Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

La coscienza infelice. Il complottismo come patologia del dissenso

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1. Complottismo e paranoia

Negli ultimi mesi i quotidiani hanno dato un peso significativo alle manifestazioni, svoltesi in tutta Italia, per denunciare la gestione dell’emergenza sanitaria, specie rispetto al tema vaccini. Protagonista di queste manifestazioni è l’ormai onnipresente figura del “complottista”, uomo dai mille sospetti, in preda a un’inquietudine civile pronta a riempire le piazze. Può essere dunque interessante valutare la fenomenologia di questo personaggio controverso, destinato, a quanto pare, ad avere un ruolo di prim’ordine nel panorama politico contemporaneo.

Con la parola “complottista” – che ha una sua storia, qui impossibile da trattare – si vuole anzitutto indicare il vasto panorama della cultura popolare dedita alla speculazione fantascientifica e fantapolitica. Il termine indica colui osserva le verità ufficiali come il camuffamento di progetti invisibili, spesso finalizzati al controllo politico e sociale. Il mondo, per il complottista, sarebbe popolato di trame sfuggenti e ostili, fantasmi persecutori, pericolose (e occulte) autorità sadiche.

Non si può negare un certo uso degradante del termine “complottista”, volto a squalificare chi viene così catalogato. Il complottista – si ritiene – è un uomo diffidente e sospettoso che, incapace di mantenere un contatto con la realtà condivisa, s’inventa nemici contro cui non può combattere e congiure di cui sarebbe vittima. Per il complottista tutto sarebbe ambiguo e pervaso di mistero.

Una simile descrizione, se accettata, suggerisce la presenza di una certa componente paranoide nel complottismo; la tendenza, cioè, «a proiettare sugli altri le qualità personali considerate negative: gli attributi non riconosciuti come propri vengono percepiti come minacce esterne» (McWilliams 2012, p. 246). In effetti, la descrizione che la psicoanalisi ci offre della psicologia paranoide è curiosamente vicina a quella che abbiamo dato del complottista. Una personalità, in altre parole, anzitutto dominata dai processi difensivi della proiezione, cioè del trasferimento all’esterno di contenuti di carattere negativo, e del diniego, ossia dal rifiuto di riconoscere elementi disturbanti, in questo caso di ammettere in se stessi proprio quanto viene proiettato (cfr. ivi, p. 250).

Non è mia intenzione banalizzare il fenomeno del complottismo. Né ridurlo a un circostanziale fenomeno di psicologia delle masse. Il fatto che, come constata McWilliams, l’autostima degli individui paranoidi sia organizzata intorno all’esercizio «efficace di potere contro le autorità e le altre persone importanti» (ivi, p. 257), può portare certamente a domandarsi se non vi sia, nelle sottoculture complottiste, un certo tentativo analogo di mantenimento di un’identità percepita come umiliata e sopraffatta; ma quale sia questa identità lacerata, perché sia diffusa una simile “coscienza infelice”, questo può indicarlo solo la dialettica della storia.

Nei seguenti paragrafi proporrò una lettura, senz’altro per molti aspetti parziale e integrabile, dell’origine di questa “coscienza infelice”. Intendo ipotizzare come, anzitutto, alla base del complottismo si debba ricercare l’impoverimento delle masse europee dopo la fine delle grandi lotte socialiste, fondate su una forte filosofia della storia e su una lettura economica della realtà. A mio avviso, infatti, solo un’adeguata considerazione sulla genesi della rabbia di queste fasce socioeconomiche – rabbia per nulla ascoltata, ma, al contrario moralizzata e colpevolizzata per le sue becere manifestazioni populiste – può contribuire a comprendere il trasferimento dell’aggressività negata sul “Grande Nemico”, sia esso un Bill Gates o un George Soros.

Sostituendo alla lotta di classe conflitti alimentati da fantasie paranoidi, il complottismo ha distolto, così, l’attenzione dalla macelleria sociale generata dalle contraddizioni del sistema capitalistico globalizzato. La forza-lavoro, sgretolata in atomi volanti gonfi di disagio, ha scoperto di poter recuperare una qualche identità collettiva, una qualche “coscienza”, solo nella paura di un’autorità sadica e occulta. Per farlo, ha ritenuto di non aver più bisogno di un’analisi economica dei fatti, della demistificazione filosofica con cui osservare la storia; bastava supporre di riuscire a leggere, dietro le narrazioni dei media, significati celati e minacciosi, obiettivi ostili, violenze impercettibili e misteriose. Sospiro di una creatura oppressa, il complottismo ha così contribuito a creare nuove condizioni di alienazione.

2. La globalizzazione come capitalismo assoluto

Parto da lontano, ma solo per dare un contesto più ampio al quadro che intendo rappresentare – e il passaggio alla situazione attuale sarà rapido e diretto.

Fra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento i navigatori europei intrapresero viaggi esplorativi con l’obiettivo di commerciare con l’Asia. Questi viaggi condussero alla scoperta di nuove terre che vennero presto conquistate. Fra il 1492 e il 1892 gli europei colonizzarono il Nord e il Sud America, circumnavigando il continente e attraversando l’Oceano Pacifico fino alle Filippine. Colonizzarono così l’Australia e la Nuova Zelanda, mentre varie zone dell’Africa venivano occupate. Presto l’India ad altre parti dell’Asia divennero dominio europeo. Cina e Giappone furono costretti a stringere relazioni commerciali dettate dalle forze d’Occidente (v. Goldstone 2010, pp. 82-83).

L’idea che il pianeta fosse alla vigilia di diventare un unico grande mercato era pertanto chiara nel diciannovesimo secolo. Già Marx ed Engels segnalavano come il bisogno di sbocchi sempre più estesi spingesse la borghesia a stabilirsi dappertutto, dappertutto stringendo relazioni e facendosi sempre di più cosmopolita. Con gran dispiacere dei reazionari, l’accentramento del capitale – scrivevano i due intellettuali – aveva irrimediabilmente tolto «all’industria la base nazionale. Le antichissime industrie nazionali […] vengono soppiantate da nuove industrie […] che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo» (Marx, Engels 1964, p. 61). Era l’anticamera della globalizzazione:

«In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni Paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, un universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra. E come nella produzione materiale, così anche nella produzione spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune. La unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano sempre di più impossibili» (ivi, p. 62).

Questo processo si è notevolmente accentuato con le due Guerre Mondiali. La Prima Guerra Mondiale, come intuì acutamente Antonio Gramsci nel 1920, doveva, con la Lega delle Nazioni e la Pace di Versailles, sostituire a un sistema socioeconomico di equilibri fra Stati l’incontrastata egemonia del capitalismo (cfr. Gramsci 1967, p. 349). L’avvento della Russia sovietica e del nazional-socialismo ha infranto questo obiettivo egemonico, riproponendo un conflitto che ha portato alla vittoria dei due grandi internazionalismi (capitalismo e comunismo) e al progressivo avvento – dopo la caduta del muro di Berlino – del capitalismo assoluto, privo di alternative. Queste trasformazioni storiche hanno implicato, lungo tutto il Novecento, una riorganizzazione delle stesse società occidentali. Scrive Gustavo Zagrebelsky al riguardo:

«Soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo scorso, le risorse dello Stato si compongono in misura crescente di denaro esterno al prelievo fiscale, provenienti dal mondo finanziario che le alimenta acquisendo debito pubblico. Da ciò è iniziato un processo di alterazione dei paradigmi politici tradizionali, costruiti sul presupposto dello Stato quale detentore del potere supremo, cioè della sovranità. La sovranità statale, invero, da tempo subisce profondi processi di corrosione e limitazione a favore di centri di potere interni ed esterni» (Zagrebelsky 2014, p. 10).

Nel 1975 i Paesi del G6, riuniti per la prima volta a Rambouillet in Francia, hanno intrapreso un percorso finalizzato a “liquefare” – se si accetta la metafora del sociologo polacco Zygmunt Bauman – le vecchie società monolitiche per mezzo della liberalizzazione dei capitali e dei processi di privatizzazione (v. Castagnetti 2006, p. 528).

Essenziale a questo riguardo è stato il ruolo dell’Inghilterra e degli Stati Uniti. Secondo Michael Albert il capitalismo si sarebbe radicato su scala globale in tre diverse fasi. La prima fase sarebbe avvenuta negli anni Ottanta, con la “rivoluzione conservatrice” delle due maggiori forze capitaliste uscite vittoriose dalla Seconda Guerra Mondiale: gli USA, guidati da Ronald Reagan, e l’Inghilterra, guidata da Marghareth Thatcher. In questa prima fase si sarebbe affermata l’idea dello “Stato minimo” e del principio secondo cui la crescita sarebbe direttamente proporzionale alla sottrazione delle tasse presso i ricchi, i soli capaci di investire. La seconda fase si sarebbe poi verificata con il crollo del muro di Berlino e il collasso dell’Unione Sovietica; la terza, infine, sarebbe più recente, e si definirebbe nell’esportazione della democrazia nel Medio Oriente attraverso la lotta contro i regimi che combinano statalismo e fondamentalismo religioso (v. ivi, p. 336).

Questa progressiva uniformazione del pianeta al capitalismo ha ribaltato il modello che Marx prospettava per i proletari: a unirsi non sono stati i lavoratori, sempre più precarizzati e divisi, ma i proprietari dei mezzi di produzione di beni e servizi (cfr. Augé 2014, p. 92). Tutto ciò ha determinato profonde modifiche anche nell’assetto delle nostre società, fino ad allora centrate sull’idea della sovranità dello Stato. Il capitalismo globale ha infatti creato una classe egemonica e sovranazionale di centri privati, con il conseguente spostamento del potere dall’ambito della politica a quello dell’economia. Una progressiva gestione della cosa pubblica che, come scrive Zagrebelsky, si è esercitata, e continua a esercitarsi, grazie alla «pressione delle esigenze della finanza sulla stessa forma di governo democratica» (Zagrebelsky 2014, p. 13).

3. La parabola del populismo

Dopo una prima sbornia per questo nuovo assetto geopolitico (di cui il manifesto è La fine della storia di Fracis Fukuyama), il livore delle classi lavoratrici si è riacceso e, talvolta, ha spinto a occupare le piazze.

La globalizzazione, infatti, non ha colpito tutti alla stessa maniera. Le fasce civili più agiate, maggiormente integrate con l’apparato sociale ed economico, si sono scoperte concilianti, fiduciose ed equilibrate nonostante tutte le trasformazioni in cui il mondo stava incorrendo. Ma gli altri, gli appartenenti alle categorie più deboli, meno dotati di strumenti (anche culturali) con cui dare senso a questi cambiamenti, con la fine delle grandi narrazioni di matrice socialista hanno perso la possibilità di incanalare il loro malcontento in una lotta guidata da idee, orientata da una lettura economica della realtà. L’epoca del materialismo storico era finita. Doveva nascere qualcosa di nuovo.

Questa aspirazione alla novità, in Italia e altrove, ha preso la forma del populismo. Così scrive Pier Giorgio Ardeni nel suo recente Le radici del populismo:

«Ci sono almeno due ragioni del perché il populismo è esploso ed è ancora con noi. Il primo è che ad alimentarlo non bastano il rancore e la rivolta contro la “casta” e le élites dei governanti, contro la partitocrazia, la corruzione del potere, in nome del popolo sovrano. Queste si sarebbero potute esprimere già nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica […]. La ragione che spinge il vento del populismo è più profonda e sta nella rabbia sociale inespressa del popolo dei non garantiti, dei marginalizzati, dei “perdenti della globalizzazione” e nello scivolamento verso il basso della classe media; nell’acuirsi delle distanze tra i ceti a redditi medio-bassi e le élites economiche e i garantiti, asserragliati nella cittadella del reddito acquisito; nelle persistenti disuguaglianze. La seconda ragione non sta nell’efficacia della comunicazione, nel messaggio greve oggi veicolato non più soltanto via etere ma dentro ai nostri tablet e smartphone, nei social. […] La ragione sta in ciò che la sinistra ha smesso di raccontare, di prefigurare, nel vuoto della sua proposta» (Ardeni 2020).

In altre parole: l’eclissi delle narrazioni socialiste, seguite dall’acuirsi degli stessi problemi che queste forme di organizzazione politica riuscivano a canalizzare, sarebbe alla radice dei fenomeni populisti. Il cosiddetto clima “post-ideologico” ha favorito lo sviluppo di movimenti che, non ruotando attorno a un programma politico finalizzato a dare coscienza di classe (la classe, s’intende, dei lavoratori), potevano però contare sul risentimento delle masse. Con un simile carburante molte piccole identità politiche prive di spessore sono state spinte dritte in Parlamento, facendo poi “evaporare” il dissenso una volta raggiunto il centro del potere istituzionale.

Voglio fermarmi un attimo su questo punto. Il gioco del populismo si basava – e in parte si basa ancora – sulla capacità di riconoscere la frustrazione popolare, offrendo poi una narrazione semplicistica, perché interamente giocata su categorie morali e non economiche, in grado di distinguere la “brava gente” dai “cattivi”. Si è creato, così, un fenomeno politicamente curioso, un processo di condensazione del dissenso, con promesse elettorali spesso ampie e provocatorie, e di sua vaporizzazione in caso di vittoria alle elezioni. Questo ha reso, di fatto, non solo innocuo il malessere collettivo (perché il populismo, da ultimo, conferma sempre lo status quo) ma ha anche evitato che potesse condurre a forme di organizzazione davvero alternative in grado di mobilitare le masse.

Tutto ciò, forse, non è comunque sembrato sufficiente. Le migliaia di persone che si sono riconosciute nei populismi magari non erano davvero persuase di aver scoperto un interlocutore politico in grado di comprendere la loro rabbia sociale, e tuttavia quella rabbia, quell’inclinazione al dissenso, c’era, e doveva prendere una qualche forma. Da allora si è diffusa una sistematica criminalizzazione del malcontento di cui il populismo si era fatto portavoce. Astio, malanimo, rabbia, rancore: sentimenti – si è cominciato a insinuare – che riguardano la vasta realtà dei falliti, dei perdenti, degli disadattati. Un’implicita colpevolizzazione della dissidenza, una sua moralizzazione, trasfigurava così le contraddizioni del migliore dei mondi in un problema privato, una questione personale, irriducibile alle logiche della storia.

4. La cultura della paranoia

Solo a partire da simili premesse è possibile comprendere il passaggio al complottismo. Ritenendo infine intollerabile il proprio risentimento, la propria rabbia così becera e “populista”, e non riuscendo a incanalare tutto questo in una visione politica organizzata, ecco che le fasce sociali più deboli non hanno saputo dare ragione dei propri vissuti aggressivi. Negata ogni narrazione, compresa quella più goffa o primitiva, crollata ogni visione del mondo capace di fecondare la sofferenza delle classi più fragili, quest’ultime si sono scoperte ormai del tutto prive di riferimenti. Un torpore della coscienza, manifestatosi anzitutto come assenza di orientamento storico, ha impedito le più semplici connessioni causali di tipo economico. Stare male senza sapere perché, impoverirsi e non sapere perché – questo è stato anzitutto il Ventunesimo secolo.

È allora che il disagio ha preso un volto nuovo: quello della pura e semplice proiezione. Incapace di guardare a quale processo lo stesse degradando, quale fosse il movimento della storia, e cioè dei mercati e del capitale, in azione per renderlo sempre più diviso, l’ex proletariato (privato anche di un nome) ha tentato di difendersi da un’aggressività sentita come inspiegata, combinata di invidia e di alcune tendenze antisociali, attribuendola alla figura di un Grande Nemico. «Non sono io – lo si è sorpreso reclamare – ad avercela con l’attuale sistema di cose; è piuttosto un certo Tizio, un certo Caio, ad avercela con me».

La collera, che un tempo poteva essere accolta e incanalata nel conflitto di classe, nel diverso contesto della società post-ideologica ha cessato di avere senso, di poter essere riconosciuta come dotata di significato, ed è divenuta osservabile solo se proiettata all’esterno, su un certo volto e un certo nome. Contemporaneamente alla proiezione, queste masse sono state protagoniste di un meccanismo di diniego: gli aspetti negativi, ora condensati intorno alla figura di un nemico, sparivano dalla rappresentazione che la collettività aveva di se stessa, in un processo di vittimizzazione crescente.

L’identificazione in un’immagine ideale, totalmente buona, associata all’espulsione del proprio risentimento in un’immagine demoniaca, totalmente cattiva, ha costituito così il passaggio a una forma di politica paranoide: il complottismo. Si consideri, ad esempio, questa descrizione che Otto F. Kernberg dà della personalità paranoide:

«La personalità paranoide si vede buona, equa e sempre nel giusto, in un mondo abitato da persone stupide, malvagie e pericolose che hanno bisogno di essere controllate. Vive nella convinzione di conoscere benissimo il mondo e di non farsi illusioni. C’è un’ipersensibilità a tutto ciò che è critico e negativo […]. Questo atteggiamento paranoide si accompagna a un carattere che è particolarmente disposto ai sentimenti di odio, che peraltro sono negati e proiettati all’esterno, cosicché il mondo è visto come malvagio, ostile e inaffidabile. Dalla necessità di controllare questo mondo nascono situazioni tipiche, nelle quali gli scoppi d’ira e di odio sembrano giustificati dal fatto che sono stati gli altri a danneggiare, ferire o aggredire per primi, manifestando un’aggressività patologica» (Kernberg 2020, p. 69).

In analogia con quanto accade in questa forma di patologia del carattere, il complottismo sembra emergere dal bisogno spontaneo di generare una mitologia del conflitto in grado di identificare qualcuno – in fondo non è poi così rilevante chi – da trasformare in un Grande Nemico. Nemico che, una volta identificato, permette di dare libero sfogo al proprio odio sociale, finalmente percepito come lecito, giustificato, difensivo.

5. Il Grande Nemico

La proiezione, come segnala McWilliams, ha spesso l’effetto di distorcere pesantemente l’oggetto. Il soggetto paranoide trasferisce i propri contenuti psichici non riconosciuti sull’interlocutore, con il risultato di percepire «qualcosa di interno […] come proveniente dall’esterno» (McWilliams 2012, pp. 137-138). Questo sembra accadere anche a livello sociale. In mancanza di un’adeguata lettura della realtà, invidia e vergogna verso figure “vincenti” o “di successo” sono percepite nell’esperienza intollerabile di essere vittime di umiliazione. L’aggressività, a sua volta, viene sperimentata nella forma persecutoria di una «”angoscia da annichilimento” […], cioè il terrore di cadere a pezzi, di essere distrutti, sparire dalla faccia della terra» (ivi, p. 249). Angoscia, pertanto, a cui necessario rispondere con una rabbia difensiva, volta solo a salvaguardarsi.

Si creano così i presupposti per la nascita del Grande Nemico, del quale si possono raccontare le storie più strane, meno credibili e contraddittorie. Vale la pena ricordare quanto scriveva Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io:

«La massa è straordinariamente influenzabile e credula, è acritica, per essa non esiste l’inverosimile. Pensa per immagini, che si richiamano vicendevolmente per associazione come, nel singolo, si adeguano le une alle altre negli stati di libera fantasticheria; queste immagini non vengono valutate da nessuna istanza ragionevole circa il loro accordo con la realtà. I sentimenti della massa sono sempre semplicissimi e molto esagerati. La massa non conosce quindi né dubbi né incertezze» (Freud 2011, p. 198).

Considerato isolatamente, il complottismo assomiglia all’antica setta dello gnosticismo, e sembra dunque confermare l’irrefrenabile tendenza a popolare “i cieli” di Arconti malvagi per spiegare l’alienazione e l’angoscia di un mondo percepito come privo di senso. È sintomo di un’epoca di decadenza la costruzione di mitologie dove tutto è ricondotto alle direttive di un piccolo gruppo di entità invisibili. Per il complottista (come per lo gnostico) il male non dipende dal caso e dalla pena che attraversano la struttura stessa della realtà, ma è piuttosto il prodotto di specifiche logiche di potere. Il male ha una sua ragione, e dunque è frutto di una responsabilità.

In effetti quando si dà dell’ignorante al complottista (e l’accusa di complottismo implica sempre quella di ignoranza), si denuncia in lui anzitutto la non accettazione del caso, delle variabili accidentali. Della sorte. Un uomo di senno – si suppone – deve saper accogliere l’imprevisto nell’economia della storia senza per questo riconoscervi sempre un “sintomo”. Il complottista davvero sembra soffrire di una secolarizzazione della religione che rovescia in termini negativi (e diabolici) le forze pervasive della tradizionale provvidenza.

Credere che il mondo sia retto dalle trame del Grande Nemico, sia questo un Bill Gates o un George Soros, non è poi in fondo molto diverso dal riconoscervi, infatti, l’azione di un Demiurgo invisibile. L’Ombra del popolo si proietta su una figura lontana, per certi aspetti inaccessibile, in cui diventa possibile concentrare ogni forma di male. È una reductio ad unum avvelenata di sottili tracce superstiziose.

Tutto ciò, del resto, non è privo di effetti pratici. Uno degli obiettivi principali della costruzione del consenso ideologico è, com’è noto, l’identificazione del nemico. E il nemico non è l’avversario. Se la battaglia deve giocarsi sulle emozioni, e non sulla ragione, è necessario che il nemico sia presentato come assoluto. Una sorta di abominio, qualcosa di terribile e violento.

Dal nemico non ci si può aspettare niente di bello e di buono. In realtà, per quanto ne abbia le apparenze, non è neanche umano. La lotta contro il nemico non è un conflitto fra interessi di classe, piuttosto la lotta del Bene contro le forze del Male, della Luce contro l’Oscurità, della Giustizia contro l’Ignoranza. Con la sua faccia, il nemico personifica (senza per questo umanizzarle) le zone buie che albergano dentro l’anima di ciascuno. È la proiezione, per dirla con Jung, dell’Ombra della massa.

Ogni organizzazione del consenso ha bisogno del nemico per maturare. Senza nemico, senza identificare un responsabile del Male nel cosmo, una narrazione finalizzata al consenso non può estromettere le proprie ambiguità. In realtà, lascia essa intendere, non vi sarebbe alcuna sofferenza nel mondo se non vi fosse il nemico. Ecco che la lotta diventa dunque un vero e proprio conflitto metafisico, il quale abbandona i tratti della politica per assumere connotati religiosi. Come Don Chisciotte, anche il complottista è pronto ad affrontare eroicamente i mulini a vento nella convinzione di confrontarsi con l’ingiustizia del mondo.

6. Un pericolo: la patologizzazione del dissenso

Alla luce di quanto scritto si potrebbe forse ritenere la mancanza di fiducia nello status quo come un’alterazione del pensiero nella psicologia delle masse. Accordare valore a un simile punto di vista, porterebbe pertanto a reputare tutte le recenti forme di agitazione popolare spontanea (in primis i No-Vax) come espressioni di una paranoia collettiva in grado di attribuire al Grande Nemico l’ostilità generata dalle contraddizioni di un mondo altrimenti senza senso.

Questa conclusione, però, richiede alcune osservazioni. Proviamo adesso a fare, come si suol dire, gli avvocati del diavolo, tentando di sviluppare alcune provocazioni. In primo luogo: includere l’esercizio della critica e il quesito cui prodest? (“a chi giova?”) all’idea di complottismo sembrerebbe essere, in effetti, anche un ottimo modo per squalificare il dissenso attraverso l’uso di una parola degradante. L’uomo serio, che sa come va il mondo, non mette in dubbio che i telegiornali gli offrano una descrizione oggettiva dei fatti. L’uomo serio non può neanche soffermarsi troppo sul fatto che i media operino un montaggio finalizzato influenzare l’opinione pubblica (banalmente e in modo innegabile: a condizionarla al consumo attraverso le pubblicità). Proprio perché non vuole essere “contaminato” dallo stigma vergognoso della stupidità, starà sempre dove ci si aspetta di trovare gli uomini intelligenti.

Da qui si può procedere con una seconda osservazione, più sociale. E cioè la constatazione che il “sospetto” (nel senso filosofico che Paul Ricoeur attribuiva a questa parola), declinato a sfondo politico, sia perfettamente capace di abitare una società come la nostra: mediatizzata, capitalista, incentrata sul profitto di poteri sempre meno istituzionali. Una lettura economica della realtà – a rifletterci – pare già essere, in un certo senso, una forma di complotto, poiché suppone che “dietro” al sistema dei valori condivisi, per quanto nobili e sentimentali, vi sia soltanto un gioco di interessi. E allora si potrebbe arrivare a domandare: il marxismo, che identificava la struttura “dietro” la sovrastruttura, è stato o no una teoria del complotto?

Sono provocazioni, s’intende. Ma già Gramsci, nel 1917, ci ricordava: «Poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora perché non se ne preoccupa» (Gramsci 1967, pp. 47-48). Analogamente Christopher Lasch, nel suo La cultura del narcisismo, ammoniva come la maggior parte di noi fosse capace di vedere

«il sistema, ma non la classe che lo controlla e che lo monopolizza – la ricchezza che esso crea. Se rifiutiamo, apponendovi l’etichetta di “teoria da cospiratori”, l’analisi di classe della società moderna, ci precludiamo la possibilità di comprendere l’origine delle nostre difficoltà attuali, i motivi della loro persistenza e i modi eventuali di superarle» (Lasch 2020, p. 264).

Chi scrive desidera soltanto rilevare il pericolo che l’accusa di “complottismo” divenga – se non lo è già – un criterio di controllo morale, un segnale dello psicoreato che agita il nuovo mondo: la dissidenza rispetto le forme attuali di gestione del potere economico. Il nostro momento storico chiama ad esercitare il dubbio più di ogni altra cosa, soprattutto quando spinge alla pluralità e alla diversificazione delle voci. Senza questa varietà è infatti impossibile che si dia democrazia.

E tuttavia è importante, allo stesso tempo, che il dubbio non proceda in modo selvaggio, come bricolage delle informazioni saccheggiate alla rete, ma si costruisca nel canale di fonti autorevoli e condivise. Dev’essere esercitato con metodo. Il dubbio non può porsi semplicemente come “delegittimazione” dell’autorità o delle competenze, fatto che rappresenta un’assurdità volta solo ad assecondare le potenti logiche della psicologia collettiva, della costruzione del Grande Nemico, dell’Ombra della massa, a cui attribuire l’aggressività generata dalla propria frustrazione di classe.

Serve un dubbio metodico, quello che ha dato origine alla filosofia moderna e alla rivoluzione scientifica. Fra le molte cose che l’emergenza sanitaria ha messo in luce, vi è la mancanza, nella politica italiana, di “cultura alta della dissidenza”, priva di elementi eccessivamente pop (per non dire di peggio) che possano deteriorare il fine della contestazione. Se le rimostranze dei cosiddetti “complottisti” sapranno tradursi, col tempo, in una nuova lotta di classe, questo sarà possibile intuirlo solo dal ruolo giocato dal metodo nello scenario futuro; al momento, però, l’enorme magnetismo delle narrazioni di stampo millenaristico, prive di organizzazione, sembrano compromettere la possibilità di un adeguato adattamento alla realtà politica presente.

7. Alienazione e macelleria sociale

Si è ricostituita, lentamente, una metafisica posticcia, in parte ibridata con quella tradizionale, cristiana e conservatrice, e in parte innovativa. Ci sarebbe molto da dire a proposito di questa particolare deriva settaria delle religioni in Europa, ambiti e ambienti in cui complottismo e teologia si sposano, divenendo tutt’uno. Un po’ è stato già fatto, ma non è questa la sede per approfondire. Qui, piuttosto, intendo segnalare come sia possibile restare fedeli alla terra, per usare un’espressione nietzschiana, e invertire la rotta: promuovere il disincanto invece della demistificazione, il rispetto dell’esame di realtà invece della proiezione, la coscienza di classe invece della “coscienza no-vax” e il socialismo invece del complottismo.

Parto dai giovani, fra i più colpiti da questa macelleria sociale vissuta in uno stato di completa alienazione. Del generale impoverimento giovani ho già fatto riferimento in un altro articolo, a cui rimando sopratutto per i dati EURISPES che vi sono segnalati (Dell’Amico 2020). Tuttavia le statistiche più recenti confermano e rinnovano la percezione di assistere a un collasso generazionale di cui, per ignoranza o malafede, si parla poco. In uno studio pubblicato a luglio, ad esempio, ConfCommercio ha evidenziato come i giovani occupati nella fascia d’età fra i 15 e i 34 anni siano diminuiti, fra il 2000 e il 2019, di 2 milioni e mezzo. In compenso sono aumentati, in un’oscillazione dal 40% al 50%, i giovani che non studiano e non lavorano (i cosiddetti NEET). Fra chi lavora, invece, si assiste a un -26% di giovani dipendenti e, addirittura, a un dimezzamento dei lavoratori autonomi (-51%).

Questa cornice si inserisce nel più ampio quadro dell’impoverimento del mercato del lavoro. L’Anpal (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro) ha pubblicato le analisi dei dati relativi ai “servizi per l’impiego” relative ai disoccupati che avevano firmato un’immediata disponibilità lavorativa. Risultato: 8 milioni di disoccupati, da sfoltire a 5 milioni e 300 mila, se si escludono le domande non movimentate da tempo (cfr. Longoni, ItaliaOggi, 31/05/2021). Tutto ciò lascia molto riflettere se si considera che l’Istat, con i suoi differenti parametri, ne calcolava soltanto 2 milioni e 300 mila.

L’esercito dei disoccupati, al di là delle diverse stime, è a rischio di un pericoloso aumento. Dallo scorso primo luglio è scaduto per l’industria e per le costruzioni il blocco dei licenziamenti. La multinazionale britannica GKN si è così preoccupata di licenziare, con l’efficienza di una mail, i suoi 422 dipendenti dello stabilimento di Campi Bisenzio. Altri 152 sono stati licenziati alla Giannetti Ruote, 106 alla Timken. Episodi di questo genere si stanno moltiplicando, in generale nel silenzio. Sabato 31 luglio, alle ore 22.00, novanta dipendenti della sede bolognese di Logista, multinazionale del tabacco, hanno ricevuto un messaggino su Whatsapp: «Da lunedì 2 agosto lei sarà dispensato dall’attività lavorativa. Cordiali Saluti». Licenziati.

In altri settori ci si muove per la cassa integrazione. La Caffarel di Luserna San Giovanni ha messo in cassa integrazione straordinaria i suoi 328 dipendenti. Molti dei 540 dipendenti di Liberty Magona di Piombino sono ancora in cassa integrazione – come lo sono, ormai da anni, anche numerosi dipendenti dello Stabilimento siderurgico di Piombino (un episodio in grado di fotografare l’attuale situazione storica è avvenuto il 10 agosto quando, nelle acque dell’Isola dell’Elba, proprio di fronte a Piombino, è stata avvistata la barca da cinquecento milioni di euro del magnate russo Alexey Mordashov, presidente di Severstal ed ex proprietario dello Stabilimento). In generale, comunque, tutto il territorio nazionale è pieno di simili contesti di lavoro sospeso. Secondo i dati dell’INPS, aggiornati al marzo 2021, è stata versata la cassa-integrazione a oltre 3,7 milioni di persone, su più di 4 milioni e duecentomila domande segnalate dalle aziende.

Preoccupano poi alcune previsioni. Alcune da parte delle aziende stesse: la Stellantis, colosso dell’auto, ha stabilito, ad esempio, il probabile taglio entro il 2024 del 18% della sua forza-lavoro in Italia. Su sessantaseimila dipendenti, ne resteranno a casa dodicimila. Ma a inquietare è anche la fine generale del blocco dei licenziamenti, fissata dal ministro Orlando per la fine del mese di ottobre. Secondo Giancarlo Mazzuca, de IlSole24Ore (Licenziamenti, autunno denso di incognite, 26/07/2021),

«con lo sblocco del divieto governativo, potrebbero esserci 330 mila licenziamenti. Un vero terremoto. È come se una città tipo Bologna da un giorno all’altro si svuotasse quasi completamente […]. Non possiamo fare finta di nulla, perché, a prescindere da qualsiasi ritorno del Covid, si sta addensando sulle nostre teste una tempesta economica senza precedenti».

Tutto questo, però, appare lontano. Il complottismo non ama “la fatica del concetto” (Hegel), non ama l’analisi sociale, ma esalta la dialettica dello scontro in cui cerca auto-assolvimento dalle proprie tendenze aggressive. Ciò equivale a una fuga in scenari irrealistici e quasi mitologici, paradossalmente strumentali allo status quo, che dunque ha le carte in regola per indicare nella dissidenza un carnevale, una festa in maschera, un’accozzaglia di idee confuse e prive di coerenza. Contribuisce a rafforzare l’assioma: l’alternativa al capitalismo, nonostante le sue mille contraddizioni, è la follia.

Solo facendosi carico delle frustrazioni di classe è possibile una dissidenza strutturata. Solo osservando come si è incorsi, negli ultimi decenni, in processi di graduale smantellamento dei diritti sociali, come tutto questo sia cavillosamente diffuso, come tutto ciò sia stato giustificato e occultato, è possibile riconoscere l’origine del malessere che serpeggia nei più. E osservare, con i nervi saldi, che la lotta non è contro un presunto Grande Nemico – ma contro un sistema di sfruttamento che massimizza i profitti per minimizzare le spese e i tempi, da cui la forza-lavoro deve tutelarsi. La lotta è contro una Struttura.

In altre parole: solo assumendoci la responsabilità delle nostre condizioni di vita, senza ritenere che si possa lottare per tutto tranne che per la propria occupazione, è possibile alimentare uno stile di dissidenza che non sia indifferente davanti ai licenziamenti, al precariato, alla manodopera sottopagata. Alle morti sul lavoro, già 677 da gennaio a luglio, e che continuano ad aumentare.

Il complottismo finisce laddove inizia la capacità di autodeterminazione della forza-lavoro. Ma questa, anzitutto, richiede una maturazione della coscienza sociale, consapevolezza che non è calata dall’alto ma passa da una vera e propria individuazione di classe da parte del singolo. Sapersi collocare nell’economia della realtà, all’interno dei rapporti di forza che organizzano le istituzioni, diviene indispensabile per la libertà dell’individuo. È il passo che può fare della filosofia uno strumento di servizio contro le nuove forme di alienazione collettiva.

Bibliografia

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Longoni (31/05/2021), M., I posti di lavoro non si possono creare per decreto, “ItaliaOggi”, in: https://www.italiaoggi.it/news/i-posti-di-lavoro-non-si-possono-creare-per-decreto-2520958.

Marx, Engels (1964), K., F., Manifesto del Partito Comunista, Editori Riuniti, Roma. Il Manifesto fu pubblicato a Londra nel 1848.

Mazzuca (26/06/2021), G., Licenziamenti, autunno denso di incognite, “IlSole24ore”: https://www.ilsole24ore.com/art/licenziamenti-autunno-denso-incognite-AEmgU5Y.

McWilliams (2012), N., La diagnosi psicoanalitica, Astrolabio, Roma. Edizione originale: 2011.

Autore: Shady Dell'Amico

Shady Dell’Amico è nato a Pisa il 21/11/1994. È laureato magistrale in Filosofia all’Università di Pisa con una tesi dal titolo “Il male in Dio. Psicopatologia del divino in Freud e Jung”. Si interessa di psicoanalisi, antropologia filosofica e fenomenologia della religione.

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