È possibile oggigiorno pensare ciò che ci circonda e ci interpella, senza cedere a infingimenti o a sterili etichette? Si può in un qualche modo osare di più, nel tentativo di renderci meno alieno questo complesso presente? Di certo Ivano Dionigi nel suo Osa sapere. Contro la paura e l’ignoranza (Solferino, Milano 2019) non solo ne accerta l’eventualità, ma ne dimostra soprattutto l’impellente occorrenza. A fronte delle sfide che il nostro tempo ci impone si rivela sempre più necessario «abitare la domanda», senza accontentarsi di frequentare fugaci e superficiali opinioni. Aprirsi finalmente ai «perché interrogativi» (p. 13) significa non solo nutrire una curiositas rivolta a ciò che è vero (e non solo verso ciò che appare ovvio), ma anche prospettare la retta condizione sotto cui germogli il sapere: non c’è vera risposta che non derivi da un interrogativo posto correttamente.
L’intero itinerario dell’ultimo libro di Ivano Dionigi procede alla luce di questa considerazione polare, che può rischiarare quel vivido incedere del pensiero che non teme di arrischiarsi intorno a questioni dirimenti e diversificate: la rivoluzione sociale, digitale e tecnologica; le migrazioni di popoli; l’uso e l’abuso del linguaggio corrente; l’ambito e le impotenze della politica odierna; l’urgenza di un «umanesimo» che sappia pensare le sfide in cui siamo coinvolti; e infine il ruolo dell’Università e del mondo della scuola. Dimensioni e dinamiche che irrimediabilmente si intrecciano a informare la crisi del nostro tempo. «È tempo di ascoltare, per dirla con Agostino, “il grido del pensiero” (clamor cogitationis)» (p. 65) e tentare di sviluppare un pensare che, sulla scorta del noto e delle opportune problematizzazioni, si affacci sul presente senza ignorare il divenire futuro. Occorre, in altri termini, un pensare lungo che non si faccia vincere dalle brame dell’«autofagismo mediatico» (p. 41).
Perché se «i tempi spiegano», per esempio, «le tecnologie, l’umanesimo spiega i tempi» (p. 69) esercitando il dubbio e l’interrogazione. Soltanto alimentando un atteggiamento di questo genere si riuscirà finalmente a risalire alle radici dei problemi.
Se prendessimo infatti in seria considerazione l’ineluttabile questione migratoria, ricordando la grande lezione relativa ad accoglienza e inclusione civile sotto un’unica lex condivisa (in chiave di concessione della cittadinanza) fornita dai Romani – sottolinea l’Autore –, difficilmente ci accontenteremmo oggi della spicciola vulgata popolare attraverso cui quotidianamente le interrogazioni su questo fatto epocale e millenario vengono disattese o, peggio ancora, ridicolizzate. Allo stesso modo se prestassimo la dovuta attenzione al linguaggio che parliamo – e da cui troppo spesso risultiamo invece parlati –, non solo non daremmo certo voce al falso mito delle «due culture», secondo cui l’unica ed efficiente cultura meritevole di continuazione futura (e di investimenti) sarebbe quella tecno-scientifica, bensì intenderemmo inoltre la stringente differenza tra «tecnocrazia» e «tecnologia», ravvisando, secondo l’etimo delle parole, nell’una l’incontrollato «strapotere» dell’impianto tecno-scientifico e nell’altra quel «felice connubio» tra téchne e lógos volto a nutrire invece quantomeno la pretesa di rendere ragione di sé.
Sapere aude! dunque, per vincere il totalitarismo sinergico di paura e ignoranza: per renderci cittadini consapevoli del nostro tempo.