
Ontologia
Non è questa la sede per stabilire se l’ipotesi dell’evoluzionismo radicale di Sheldrake sia valida, né se si accordi o meno con i risultati della scienza moderna; lo stesso autore – che risponderebbe di sì a entrambe le domande – evidenzia come si tratti non di una conclusione ma di un punto di partenza, dell’apertura di un nuovo fronte della ricerca scientifica, circa il quale l’indagine è appena cominciata. Tuttavia, questa breve trattazione non vuol neanche limitarsi a offrire una suggestione in tal senso: è intesa invece come presentazione di una possibilità concreta basata su di uno studio scientifico accurato.
Sul piano filosofico, la filosofia di Raimon Panikkar è il supporto più valido per l’idea di evoluzione radicale di Rupert Sheldrake: essa è infatti in grado di pensare una realtà interamente viva e intrinsecamente libera, capace tanto di conservarsi quanto di innovarsi; ed è, al contempo, compatibile con la scienza moderna.
Prima di esporre la nozione di cosmoteandrismo, perno della proposta ontologica di Panikkar, sarà opportuno presentare le due nozioni dalla cui critica essa si origina: il monismo e il dualismo. Ancorché monopolizzato storicamente dal materialismo, il termine monismo può essere attribuito a tutte quelle filosofie che ammettono un unico genere di sostanza, che riconducono «l’insieme della realtà a un principio unitario sottostante all’apparente molteplicità e discontinuità dei fenomeni, negando (sia pure per diverse ragioni) qualsiasi dualità tra materia e spirito, tra mondo e Dio». La tradizione filosofica risalente a Descartes denota invece con il termine dualismo quelle filosofie che «ammettono l’esistenza di sostanze materiali e di sostanze spirituali». Più in generale, il dualismo è stato inteso in tutti i tempi come dottrina volta a dar conto della frattura fra apparenza e realtà a partire da due principi, spesso – soprattutto in ambito religioso – in opposizione tra loro (come ad esempio nel caso dello zoroastrismo). La visione di Panikkar va oltre sia il monismo sia il dualismo. L’a-dualismo è la prospettiva della distinzione senza separazione: le cose non sono né una né molte; non si dà l’una senza l’altra, eppure non sono la stessa cosa. Su di esso si innesta la visione cosmoteandrica, che può essere così riassunta: la realtà presenta tre dimensioni, le quali non sono parti che possano venir rimosse senza pregiudizio per le rimanenti, e che sono il divino, l’umano e il terrestre; nessuna di esse esaurisce il Tutto, e al contempo nessuna di esse può venir separata dalle altre due senza che tutto precipiti nel nulla. Panikkar utilizza il mandala del cerchio per semplificare la visualizzazione di questa intuizione. Non vi è cerchio senza centro e circonferenza. I tre non sono la stessa cosa (sono dunque distinguibili), eppure sono inseparabili. La circonferenza non è il centro, ma senza il centro non esisterebbe la circonferenza. Il cerchio, in se stesso invisibile, non è né il punto centrale né la circonferenza, eppure è circoscritto dall’una e comprende l’altro. Il centro non dipende dal cerchio o dalla circonferenza, perché è un punto senza dimensioni, eppure non sarebbe il centro – non sarebbe proprio nulla in questo contesto – senza gli altri due. Il cerchio, visibile soltanto dalla circonferenza, è materia, energia, è il mondo. E questo avviene in quanto la circonferenza, l’uomo, la coscienza lo comprendono. Entrambi sono quello che sono perché vi è un Dio, un centro. Il principio cosmoteandrico pone l’accento sulla relazione intrinseca fra le tre dimensioni della realtà: le tre sfere sono distinte, ma non separate, dimodoché ogni cosa è direttamente connessa con ogni altra, ogni cosa è-insieme a ogni altra; non ci sono oggetti isolati che sussistono indipendentemente dagli altri, ma tutto co-è. Per dirlo ancora con Panikkar:
il principio cosmoteandrico potrebbe essere espresso dicendo che il divino, l’umano e il terrestre sono le tre dimensioni irriducibili che costituiscono il reale, cioè ogni realtà in quanto reale. Non nega che la capacità di astrazione della nostra mente, per scopi particolari, possa considerare parti della realtà come indipendenti; non nega la complessità del reale e i suoi molteplici gradi. Questo principio ci ricorda che le parti sono parti e che esse non sono giustapposte accidentalmente, ma essenzialmente relazionate con il tutto. In altre parole, le parti non devono essere comprese secondo un modello meramente spaziale, ma piuttosto secondo un’unità organica, come mente e corpo: esse possono essere vissute come parti, ma non possono essere separate dal tutto senza cessare di essere quello che sono.
Panikkar aggiunge subito che non si tratta di un’idea originale; al contrario, sembra che rappresentare la totalità della realtà in termini di tre mondi sia una costante d’ogni cultura umana, indipendentemente dal fatto che questa visione venga espressa spazialmente, temporalmente, cosmologicamente o metafisicamente: «Non conosco alcuna cultura in cui non siano presenti in una forma o nell’altra le triadi cielo-terra-inferi, passato-presente-futuro, Dei-uomini-Mondo, i pronomi io-tu-esso e perfino la triade intellettuale di sì, no e la loro fusione». Ogni essere ha tre dimensioni: una materiale (o cosmica), una intellettuale e una spirituale; ogni essere ha una dimensione abissale, sia trascendente sia immanente; ogni essere trascende tutto ed è inoltre infinitamente immanente, cioè inesauribile e insondabile: e questo non perché il carattere limitato dell’intelletto umano non possa penetrare più a fondo, ma perché questo abisso appartiene a ogni essere in quanto tale. Porre dei limiti all’Essere (in quanto Essere) vuol dire distruggerlo; isolare un ente (fosse anche possibile) vorrebbe dire soffocarlo, ucciderlo, tagliare il legame vitale che lo unisce all’Essere. In armonia con la maggior parte delle tradizioni umane, Panikkar chiama “divina” questa dimensione di trascendente abissalità, aggiungendo che allo stesso modo potrebbe venir usato qualsiasi altro nome. La percezione fondamentale, qui, è l’infinita inesauribilità di ogni ente reale, il suo carattere sempre aperto, il suo mistero, la sua libertà. Attraverso ogni ente reale spira un soffio di realtà che permea ogni fibra di quell’essere e lo rende reale, non solo ponendolo in relazione con tutta la realtà, ma anche tenendolo sospeso su un abisso insondabile che rende possibile la crescita, la vita e la libertà. Tutto ciò che è, è in quanto partecipa al mistero dell’Essere. In definitiva, ogni essere è un mistero e ha una dimensione di infinitudine e quindi di libertà che gli conferisce una dignità unica.
Ogni essere reale, inoltre, rientra nel campo della coscienza; è pensabile e, proprio per questo, collegato con la coscienza dell’uomo. L’intero campo della realtà vive umanizzato nella coscienza umana. Il carattere trasparente della coscienza appartiene non solo all’uomo che conosce, ma anche all’oggetto conosciuto. Questo non vuol dire che si possa ridurre tutto a coscienza o che la coscienza sia tutto. L’intuizione cosmoteandrica dichiara esplicitamente che le tre dimensioni costitutive del reale non sono reciprocamente riducibili; pertanto il mondo materiale e l’aspetto divino non si possono ridurre alla sola coscienza (il che è un altro modo di dire che l’identificazione parmenidea tra pensare ed essere non può qui venir sostenuta; la questione verrà affrontata nel seguito). Eppure, entrambi sono pervasi dalla coscienza e in un certo senso coestensivi con essa. La pensabilità e la conoscibilità in quanto tali sono aspetti di tutto ciò che è. Ogni essere ha una dimensione costitutiva di coscienza, anche se ciò non ipostatizza la coscienza in lui. Non solo non potremmo conoscere un essere se non fosse collegato in qualche modo con la coscienza, ma anche questa relazione è costitutiva di quello stesso essere.
Ogni essere, infine, sta nel mondo e ne condivide la secolarità. Non vi è niente che entri dentro la coscienza umana senza entrare contemporaneamente in relazione con il mondo. Ancora, questa relazione non è semplicemente esterna o accidentale: qualsiasi cosa esistente ha una relazione costitutiva con la materia/energia e lo spazio/tempo. Non vi sono tre mondi. Possono esistere tutte le distinzioni e gradazioni ontologiche – nonché tutti gli ordinamenti gerarchici – che si vogliono, ma infine vi è solo una realtà – nonostante gli inconvenienti di questo termine che, in pratica, mette l’accento sulla res, la dimensione cosmica. Ogni essere ha una dimensione di materialità per cui offre resistenza a ogni riduzione della mente. Se Dio e la coscienza permeano la materia, la materia a sua volta permea il divino e l’umano. Concludendo: il principio cosmoteandrico asserisce che le tre dimensioni della realtà, il divino, l’umano e il terrestre – o comunque le si voglia chiamare: libertà, coscienza, materia, ad esempio – sono inestricabilmente legate tra loro e non combinate in modo accidentale. In altre parole, le parti sono partecipazioni reali. Non sono parti che possano esistere separate dal tutto senza cessare di “partecipare” a esso.
Epistemologia
Se questa è la struttura ontologica della realtà, che tipo di conoscenza possiamo averne?
Panikkar utilizza il termine mito in senso tecnico, riferendosi a quel sostrato indispensabile al pensiero grazie al quale solo è possibile evitare il regresso all’infinito nell’ambito della ricerca dei fondamenti di ogni cosa:
Il mito che si vive comprende l’insieme dei contesti che si danno per scontati. Il mito ci dà il punto di riferimento che ci orienta nella realtà; […] è sempre l’orizzonte accettato entro cui si situa la nostra esperienza della verità. Io sono immerso nel mio mito così come altri lo sono nel loro. Non ho coscienza critica del mio mito, così come gli altri non sono consapevoli del loro. È sempre l’altro che, alle mie orecchie, parla con un certo accento. È sempre l’altro che io sorprendo a parlare muovendo da preconcetti infondati.
Il mito, dunque, del quale diventiamo consapevoli solamente nel corso dell’incontro con l’altro, attesta tutta la limitatezza delle nostre aspirazioni all’universalità. Viviamo nell’epoca dell’oggettività e della democrazia: questi sono i miti dominanti. La nostra civiltà ha soppiantato il mito della superiorità della razza bianca (che ha sostenuto la schiavitù istituzionalizzata in epoche non lontane da noi: e allora la cosa non sembrava tanto terribile ai più, così come non appariva scandaloso alla maggioranza dei greci dei primi secoli a. C.) con quello dell’uguaglianza di tutti gli uomini. La democrazia si fonda su questo. È cambiato il mito, ma non ci siamo liberati del mito in quanto tale. Liberarsi dal mito è un’operazione impossibile. Per questo Panikkar scrive:
Ogni demitizzazione porta con sé una rimitizzazione. Noi distruggiamo un mito – e giustamente, se quel mito non risponde più allo scopo – ma in un modo o nell’altro subentra sempre simultaneamente un nuovo mito. L’uomo non può vivere senza miti.
Che la realtà sia oggettiva, che una parte possa essere isolata dal resto cui è relazionata e considerata “di per sé”, che il tutto sia uguale alla somma delle parti, sono tutti miti. Un certo mito può essere più o meno condiviso (anche, al limite, da tutta l’umanità, in un dato momento storico) ma mai definitivo (chi o cosa, infatti, potrebbe darne assicurazione?). Il che porta a concludere che un pensiero onnicomprensivo, puro, libero da qualsiasi pregiudizio… non esiste. Un pensiero che abbracci tutto, che abbracci cioè anche colui che pensa e il mito stesso che lo rende possibile, non può esistere in alcun modo. Utilizzando il linguaggio della matematica, potremmo dire che il mito è un “limite inferiore” per il pensiero. Detto invece con un’espressione più volte utilizzata da Panikkar, la realtà presenta un aspetto «opaco» al pensiero. La realtà non può essere esaurita dal pensiero (il pensiero non può cioè comprenderla interamente, in maniera esaustiva), proprio perché il pensiero – ancorato al mito – non ha una capacità di penetrazione assoluta, ma lascia sempre qualcosa al di fuori del proprio abbraccio. Tuttavia l’incontro tra il pensiero e la realtà, da cui scaturisce la conoscenza, non rivela l’incapacità del pensiero (quasi come se, essendo più penetrante, esso potesse giungere alla comprensione “totale”), bensì l’eccedenza della realtà rispetto al pensiero della quale stiamo parlando, mostrandoci che il pensiero e l’essere non coincidono, perché il pensiero non è tutto ciò che c’è e di questo ci si accorge anche tramite quel “limite inferiore” che il mito costituisce per il pensiero, e che Panikkar chiama “ciò che è impensato”.
Un altro termine che Panikkar utilizza in senso tecnico è quello di simbolo: il simbolo rappresenta l’intera realtà come appare e si manifesta attraverso la sua struttura molteplice. Un simbolo è precisamente la cosa, non la “cosa in sé”, che è un’astrazione mentale, ma la cosa come appare e si esprime. Il simbolo di una cosa non è né un’altra cosa né la cosa in sé, ma la cosa stessa così come si manifesta, com’è nel mondo degli esseri, nell’epifania dell’“è”. Così Panikkar:
Il simbolo non è né un’entità puramente oggettiva presente nel mondo (quella cosa “laggiù”), né un’entità meramente soggettiva presente nella mente (in noi “quaggiù”). Non vi è simbolo che non sia dentro e per un soggetto, così come non vi è simbolo che sia privo di un contenuto specifico rivendicante oggettività. Il simbolo abbraccia e lega costitutivamente i due poli del reale: l’oggetto e il soggetto.
Questo legame costitutivo è diretto, senza intermediari; non ha bisogno, cioè, di alcuna spiegazione: il simbolo è per me ciò che non ha bisogno di nessuna interpretazione. Se ho bisogno di una spiegazione, vuol dire che per fornirla dovrò appoggiarmi su un’altra cosa ancora più fondamentale (che sarà per me simbolo a sua volta). Non è possibile dare alcuna ermeneutica del simbolo: essa lo trasformerebbe in segno, in concetto. Il simbolo è qualcosa che “invita” alla relazione. Il simbolo è lo strumento del mito così come la ragione è il veicolo del logos; i simboli sono perciò i «mattoni ultimi con i quali è costruito l’edificio della realtà». Non vi è approccio al simbolo, ma partecipazione. Esso non permette niente altro che il rapporto personale. Bisogna solo stare attenti a non identificare il simbolo con ciò che esso simboleggia: «Confondere il simbolo con il simbolizzato, equivale esattamente all’avidya, all’ignoranza che scambia l’apparenza con la realtà. Ma la realtà è tale proprio perché “appare” reale».
E il divenire?
Può sembrare strano che una filosofia come quella appena presentata possa trovarsi così in accordo con la scienza moderna da servire perfino come fondamento ontologico per una visione scientifica come quella di Sheldrake: d’acchito, infatti, il cosmoteandrismo di Panikkar non sembra vicino alle nozioni di oggettività e di “cosa in sé” tipiche di una certa epistemologia scientifica. Eppure, non sono pochi gli scienziati che hanno parlato di libertà della materia e di anima mundi, in termini non molto dissimili da quelli del filosofo.
Dire che «la materia è libera» non significa lasciar intendere che una pietra, d’improvviso, possa mettersi a levitare nel cielo. Siamo abituati a considerare la materia come qualcosa di inanimato, immobile, che se ne sta lì fermo “fino a che non intervenga una forza” (per dirla con il primo principio della dinamica). Panikkar ha spesso sottolineato che la libertà della materia non è la stessa libertà dell’uomo; la materia e l’uomo però, in quanto inseriti nella stessa realtà cosmoteandrica, partecipano entrambi della stessa dimensione di libertà. Il discorso di Panikkar è qualitativo, non quantitativo; in questo senso gli è sufficiente affermare che la materia abbia “un certo” margine di libertà. Egli non pretende di stabilire un margine maggiore di quello che la fisica (quantistica, in particolare) riconosce alla materia. È vero che di rado gli uomini di scienza si esprimono utilizzando la parola “libertà” a proposito della materia, anche se non mancano singole suggestioni, quali ad esempio quella di Prigogine, che parla di «creatività della natura» o di Feynman, che a sua volta parla di «immaginazione della natura», di Laughlin, per il quale la materia può avere «opinioni proprie», oltre alla «capacità di fare delle scelte», o ancora di Charpak e Omnés:
La libertà, o la moltitudine dei possibili che ne rappresentano la forma radicale, è dunque profondamente inserita nel cuore stesso della meccanica quantistica e delle sue leggi. Dietro al caso assoluto c’è la libertà totale.
In definitiva quindi, quella che a tutta prima può sembrare un’affermazione discutibile (o provocatoria, se non addirittura inconcepibile) da parte di Panikkar, circa la libertà della materia (che i profani concepiscono ancora à la Laplace, secondo un meccanicismo che la fisica ha abbandonato da più di un secolo), si rivela perfettamente compatibile con l’attuale assetto della scienza.
Come per l’idea che tutto sia libero, similmente per l’idea che tutto sia vivo, che Panikkar esprime in questi termini:
Intendo per animismo l’esperienza della vita in continuità con la natura. Ogni entità naturale è cellula vivente, parte di un tutto e riflesso del tutto al tempo stesso. Non solo le piante e gli animali sono viventi, ma anche le montagne e le rocce; come lo spirito, anche la materia è vivente.
Anche qui, superata la sorpresa iniziale, si scopre che la scienza è tutt’altro che lontana: «Le cose hanno un’anima, Nathanaël, e l’anima è la stessa in tutte le cose e in tutto ciò che vive; un filosofo di un tempo, Plotino, la chiamava “l’anima del mondo”, ora si dice “le leggi”. Si tratta di questo». Per Heisenberg, ad esempio, «non è certamente possibile fare una netta distinzione tra materia animata e inanimata». Allo stesso modo Capra sostiene che
a livello macroscopico, gli oggetti materiali che ci circondano sembrano passivi e inerti, ma quando ingrandiamo un frammento apparentemente “morto” di pietra o di metallo, vediamo che ribolle di attività. Quanto più lo guardiamo da vicino, tanto più esso appare vivo. Tutti gli oggetti materiali nel nostro ambiente sono costituiti da atomi.
Tuttavia la questione oltrepassa i confini della fisica atomica e bagna le coste di tutte le scienze positive.
Ad oggi, pare che la scienza non sappia tracciare una precisa linea di confine tra ciò che è vivo e ciò che non lo è (se non di comodo, al livello della definizione delle categorie di oggetti da indagare all’interno di singole discipline). Ed è in accordo con questa scienza che Panikkar può affermare che «ogni entità naturale è cellula vivente, parte di un tutto e riflesso del tutto al tempo stesso. Non solo le piante e gli animali sono viventi, ma anche le montagne e le rocce; come lo spirito, anche la materia è vivente».
Conclusioni
Come pensare il divenire in una realtà che evolve così radicalmente da poter essere definita “libera”? Nella quale il pensiero, alla ricerca della più intima natura delle cose, deve ammettere l’impossibilità di esaurirne la conoscenza? La visione di Rupert Sheldrake non offre risposte a questi interrogativi; ci esorta, tuttavia, a ridefinire il problema, aiutandoci a prendere consapevolezza di trovarci in un universo che, lungi dall’essere sempre uguale a se stesso (in attesa del Big Crunch, o della morte termica di tutte le cose), cresce, vive e forse spera insieme a noi. Dal canto suo, la filosofia di Raimon Panikkar – nella fondamentale ambizione di tener uniti i saperi filosofico e scientifico – è in grado di supportare il discorso di Sheldrake e di condurlo fino alle sue conseguenze più estreme. Forse non un punto d’arrivo (quale filosofia lo è?) Ma certamente un ottimo punto di partenza.
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[La prima parte è stata pubblicata domenica 9 maggio ed è visibile qui]
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[Leggi l’intervista esclusiva a Rupert Sheldrake, edita in Italia da Progedit]