsarica di nascita/morte. Per il filosofo tedesco invece, si tratta di un ritorno ad un’altra origine, che superi la metafisica. Questa origine è, tuttavia, impensabile (unvordenkliche). Questo “impensabile” viene però cercato dal versante del pensiero. È al di là delle capacità del pensiero e quindi irraggiungibile. Questa origine, da cui scaturisce il pensiero, sta a monte della possibilità di pensare. Per Dōgen, il non-pensiero insito nel pensiero è il Sé, che si rivela trascendendo la dimensione samsarica. Non è quindi una origine, ma qualcosa di connaturato nel pensiero stesso. Parlare di altra origine, benché riferito a qualcosa che determina costitutivamente il tempo, significa collocare al di fuori, rifarsi ad un inizio, ad un prima che solo in seguito si riverbera.
Su un altro versante, mentre l’essere che appare nell’Ereignis scompare, il tempo a lui co-appartenente non scompare e si connota come un contenitore che precede la presenza (Heidegger 1969, p. 3). Dōgen, viceversa, esclude radicalmente ogni forma di origine e si muove su un piano di impermanenza/natura di Buddha (mujō-busshō), in cui ogni possibile forma di dualismo risulta impossibile. Il tutto, umani e non umani, è caratterizzato dall’impermanenza e dalla mutevolezza di tempo ed essere. Per lui, vi è nulla assoluto al di là di essere, tempo e pensiero, neppure la stessa natura di Buddha o qualcosa di simile all’Ereignis heideggeriana. È solo nell’attualizzazione del nulla assoluto che essere, tempo e pensiero si danno, distinti ma interconnessi. Il nulla assoluto è il Sé, che è essere ed è tempo. Nel Sé essere e tempo si fondono, realizzando una unità senza ostruzioni di sorta.
Infine, bisogna notare che Heidegger, malgrado la sua ricerca di un’altra origine rompa con la tradizione metafisica occidentale, opera dal di fuori. Origine e Ereignis sono elementi esterni che non lo comprendono. Nella visione di Dōgen, essere, tempo, natura di Buddha, impermanenza costituiscono un tutto di cui egli stesso fa parte, superando, ripetiamolo, ogni forma di dualismo. Questo, al di là delle assonanze di pensiero esistenti, è lo spartiacque che differenzia le due visioni.
Vorrei terminare questo breve saggio accennando ad una prospettiva più vasta. Si è mirato il discorso su assonanze e divergenze tra Dōgen e Heidegger sul tema del tempo e si sono, in qualche modo, fatti dialogare due pensatori separati da secoli di diversa cultura e linguaggio. Ad ogni modo, la visione di un tempo che trascende la mera linearità finalistica ricorre sia in Oriente che in Occidente. Da noi in Occidente, possiamo ricordare ad esempio la mistica, l’alchimia e, in tempi più recenti, il concetto di “tempiternità” di Raimon Panikkar. L’opus alchemico non concepiva le varie fasi, nigredo, albedo e rubedo, come momenti di una progressiva realizzazione. Gli alchimisti erano invece ben coscienti che ogni singolo momento conteneva il tutto. Similmente, Raimon Panikkar elabora una critica serrata del finalismo che obbliga gli umani ad una vita alienata, totalmente proiettata su un futuro che, essendo appunto futuro, non arriverà mai. Per lui, ogni singolo istante della vita, della nostra vita, ha nella sua unicità una valenza eterna che ci trascende e ci colloca nell’assoluto.
In questo spirito, concludo citando l’ultima frase della diciottesima Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin: “Ogni attimo è la stretta porta attraverso cui può transitare il Messia”.
Bibliografia
- Shōbōgenzō, Opera cit., Kōmyō.
- Cleary, Thomas (a cura di), 1978: La raccolta della roccia blu. Ubaldini, Roma.
- Dōgen, 1969: Shōbōgenzō, Gyōji, in Dōgen zenji zenshū, Chikuma shobō, Tokyo.
- Hajime, Tanabe, 1959: “Todesdialektik”, in Festschrift. Martin Heidegger zum siebzisten Geburtstag. Neske, Pfüllingen.
- Heidegger, Martin, 1969: Zur Sache des Denkens. Niemeyer, Tübingen.
- Masao, Abe, 1975: “Non-Being and the Mu: the Metaphysical Nature of Negativity in the East and the West”, in Religious Studies, 2.
- Masao, Abe, 1986: “The problem of Time in Heidegger and Dōgen” in Alistair Kee, Eugene T. Long (edd.), Being and Truth: Essays in Honor of John Macquarie, SCM Press, London.
- Stcherbatsky, Th., 1993: Buddhist Logic, Motilal Banarsidass, Delhi, vol. I.
- Steffney, John, 1977: “Non-being-Being vs. the non-being of Being. Heidegger’s Ontological Difference with Zen Buddhism”, Eastern Buddhist, X, 2.
- Vianello, Giancarlo, 2001: “La ricezione di Heidegger in Giappone”, in Atti del XXV Convegno di studi sul Giappone, Venezia, 4-6 ottobre 2001.
*Giancarlo Vianello è uno studioso della Scuola di Kyōto. Sul tema ha pubblicato: ˝Mystique du néant e Śūnyatā selon la perspective de l’ École de Kyōto, Théologiques, Montréal, 2012; ˝Nihilism and Emptiness˝, in Confluences and Cross-Currents, R. Bouso, J. Heisig eds., Nanzan Institute for Religion and Culture, Nanzan, 2009; Messaggeri del nulla, Rubbettino, Catanzaro, 2006; La scuola di Kyōto, Rubbettino, Catanzaro, 1996.
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