> di Andrea Sergi*
UNDICI PAROLE – Seconda parte
Libertà
Libertà è muoversi e posarsi come si vuole. Solo per metafora si dice libera una cosa inanimata, come una bella pianta senza erbacce dattorno, o un ingranaggio ripulito e ben oliato, allo stesso modo in cui si dice viva una fiamma, o un rosso acceso. Propriamente, la libertà richiede un cervello, membra innervate, buona salute, un ambiente ospitale ed un sufficiente rispetto da parte degli altri. Assicurate tali condizioni, ognuno si muove secondo la sua corporeità, chi passeggiando o correndo, chi arrampicandosi sugli alberi, chi volando, chi nuotando, in silenzio o esprimendosi a suo modo; chi ha denti mastica, chi non li ha inghiotte, chi ha l’estro amoreggia; chi è stanco riposa e l’ozioso fa trascorrere il tempo, poi i due si scuotono e si affaccendano di nuovo. Tra i liberi del pianeta, quel che più differenzia l’uomo è la variabilità dei comportamenti, tale da segnare diverse epoche e da suddividerne la specie in un gran numero di tipi. Queste variazioni interessano anche il rispetto, e non vi è nulla che manifesti maggior disaccordo nel genere umano, anche restando nella medesima epoca, nazione, città e famiglia. Chi e che cosa, si tratti di uomo, donna, embrione, animale o qualunque altra, debba esser lasciata com’è, o si possa catturare, imprigionare, manipolare, distruggere, ed in che modo, può dividere non solo l’uomo moderno dall’antico, o quello europeo dal cinese, ma il padre dal figlio, il fratello dal fratello, mentre può far somigliare anime lontanissime per tempo e luogo. Non appena una parte viene a sapere dell’altra, questa discordanza produce effetti penosi e, con il livello attuale delle comunicazioni, il contrario è ormai limitato al rapporto fra il secolo presente ed il futuro. A tale inconveniente, le leggi, locali, statali, internazionali, sono sempre state il solo argine, ma non ce n’è un altro che venga sommerso tanto spesso, ed è sempre necessario aggiungere alle prime altre leggi, quelle che attengono alla loro trasgressione. Le divergenze mostrate dal confronto tra gli ordinamenti giuridici di diversi paesi, il fatto che un ordinamento in vigore sia al contempo in revisione, che le norme siano espresse senza spiegazioni e debolmente motivate dagli educatori, le violazioni impunite, quelle commesse da chi dovrebbe esserne garante: tutti disincentivi all’osservanza della legge, tutte cause di debolezza del rimedio.
Questo stato di cose rende desiderabile, attorno al rispetto, la massima affinità di pensiero e di sentimento fra gli uomini, per evoluzione e progresso delle coscienze, e necessario un impegno in tal senso. La legge dovrebbe avere una funzione quasi descrittiva, servire da promemoria, o da istruzione, se un nuovo dispositivo si afferma nell’uso. È logico, essendo ogni concetto in relazione con l’altro, che la somiglianza sia tanto maggiore in una parte quanto più si estenda a quelle ad essa collegate, e che tutte siano coinvolte nell’auspicio; la gratificante varietà delle cose sarebbe comunque garantita dalle innumerevoli differenze naturali e culturali compatibili con le esigenze della concordia. Per conseguenza alla mia esperienza di vita e di pensiero, vedo l’ideale nella seguente condotta: inviolabilità assoluta della persona, anima, corpo ed averi; cura dell’infanzia; riguardo per l’anziano; soccorso e sostegno a chi è colpito da malattia o sventura; particolare garbo dell’uomo verso la donna; possibilità di sopprimere il frutto del concepimento umano fino alla settima settimana di gestazione; possibilità di violare la vita animale per ragioni alimentari, mediche e difensive; impossibilità di allevare e sopprimere animali con metodi offensivi e dolorosi, impossibilità di ucciderli per diporto. Il rispetto per le cose inanimate appartiene a quello della persona, nella loro qualità di beni, pubblici o privati.
Differire troppo da questo paradigma è autodistruttivo, in modo diretto se la limitazione è significativamente maggiore, indiretto se minore. L’eccesso dà luogo ad un’austerità ascetica: più mi limito, maggiore è la libertà dell’altro, e di questo passo mi annichilisco. All’opposto, meno limiti per me, meno libertà per l’altro, ma, oltre il giusto limite, non si vede perché quello dovrebbe accettarlo: ne morirà, o mi si rivolterà contro, e non avrò nulla da guadagnarci, perché mi ritroverò più solo, o in lite, o punito, in una situazione comunque contraria alle mie reali esigenze. Una volta compreso, il miglior modo di far uso della nostra libertà sembra quasi ovvio, eppure è un traguardo difficile, spesso irraggiungibile. In questa difficoltà consiste il prezzo di essere uomini.
Pace
Nel primo atto del Coriolano di Shakespeare, così il protagonista, imbevuto di mos maiorum, esorta i soldati romani a seguirlo in battaglia contro i Volsci:
Se c’è qualcuno qui – e sarebbe peccato dubitarlo – cui piaccia questa tinta ond’io, vedete, sono imbrattato dalla testa ai piedi [il sangue]; se c’è qualcuno che ha meno paura di rischiare la vita che il suo nome, che pensa che una morte valorosa vale più d’una vita senza onore ( If any think brave death outweighs bad life); e che la patria val più che se stesso, egli solo, o quant’altri in mezzo a voi si trovino a pensarla come lui, levino in alto il lor gladio, così, per dir che sono pronti a seguir Marcio.
Si può star certi che se i Romani avessero prediletto lo starsene quieti, lavorare nei campi, pascolare, modellare vasi, senz’altra esigenza che soddisfare i più semplici bisogni quotidiani, ammazzando solo animali, per la carne o la pelliccia, sarebbero stati rapidamente invasi e sottomessi da qualcuno degli scorbutici vicini, o forse i vincitori della contesa tra Greci e Cartaginesi avrebbero prevalso su tutti; ma se anche questi, ed ogni altra popolazione del mondo fossero stati d’indole pacifica, modesti commerci i soli rapporti tra loro, e nessuno avesse trovato questa una bad life , è a dir poco difficile immaginare per quali vie la cultura odierna, a cui, per certi suoi aspetti, ben pochi rinunciano, avrebbe potuto iniziare il suo sviluppo. Com’è noto, questo rischio non fu minimamente corso: dopo seicento anni dominati dallo spirito bellico, Roma era una metropoli che per popolazione, cultura e libertà fu eguagliata e superata solo tra Otto e Novecento da Londra, Parigi, New York, Los Angeles. L’amore per la battaglia in nome della patria, il disprezzo per il pericolo e per il quieto vivere, insieme all’intelligenza tattica, era la forza che piegava chiunque si trovasse lungo la marcia dei conquistatori, compresi i popoli e le città più insigni; il meglio delle loro risorse, naturali e culturali, veniva concentrato nell’Urbe, che assurgeva così a massima fabbrica di civiltà e suo massimo esempio.
La necessaria rinuncia al centralismo e la diffusione del progresso in altri centri furono però insufficienti e tardive, a causa di un orgoglio smisurato; il colosso non poté più reggere il proprio stesso peso e fu il crollo. Seguirono secoli di cupa miseria in tutto l’Occidente, poi dalle macerie ricominciò a spuntare qualche virgulto, nuovi popoli, disposti a ricominciare da capo. Roma divenne una venerata memoria, e la storia si ripeté, anche se parzialmente: non si arrivò mai al duraturo predominio di uno su tutti, ma fu un lungo alternarsi di guerra e pace, di ostilità ed alleanze tra alcune potenze, governate da monarchie che la politica dinastica tendeva ad imparentare. Il precario equilibrio non impedì ai maggiori Stati di volgersi a guardar di nuovo fuori dai loro confini, anche a costo di attraversare gli oceani. Solo in Asia, anch’essa perenne teatro di guerre e sede di imperi, alcuni Paesi poterono mantenere la propria sovranità, mentre tutto il resto del mondo diventava dominio di Spagnoli, Portoghesi, Inglesi, Francesi, Russi, Olandesi, spesso in contesa fra loro per la spartizione dei territori. Dall’Africa furono deportate milioni di persone per faticare a suon di frusta in America, dove si formarono Stati che tra Settecento e Ottocento ottennero l’indipendenza ribellandosi ai Paesi d’origine, primi fra tutti gli Stati Uniti.
L’Europa arricchiva e progrediva, ma le ostilità tra le nazioni continuò, anzi assunse dimensioni mai viste prima. La prima guerra mondiale fu l’ultima a seguire le convenzioni militari, e a contrapporre schieramenti ideologicamente affini. L’ecatombe non ridusse le distanze tra i blocchi, che anzi si acuirono: Inghilterra e Francia continuarono sulla strada precedentemente iniziata, quella del liberalismo, consolidando l’intesa con gli Stati Uniti; in Russia si affermò il comunismo; Italia, Germania ed altri delusi si lasciarono trascinare da magniloquenti demagoghi, che promettevano il dominio del mondo in base ad un destino ineluttabile, grazie alla superiorità razziale che gli antichi splendori ed il rinnovato vigore, a loro detta, stavano a testimoniare. Si arrivò presto ad un nuovo scontro, in cui Stati liberali e Russia sovietica si trovarono provvisoriamente alleate contro l’offensiva dell’Asse, a cui si era associato anche il Giappone.
Nel secondo conflitto mondiale, “il movimento dei venti che preserva il mare dalla putredine”, secondo l’immagine della guerra dipinta a suo tempo da Hegel, fu un disastroso uragano e, visti gli effetti delle nuove bombe all’uranio o al plutonio, si rese poi evidente che le controversie tra le potenze mondiali, se non si potevano eliminare del tutto, dovevano almeno mantenersi entro stretti limiti, giacché un altro ciclone avrebbe sollevato onde tali da sommergere i continenti. Ottenuta la vittoria, l’eterogenea alleanza si era subito scissa, ed il mondo si presentava ora diviso in due da una linea spezzata che passava verticalmente per l’Europa. Le continue dispute tra Americani e Sovietici, le loro dimostrazioni di forza e gli interventi militari in numerosi Paesi del mondo, dove i due titanici nemici si contrapponevano indirettamente, crearono una tensione che durò per oltre quarant’anni, finché il sistema comunista implose, e le acque si chetarono. Divenne convinzione di tutte le persone responsabili che la guerra aveva esaurito qualunque funzione progressiva, e che le era rimasta solo una spaventosa potenzialità annientatrice: se anticamente era stata ignavia ripudiarla, ora sarebbe stata follia promuoverla. La competizione leale nei vari campi, economici, tecnici, scientifici, artistici e sportivi, avrebbe evitato sia il ristagno che i massacri. Eppure, la pace ebbe appena il tempo di una boccata d’aria.
Alcune antiche nazioni d’Asia, che allo scatto in avanti dell’Occidente erano rimaste escluse dal principale scenario storico, si erano allineate, come il Giappone, o si stavano sviluppando, la Cina in testa, grazie alla loro grande forza lavoro. Non così certe correnti arabe ultra-conservatrici e i loro affiliati, che approfittarono della tanto attesa distensione mondiale per dar corpo alla brama di riscossa. Gli Stati del Medio Oriente usciti dall’epoca del colonialismo e dei protettorati si mostravano refrattari al modello politico liberal democratico. Della ricchezza derivante dal petrolio si erano giovate poche famiglie, ma, a causa di un diabolico coacervo di precetti ed interessi, locali ed internazionali, gruppi di guerrafondai ottenevano continui finanziamenti. Le prime azioni armate erano state rivolte contro il nuovo Stato di Israele, ed agli Ebrei dovunque si trovassero, ma poi la sfida fu estesa all’intera categoria dei cosiddetti infedeli, interni ed esterni. Sul fronte occidentale, la strategia non poteva certo contemplare il classico scontro fra eserciti, vista l’enorme disparità di forze, per cui l’offensiva aveva la forma dell’attentato terroristico, spesso tramite emigrati o loro discendenti, cogliendo spesso impreparati i governi dei Paesi colpiti; altri bersagli furono le località nordafricane frequentate da turisti occidentali. Se per far strage, poi, si trattava di farsi esplodere, meglio ancora: era da veri martiri di Dio, il modo più sicuro per assicurarsi tutti i doni del Paradiso, tra cui una potenza sessuale inesauribile, da soddisfare con settantadue bellissime vergini, e la prenotazione di un posto nelle prime file per tutta la parentela. Certo, le vittime erano civili inermi, che stavano lavorando, divertendosi, vivendo la loro vita, ma questi erano vani scrupoli, che gli Occidentali stessi avevano lasciato cadere più volte. In patria, vasti territori furono strappati ai governi regolari, ed in essi fu instaurato un regime di terrore; le esecuzioni degli ostaggi servirono per raccapriccianti filmati, immessi nella rete telematica. Numerose vestigia romane ancora presenti nella zona, simbolo di una storia odiata, furono distrutte.
La distribuzione planetaria delle potenziali reclute, le divergenze interne e gli interessi commerciali in gioco resero poco efficace la risposta dell’alleanza più ampia d’ogni tempo, e la pace dovette nuovamente attendere. Essa richiedeva due fondamentali condizioni. In primo luogo, gli uomini, con le stesse qualità grazie a cui poterono creare meraviglie, la scienza, l’ingegno, il genio, la cooperazione, dovevano ottenere altrettanti successi nella salvaguardia dell’ambiente, convertendo in una direzione compatibile le tecnologie ed i comportamenti che stavano danneggiando gli elementi vitali del pianeta, altrimenti la lotta reazionaria avrebbe avuto una ragione a cui appigliarsi; altrettanto essenziale era che, tra i soggetti umani, si spegnessero i vecchi rancori ed il becero sentimento di reciproca estraneità, l’identificazione limitata al gruppo chiuso. Per questo, era indispensabile la massima convergenza di pensiero nel punto più evoluto.
Piacere
Il dipolo estetico, o scala bipolare del piacere e del dolore, è il lato della sensazione opposto a quello morfologico, e risponde, più o meno esattamente, ai diversi gradi di beneficio o di danno apportato al vivente sensibile da ciascuno degli enti che in ogni momento si trova in rapporto con lui: un luogo e quello che contiene, le altre persone e quello che dicono, uno stato del nostro organismo, il nostro agire, un nostro pensiero, la nostra immagine allo specchio. La sua espressione linguistica comune fa capo ad una serie di giudizi positivi o negativi, a volte interscambiabili, come quelli rivolti alle azioni umane, che si dicono sia buone che belle, o sia cattive che brutte; in ebraico, בוט (ṭôv), il giudizio dato da Dio alle cose che d’un tratto decise di creare, è traducibile sia con “buono” che con “bello”.
Circa l’effettiva rispondenza di valore estetico e valore oggettivo, essa non è sempre scontata. Certo, la singola, irrelata sensazione non può essere che positiva o negativa, ma, anzitutto, il positivo ed il negativo hanno vari gradi, o meglio, una continuità dal massimo al minimo, che dividiamo in segmenti per esigenze di misurazione; una sensazione in sé positiva il più delle volte lo è meno di un’altra, ma il soggetto può non saperlo, o non avere accesso all’oggetto di maggior valore, altrimenti non sceglierebbe certo l’inferiore. Se essa proviene da un’azione malvagia, le sue conseguenze possono ribaltarne l’esito: anche il vizio ed il crimine danno piacere a chi li pratica, ma è raro che non si ritorcano, presto o tardi, contro di loro; ogni soggetto umano è anche oggetto, e se, come oggetto, è negativo, viene combattuto. Vi sono giudizi diffusi che nel tempo passano in minoranza, come quelli riguardanti talenti ed opere inizialmente sottovalutati e poi acclamati ovunque, o che, al contrario, cadono nell’oblio dopo aver incontrato il favore generale. È dunque frequente che la corrispondenza assiologica di sensazione, condizione ed oggetto non si abbia prima del bilancio conclusivo, al termine di una serie di sensazioni contrastanti rispetto ad uno stesso oggetto; quanto più la serie si estende oltre il singolo individuo, l’età storica e l’area geografica, tanto più il giudizio si fa antropologicamente oggettivo. Se, con il tempo, le valenze complessive si stabilizzano, quest’oggettività si può dire raggiunta; ne sono un esempio le opere d’arte del passato, perlomeno fino a Warhol. Al contrario, dove permangono contrasti ed incongruenze, il bilancio non si può chiudere: è il caso di ciò che meno dipende dai sensi e più dal pensiero.
La positività della certezza va messa in relazione con la difficoltà del vero. Esser certi dell’ovvio, per esempio che due più due fa quattro, che d’estate fa caldo e che tutti dobbiamo morire, non è come esserlo riguardo al proprio destino, o alle questioni inerenti la religione, la filosofia, la politica: dove la verità è più sfuggente, la portata psicologica della certezza è maggiore, mentre la sua durata è meno garantita. Tuttavia, nel conflitto delle idee non vi è alcuna necessità naturale: i modi di pensare non sono congeniti come la disposizione degli organi, o il colore della pelle, e non è escluso che, per quanto riguarda certi dibattuti argomenti, non sia ancora giunto il tempo della stabilità valutativa. L’onesta propensione ad evitare di riporre la propria certezza su ipotesi che, per loro essenza, non possono essere né dimostrate né smentite, o che richiedono la rinuncia alla logica, come quelle riguardanti Dio e il dopo morte, era presente nel mondo antico, riapparve nel Rinascimento e da allora è lentamente cresciuta. Forse è questa la tendenza destinata a prevalere ma dipende da quanto più, rispetto al passato, gli uomini si sentiranno appagati durante la loro vita.
Pensare alla vita come mezzo per qualcosa che la trascenda è uno dei possibili rimedi al poco piacere di vivere; chi quest’altro scopo lo trova nella propria, potente immaginazione, diventa solitamente un leader nella classe dei dispiaciuti, poiché in essa lo trovano anche molti altri appartenenti. Viceversa, per chi quel piacere lo conosce nessuna immagine paradisiaca vale la più piccola manifestazione di vera vita: la vita non è lo strumento, ma lo scopo.
Ragione
Che l’uomo sia dotato di una qualità che si chiama ragione nessuno lo nega: sarebbe contraddittorio, visto che tale negazione richiederebbe almeno un minimo di ragionamento, e soprattutto annullerebbe distinzioni a cui gli uomini non rinunciano, se godono di un almeno minimo amor proprio; tuttavia, quanto all’estensione dei suoi diritti, tra gli individui ritroviamo il consueto disaccordo di vedute. La natura combinatoria e calcolante della ragione la rende in genere poco amata sia dagli animi angustiati che da quelli focosi, ma anche gli abitanti del giusto mezzo le antepongono spesso altre virtù, come il “cuore”, cioè il sentimento, e la fede. Nell’attuale cultura media, sembra prevalente l’idea che il ricorso alla ragione abbia importanza in tutti i campi della nella vita pratica, ma poco abbia a che vedere con le profondità e le altezze dell’esistenza verso cui certi “perché” chiedono di volgere lo sguardo. In questo, essa è in continuità col passato. La “verità” delle religioni, delle sette e delle dottrine esoteriche è una luce dalle scaturigini ultraterrene, senza cui la ragione umana non porterebbe buon frutto; così fu anche per molti tra i maggiori filosofi, inclusi Platone, Aristotele ed i razionalisti classici.
A testimonianza di una mentalità completamente diversa nell’antica Grecia non resta molto, causa la distruzione dei testi presto iniziata, e in alcuni casi bisogna rifarsi solamente alle citazioni di autori successivi. Di un Nôus o di un Lògos soprannaturale non vi è traccia presso gli atomisti; ciò non impedì loro di formulare la loro teoria, che fu in parte confermata scientificamente a distanza di ben ventitré secoli. Essa era anzitutto un’ipotesi intellettuale, di cui però i frammenti non ci restituiscono con sufficiente chiarezza il fondamento gnoseologico che la sosteneva. È fatale, in mancanza di una valida alternativa all’illuminazione divina, che gli avversari del dogmatismo si disinteressino alla sfuggente verità intelligibile. Ciò vale per tutti gli uomini e i popoli d’azione, come fu quello romano, ma è rappresentato anche da una lunga direttrice in filosofia, sempre che tale si possa ancora definire quando i suoi esponenti ne eliminino di netto la parte culminante. Tutto sta a quale decapitato la si voglia paragonare, la Nike di Samotracia, che anche senza la testa non perde l’essenza, oppure una persona giustiziata, nel qual caso bisognerebbe ricorrere ad un altro termine. In ogni caso, questa specie di filosofia acefala, in polemica con se stessa, o dispersa nelle varie scienze, prevale sin dalla metà dell’Ottocento, quando iniziò il distacco dei pensatori dall’idealismo, l’ultima filosofia integrale.
Lo spirito di ricerca della scienza, dal momento in cui si rese autonomo, occupa la posizione intermedia fra azione e speculazione. Per esso non conta né la verità in sé, né l’utilità immediata, ma solo le verità particolari; le eventuali conseguenze nei diversi campi della cultura non lo riguardano. L’interessante è quel che accade quando la ricerca, che è svolta dall’uomo, considera l’uomo stesso come un ente fra gli altri, non diversamente indagabile, fatti salvi i limiti etici alla sperimentazione. Anzitutto se ne evince una certa sistematica, secondo cui l’antropologia è parte di un’altra e più estesa scienza, la zoologia, a sua volta appartenente alla biologia. Questa si divide in branche, una per ogni aspetto comune a più specie viventi: biochimica, citologia, istologia, anatomia e via dicendo. Il campo si restringe con la neurologia, il cui oggetto è proprio solo delle specie animali, ed ancor più con la psicologia, limitata agli animali dotati di un sistema nervoso altamente encefalizzato; per il comportamento delle specie che vivono entro società complesse, la psicologia si volge in sociologia. L’antropologia è composta da tutte queste scienze, nella loro parte inerente l’uomo: anatomia umana, fisiologia umana, psicologia umana. Quest’ultima è dunque una piccola parte dell’insieme, eppure contiene un intero altro mondo, essendone oggetto il pensiero, insieme alla tecnica e alla storia: risalendo dal contenuto al contenente, tutto ciò è biologia, ancora oltre chimica, infine fisica. L’equilibrio dei sistemi permette alla ricerca di giungere alle sue conclusioni, ma l’infinità dell’essere e l’universalità del divenire la pongono in un perenne stato di proseguimento, che a volte diventa revisione. Ciò vale anche per la psicologia, non è però più il caso di avere dubbi quanto ai suoi protagonisti reconditi: sono i neuroni e le sinapsi. Sono loro i destinatari delle informazioni raccolte dai sensi, loro a conservarle, confrontarle, trarne concetti, ipotesi, fantasie, a produrre a propria volta sensazioni interiori e a trasmettere comandi. Se chiamiamo ragione l’attività comparativa e generatrice di pensiero e di azione di queste cellule evolute, oltre ad essere etimologicamente corretti, aggiorniamo una tradizione veneranda; la stessa continuità è garantita da termini quali fenomeno, concetto, immaginazione, rappresentazione e verità. Quel che conta è che, nell’impiegarli, si abbia la stessa consapevolezza che abbiamo assistendo alla proiezione di un film, ad una trasmissione televisiva o utilizzando un computer di non essere di fronte ad una magia, ma solo alle mirabili conseguenze di processi fisici e chimici, nel nostro caso anche biologici.
Se, sul versante dell’utile, le conseguenze della scienza sperimentale vengono tratte con fin troppa sollecitudine, non si può dire altrettanto su quello delle grandi domande. È ben difficile trovare al mondo chi rifiuti per qualche principio l’ausilio dei mezzi tecnici sempre nuovi approntati dall’industria, mentre adeguare la coscienza alle scoperte scientifiche sembra costare molto, e sia la tendenza alla credulità che il pragmatismo agnostico restano un po’ ovunque prevalenti. Si tratta però di acquisizioni ancora fresche ed incomplete, e con il tempo forse cadranno le resistenze che, a seconda dell’appartenenza agli “spirituali” od ai “pragmatici”, mostrano due diverse motivazioni principali. Ai primi, identificare l’essenza umana con un ammasso di cellule pare incredibile ed avvilente; che ciò sia offensivo nei confronti delle cellule non li sfiora affatto, ma bisognerebbe chiedersi se sia la scienza ad essere miope, o se piuttosto siamo noi a non saper mettere a fuoco lo sguardo sulla natura, a meravigliarci troppo, o troppo poco dei suoi fenomeni. Quanto al pragmatico di ferro, una volta ricevuta l’informazione, se escludesse sia che gli giovi, sia che gli nuoccia, non ne sarebbe per nulla condizionato; si tratterebbe però di una valutazione affrettata. Proprio dalla visione scientifica di se stesso l’uomo può desumere la gnoseologia antidogmatica che, pur fra notevoli precorrimenti, gli è sempre mancata, e senza cui la frammentazione della società nella miriade di chiese, congreghe ed individui chiusi nel proprio io in cui ancora si presenta è irrimediabile. Lasciata evolversi la scienza e raccolti i suoi risultati, la filosofia può tornare a svolgere la fondamentale funzione di coordinamento del sapere nella visione d’insieme della realtà in cui siamo.
Verità
Non sempre sulla verità vien detta la verità. Chi afferma che essa non esista, pensa comunque di dirla, incrementando la serie dei paradossi logici; lo stesso vale per chi nega l’esistenza della verità assoluta, vista l’assolutezza a cui è costretto a ricorrere. Secondo un altro argomento, non vi sarebbe problema a parlare di cose vere e non vere solo per la matematica e per le ovvietà, quel che tutti vediamo e tocchiamo, ma appena si cerca di andare oltre non rimarrebbe che una pletora di opinioni. Molti altri ammettono la verità trascendente, e sostengono che la si raggiunga per fede: secondo costoro, quando si tratta di certe asserzioni e di certi racconti, credere e sapere diventano la stessa cosa. Io non mi riconosco in nessuna di queste posizioni, e ne pongo un’altra, secondo cui c’è una verità empirica determinata e c’è una verità trascendente indeterminata, con un passaggio intermedio.
Partiamo dallo scetticismo perfetto, quello che fa dire che non sappiamo nulla, crediamo soltanto: non vedo e non sento questo o quello, io non sono io, che sia così lo credo, ma non ne ho prova. Eppure vi sarà una differenza tra ciò che, nella mia mente, può essere confermato da chiunque altro e ciò che non può esserlo; per non cambiar termini, dovrò ammettere almeno due livelli, nel credere; due piani, che non possono essere denotati con lo stesso termine, e che, per giunta, sono a loro volta suddivisi.
Immaginiamo, ad esempio, che durante una tranquilla conversazione si parli del duomo di Siena, e che in tale occasione io dica convintamente le seguenti cose:
1: «La facciata ha tre portali»
2: «È un meraviglioso complesso»;
3: «Sabato prossimo vado a Siena e torno a visitarlo»;
4: «Ha un tipico rosone a raggiera in facciata».
Nel frattempo, uno dei presenti naviga in internet e, dopo che ho parlato, trova le immagini relative all’argomento, grazie alle quali conferma le mie prime due affermazioni e smentisce l’ultima, mostrando che l’oculo non ha una raggiera, ma una vetrata a riquadri: dico che mi ero confuso con il duomo di Orvieto, dalla facciata simile. Un terzo partecipante, di nome Teo, si dichiara poco entusiasta e dice di prediligere l’ascetica sobrietà delle chiese romaniche, ad esempio le cattedrali di Trani e Bitonto. Riguardo al mio progetto per il fine settimana, nessuno ha qualcosa da aggiungere. Le differenze fra le quattro affermazioni sono tali da richiedere definizioni diverse: diremo che la prima è una verità indiscutibile, che la seconda è vera in riferimento alle valutazioni della schiacciante maggioranza, che la terza è un’ipotesi in attesa di verifica, e che la quarta, a causa di una sostituzione mnemonica tra oggetti similari, è falsa; aggiungiamo che nei primi due casi prevale il sapere, negli altri due il credere.
Le differenze fra le quattro affermazioni fanno capo all’immaginazione. Alla prima, essa non ha contribuito in alcun modo: è puramente frutto di percezione, memoria, ragione (confronto dei dati) e del sistema linguistico. L’immaginazione è invece presente nel secondo caso, avendo io parlato come se chiunque al mondo, di fronte a quel complesso d’arte, non potesse che provare le mie stesse sensazioni di piacere, da me racchiuse nella parola “meraviglioso”. Le parole di Teo mi riportano a ciò che avevo trascurato, cioè al fatto che il valore delle sensazioni può variare notevolmente da un individuo all’altro; ciononostante, non ho alcun motivo di pentirmene, poiché quanto non avevo considerato non toglie che il mio piacere sia genuino e condiviso in larghissima misura.
Dove l’immaginazione balza al comando è nella terza frase. Nell’italiano colloquiale è comune esprimersi al presente in riferimento ad un futuro vicino, tuttavia sempre di futuro si tratta: a rigore, non ne sappiamo nulla, ma in proporzione alla probabilità da noi calcolata, spesso senza rendercene conto, crediamo, speriamo, progettiamo la nostra vita nei limiti del possibile, senza troppo pensarci. Il nostro è un semplice esempio di ipotesi progettuale: in casi del genere, di verità o di non verità si può parlare solo cambiando espressione, cioè abbandonando la forma spontanea per passare all’esatta descrizione. La proposizione vera sarebbe dunque stata: “Ho intenzione di andare a Siena sabato prossimo, e di rivedere il duomo”. Qui l’oggetto in questione non si trova nella rete telematica come le varie parti e la storia della cattedrale senese; esso è interno alla mia mente, solo io so se quel che dico è vero o falso, a meno che il mio tono sia tanto fiacco o artificioso da rendere evidente che non sono sincero. D’altra parte, anche se mostrassi piena convinzione, ma fossi insospettabilmente disposto al delitto, potrei essere intenzionato a far credere che io mi trovi lontano dalla mia città nel giorno che ho scelto per eliminare fisicamente un mio vicino di casa. Senza l’immaginazione, tutto ciò sarebbe impossibile.
A quel che chiamiamo verità, ipotesi, errore, falsità delle parole sottostanno distinti processi semiotici. Ognuna di esse è segno di un certo contenuto psichico, segno decifrabile da chi possiede il codice a cui esso appartiene, ovvero la lingua con cui ci si esprime. L’espressione è finalizzata alla comunicazione, cioè ad immettere nella psiche altrui un proprio contenuto psichico. Se questo contenuto è a sua volta un segno, una traccia impressa da un oggetto, il processo avviene all’insegna della verità: la traccia è qui il referente intermedio della parola, mentre l’oggetto, che può essere esterno od interno alla mente stessa, è il referente finale. A rigore, due frasi come «Cortona è in Toscana» ed un sincero «credo che Cortona sia in Umbria» sono ambedue vere, la prima in quanto il referente intermedio è traccia di un oggetto esterno, la città in questione, la seconda perché si riferisce ad un oggetto intrapsichico: è vero che io credo questo, bene o male che io faccia. Se invece quel che cerco di immettere non è traccia di alcun oggetto, sono fuori dal sistema della verità; ciò può avvenire per intenzione o per errore. Torniamo all’esempio precedente. La mia terza frase comunica un’ipotesi del tutto plausibile, ed è vera se ho realmente intenzione di partire quel giorno per quella destinazione, mentre se a pronunciarla è il mio alter ego malintenzionato si aggiunge un secondo atto interno che la rende falsa. Nella mia mente, ormai sfuggita alle briglie della legalità, vi sono due fatti immaginari, tra loro incompatibili: primo per nascita è l’omicidio del mio odiato vicino, nei tempi e modi da me decisi, secondo è il mio viaggio a Siena nello stesso giorno, e durante la conversazione tengo nascosta la mia autentica ipotesi progettuale, indicando come tale una mera simulazione. Consapevole che il diritto di compiere l’atto cruento non mi verrebbe riconosciuto dai più, soprattutto non dall’istituzione giudiziaria, cerco così di prevenire l’ostacolo. L’insincerità muove dalla disgiunzione volontaria della parola dal saputo e dal voluto, operazione per la quale non serve molta arte: i bambini, solitamente, la apprendono di seguito alla madrelingua. Molto più ostico è disimpararla, e lasciare che lo scambio abbia luogo solo nello scherzo e nel mestiere dell’attore, cioè dov’è riconoscibile e catartico.
Ma usciamo dalle brume dei cattivi propositi. Con la mia quarta affermazione, nell’inganno sono caduto io per primo: il referente del segno verbale, il duomo di Siena con il rosone di quello orvietano, è esistito solo nell’immaginazione mia e di chi per breve tempo mi abbia creduto, e la disgiunzione tra parola e traccia mentale, che in questo caso era il credere o l’ignorare qualcosa circa un certo oculo, è stata involontaria. I punti deboli della ragione sono legati alla somiglianza, che sulle prime può essere scambiata per identità, ed alla norma, che tende a farci trascurare le eccezioni. L’errore è sempre sgradevole, ma entro questa misura non costituisce certo una seria minaccia. Un supplemento di attenzione, attitudine in cui ha radice la scienza, rimedia facilmente al danno.
Al di fuori delle compagini immaginative, tanto diverse per motivazione, resta dunque ciò che propriamente chiamiamo verità e sapere, anche quando non riguardi la pietra scolpita o la geografia, ma ogni possibile oggetto dell’universo. Sarebbe però fuorviante porre l’immaginazione in perenne antitesi con la verità, non solo e non tanto per la parte delle sue previsioni che trovano conferma. Se cose invisibili e trascendenti sono testimoniate da quelle visibili e tangibili, l’immaginazione, nel figurarsele, serve il vero nel suo procedere oltre l’immediato, finché si attiene strettamente alla maggior similitudine. Di questo genere sono anzitutto entità quali l’atomo, i quark, gli antichi Egizi, l’australopiteco, i dinosauri e i dinocefali: nessuno tra i nati negli ultimi tempi li ha mai visti, tuttavia della loro esistenza, presente o passata, vi sono prove indubitabili.
Vi è poi altro, di cui sappiamo molto meno, ma di cui ben maggiore è il segno, valendo come tale non una particolare classe di oggetti, quali fenomeni fisici, documenti o fossili, bensì tutto ciò che cade sotto i nostri sensi; una parola le collega per noi l’una all’altra, ed è infinito. Per addizione e per sottrazione, di spazio e di tempo, esso si mostra quadruplice. Al di là di tutte le galassie, dentro i fermioni e i bosoni, prima del prima, dopo il dopo, la ragione impedisce che si ponga il nulla, perché il nulla impedisce l’essere: ma l’essere si pone, “è”, diceva Parmenide, anche solo per la parola che lo nomina, o per l’illusione ed il sogno. Se sogno fosse l’universo, una galassia, rispetto al sognatore, potrebbe avere le proporzioni della cellula rispetto all’uomo. Vi sarà un risveglio, o è un sonno eterno? E il dormiente è incommensurabile come l’intero spazio, o in relazione al suo mondo sembra piccolo a propria volta? L’immaginazione torna libera, il possibile riprende il suo posto, ma più si spinge avanti, più diventa gioco fantastico, seppure persino tra gli scienziati sia non di rado tenuto per cosa seria, quand’è tanto suadente da farsi religione. Ogni nuova scoperta o giusta previsione della fisica non è che un gradino sormontato di una scala infinita, e ciò sembra procurare vergogna e smarrimento. Sarebbe bene smentirne la fondatezza, anziché cercare di dar volto e nome all’inconoscibile. Si accetti il trascendente indeterminato come verità ultima, perenne, e l’equidistanza dagli opposti eccessi della scepsi e della fede stabilirà nell’animo una piacevole tranquillità, con una certa indifferenza riguardo alle condizioni concrete della propria persona.
Vita
Tra le caratteristiche macroscopiche dell’essere vivente va posta anzitutto la nascita per riproduzione. Ogni ente nasce per trasformazione integrale, negazione di un altro, e per il vivente è lo stesso, ma ciò che qui si trasforma è una parte inessenziale di un suo simile, il quale, dunque, nel generare non nega se stesso. Nella riproduzione degli organismi più semplici, batteri e protozoi, questa parte è assai cospicua, tanto da sembrare dimezzamento; tuttavia, non intervenendo alcun agente terzo e non comportando significative modificazioni nel genitore, quel che avviene è in realtà una scissione spontanea. Maggior complessità è tutt’uno con minor dimensione dell’elemento generante, ancora nella riproduzione agamica dei coralli, delle attinie, dei lieviti e di certi vegetali, per gemme o frammenti, poi in quella sessuata, che richiede l’incontro di due parti, i gameti, che in esso si unificano trasformandosi nel primo dei vari stadi attraversati dal nuovo individuo. Nelle specie dimorfe e polimorfe la somiglianza perfetta dell’individuo nello stadio definitivo è ovviamente in rapporto con una soltanto delle forme in cui è suddivisa la specie, mentre la difformità dovuta al fenomeno della mutazione genetica è la remota origine della specie stessa.
Altra vistosa caratteristica del vivente è la sua particolare corporeità, il suo introdurre la tenerezza umorosa nello scenario dell’universo. Solo per alcune funzioni, quali protezione, sostegno, masticazione, una parte dell’individuo si fa in molte specie inerte nel corso della crescita, divenendo durame, guscio, carapace, scheletro, e permane molto al di là del suo scopo originario, quale residuo e segno di una vita conclusa. Niente è infatti più fragile di tale materia, ed ecco un terzo aspetto, l’alto stato di necessità, le condizioni relativamente infrequenti e poco durevoli. La Terra certo ne abbonda, ma anch’essa ha i suoi deserti, e catastrofi epocali; sopra i seimila metri di quota, poi, sui monti e nell’aria, tali condizioni cessano anche per per gli organismi più coriacei, e non si ripresentano in alcun luogo che la percezione umana abbia ad oggi raggiunto, prolungata dagli occhi dei telescopi e delle sonde spaziali. Più è evoluta, più la vita esige limiti di temperatura, di radiazione, di pressione atmosferica, di qualità dell’acqua, dell’aria, dei nutrienti. La tecnica umana, in molti modi, crea artificialmente le condizioni mancanti, ad esempio con il riscaldamento, la pressurizzazione, la disinfezione, con guadagno di spazio e di tempo, ma può sfuggire di mano, farsi controproducente, perfino aggiungersi alle altre cause di dolore e morte. A rendere precaria l’esistenza di innumerevoli individui vi è infine l’eterotrofia di molte specie, che fa di ognuno un potenziale nutrimento per un altro. La rarità è preziosa in sé, per questo lo è la vita, e sommamente al suo vertice evolutivo.
Un grande salto, nella filogenesi, è segnato dall’anima, la trasmissione di movimento alle parti del corpo tramite gli impulsi elettrici che percorrono la rete nervosa, in base agli stimoli ricevuti dall’esterno grazie agli organi sensoriali. I sistemi diffusi, poco differenziati degli cnidari e dei platelminti ne costituiscono l’esempio primordiale, la centralizzazione encefalica della raccolta e della gestione delle informazioni, tipica dei vertebrati, quello più compiuto. Apice dell’anima e della vita è l’essere cosciente. Anche la coscienza, cioè la rappresentazione del mondo, e di sé in esso, evolve: al livello basilare appare già in diversi animali, il cui comportamento, in natura ed in fase sperimentale, manifesta ragionamenti adattativi elementari, appresi o propri, e progetti nell’immediato, possibili solo in virtù di concetti di luoghi, spesso molto estesi, e di altre entità individuali, compreso un iniziale concetto di sé. Nelle piccole società umane primitive si manifestò una cultura utilitaristica, religiosa ed artistica del tutto preclusa all’animale, ma non già lo spirito di ricerca e di conquista che, a cominciare dalle epoche iniziali della Storia, portò alla straordinaria affermazione della nostra specie. L’evento, proprio per la sua eccezionale entità, non si è però compiuto senza forti incongruenze tra i soggetti, i popoli e i singoli individui: da una parte i più adeguati, innovatori, intrepidi e finanche aggressivi, dall’altra i più titubanti, torpidi, facili all’errore, con vari gradi intermedi. Ne procedettero stirpi diseguali; nei secoli, molte delle più nobili decaddero, e dalle plebee nacquero virgulti dal fulgido destino, ma l’immutata volontà di avanzare nell’inesplorato, di attuare tutto il progresso possibile, ha portato al continuo replicarsi della configurazione contraddittoria: nuovi successi e più libertà, insieme ad altra inadeguatezza, e a fallimenti ancor più penosi. Una valutazione dei periodi storici la cui conclusione sia che l’umanità, nel suo insieme, goda oggi di più felicità rispetto al passato, in termini assoluti, resta improponibile. Tra i pro ed i contro apportati dai cambiamenti socioculturali, ci si potrebbe accontentare dell’equivalenza, ma in tanti che siamo, è presumibile ed augurabile che nascano buone idee anche per un progresso senza controindicazioni.
*Andrea Sergi, nato a Parma nel 1963, dopo essersi laureato al DAMS di Bologna con una tesi sul rapporto tra arte popolare e arte intellettuale, si è occupato per lungo tempo di arti visive, come insegnante, fumettista, pittore e restauratore. Si è parallelamente dedicato alla poesia, pubblicando Ipnagogia celeste (Perugia, 1996), nonché ad opere di carattere filosofico.
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