
Abstract
L’idea che il processo del divenire rimanga inalterato – non si corrompa, cioè, né muti in alcun modo la sua forma – mentre ogni cosa del mondo si trasforma fino ad estinguersi, è suggestiva, e prelude a una filosofia volta a rintracciare il fondamento stabile di ogni movimento. Questo approccio, tuttavia, è suscettibile di discussione, in un mondo regolato dalle leggi dell’evoluzione: se infatti le interpretazioni dell’evoluzionismo possono essere applicate all’intero universo, anziché al mero sviluppo delle specie viventi, ci si troverà di fronte a una realtà che muta così radicalmente da coinvolgere, in ciò, lo stesso processo del mutamento. Al riguardo, le ricerche del biologo inglese Rupert Sheldrake trovano terreno fertile nell’ontologia relazionale del filosofo indo-catalano Raimon Panikkar, in un binomio in grado di coniugare fruttuosamente le frontiere della scienza con quelle della metafisica.
(Questo articolo esce in occasione della pubblicazione dell’ultimo volume dell’Opera Omnia di Raimon Panikkar in italiano, Spazio, tempo e scienza, Jaca Book; nel quale Panikkar parla di Rupert Sheldrake come di un innovatore della scienza).
Parole chiave: pensare, essere, divenire, evoluzione, scienza, Rupert Sheldrake, Raimon Panikkar.
Introduzione
Una precisazione preliminare. È opinione di chi scrive che la realtà vada necessariamente pensata in una maniera che si accordi tanto con la prospettiva della scienza quanto con quella della filosofia. Non perché la filosofia debba ridursi ad ancilla scientiae (né perché abbia bisogno del supporto delle evidenze della scienza); né perché la scienza abbia, dal canto suo, la necessità di appoggiarsi a una determinata filosofia. Per inciso, è innegabile che entrambe abbiano sempre tratto giovamento dal reciproco confronto, anche quando si sono trovate, storicamente, in contrapposizione.
Il punto di partenza di questo scritto è il seguente: l’evoluzione afferisce soltanto alle specie viventi o coinvolge, più in generale, lo sviluppo dell’intero universo?
La risposta a questa domanda non è né scontata né pacifica. Si ritiene infatti comunemente che l’evoluzionismo, dottrina che nasce in biologia dalle osservazioni di naturalisti come Charles Darwin, vada ristretto all’ambito in cui è nato. E si ritiene – a dispetto degli scossoni inferti al meccanicismo laplaciano da teorie fisiche come quella del caos, o la meccanica quantistica – che l’universo intero possa essere, sì, in evoluzione – è noto che lo spazio cosmico è attualmente in espansione – ma pur sempre “scritto in caratteri matematici” (così che alla presa della nostra matematica non possa sfuggire) e soggetto a leggi immutabili ed eterne che ne regolano il funzionamento fin dai primi istanti successivi al Big Bang.
Tuttavia, l’ipotesi opposta – l’idea che l’evoluzione riguardi l’intera realtà, leggi di sviluppo comprese – non è affatto impensabile; essa permetterebbe anzi, come vedremo, di spiegare meglio della sua antagonista alcuni fenomeni ad oggi di dubbia interpretazione. Le leggi della fisica – e della chimica, e di tutte le altre scienze – potrebbero avere una validità temporanea e tutta la realtà cui apparteniamo potrebbe star trasformandosi in qualcosa di mai visto prima, che nessuna legge di sviluppo è in grado di prevedere.
Le implicazioni di un simile approccio, ça va sans dire, non sono secondarie: verrebbe infatti meno quel sostrato metafisico che – pur assumendo di volta in volta denominazioni diverse e perfino opposte, come “Dio” e “leggi di natura” – ha da sempre conferito stabilità all’impresa del pensiero, sia essa filosofica o scientifica. D’altro canto, non per questo la validità della conoscenza scientifica verrebbe meno tout court, soprattutto se si considera che una tale temporaneità viaggia nella scala degli eoni; né viene meno la possibilità di una genuina ricerca filosofica. Tuttavia, se la scienza può forse accontentarsi di una tale provvisorietà purché efficace, non è questa una condizione che può soddisfare le esigenze della filosofia.
Si pone allora la domanda: come pensare il fondamento stabile del mutamento, quando lo stesso processo del divenire sembra mutare?
Tutto si evolve
Tuttavia, ancora più a monte, va accertato se una tale evoluzione su scala universale stia davvero avvenendo. Ovvero, va chiarito se il modello evoluzionistico della biologia sia adatto a descrivere la realtà tutta intera. Ci si domanda dunque: la realtà è suscettibile di una descrizione matematica senza tempo, da parte della scienza, tramite la formulazione di leggi eterne… o la scienza stessa è costretta ad evolversi in base al tempo in cui si sviluppa?
Prima di provare a rispondere a questa domanda, due brevi considerazioni. La prima: molti dei comportamenti della natura, in specie quelli afferenti alla biologia del comportamento animale, non sembrano suscettibili di nessuna descrizione di tipo matematico. Il modo in cui le termiti costruiscono i propri termitai, ad esempio, non fa pensare alla possibilità di una formulazione matematica, per quanto complessa, bensì a una natura che sviluppa abitudini che si consolidano e si aggiornano continuamente. La seconda considerazione è che, ovviamente, non è una novità che la scienza aggiorni le proprie conoscenze portando alla luce le fragilità delle conoscenza precedenti; tuttavia, in questo processo, essa conserva l’idea di una realtà sempre uguale a se stessa, della quale si osservano magari nuovi aspetti e alla cui “vera” essenza ci si approssima ogni giorno di più (pur ignorando completamente quale possa mai essere la destinazione di tale approssimarsi). Ed è questo che vogliamo mettere in discussione: l’idea che la realtà possa non essere affatto sempre uguale a se stessa bensì, appunto, in evoluzione; verso una destinazione tutt’affatto ignota.
I cristalli
Un esempio tratto dalla chimica ci aiuterà a svolgere quest’intuizione.
È noto quanto sia difficile ottenere dei cristalli di un nuovo composto, la prima volta che ci si prova. A volte, quest’attesa può durare anni. È il caso ad esempio del turanosio, considerato per decenni un liquido fino a quando, negli anni ’20, il primo cristallo ha fatto la sua comparsa (dopodiché i medesimi cristalli hanno preso a formarsi in tutto il mondo). Sorvoliamo qui su quanto quest’esempio supporti l’idea di una natura che sviluppa abitudini che si rafforzano nel tempo e che, nello stesso tempo, evolvono (in virtù di due tendenze antagoniste: quella a conservare sé stessa e quella creativa), per concentrarci sul caso ancora più sorprendente di nuovi cristalli che tendono a soppiantare i precedenti. Lo xilitolo, alcol noto ai più per il suo impiego nelle gomme da masticare, è stato preparato per la prima volta nel 1891 ed è stato considerato un liquido fino alla comparsa del suo primo cristallo, oltre mezzo secolo dopo. Qualche anno più tardi, una nuova forma cristallina ha fatto la sua comparsa, e il cristallo precedente non si è più mostrato.
Esempi come questi conducono il biologo inglese Rupert Sheldrake a rilevare che
una possibile spiegazione per la scomparsa di polimorfi è che le nuove forme sono più stabili dal punto di vista termodinamico e perciò compaiono di preferenza rispetto alle forme precedenti; se entrano in competizione fra loro, le nuove forme vincono. Prima che esistessero le nuove forme, non c’era concorrenza; quando si sono sviluppate, si sono presentate nei laboratori di tutto il mondo e le vecchie forme sono scomparse.
“Competizione”, “concorrenza”, “vincono”: è il linguaggio della selezione naturale – cioè dell’evoluzionismo – che attraversa i confini della biologia per approdare alla chimica. Per Sheldrake, tuttavia, non è solo una questione linguistica, ma fenomenica: «L’emergere di nuovi polimorfi rende chiaro che la chimica non è indipendente dal tempo: è storica ed evolutiva, come la biologia. Quello che succede oggi dipende da quello che è successo in precedenza».
L’evoluzione delle costanti scientifiche
La maggior parte degli scienziati dà per scontato che le leggi di natura siano costanti. Sono sempre state le stesse che sono oggi e tali saranno per sempre. Ovviamente questo è un assunto teorico, non un’osservazione empirica. Sulla base di due o trecento anni di ricerca compiuta sulla Terra, come possiamo essere sicuri che le leggi siano sempre state le stesse e sempre lo saranno in futuro e ovunque? Per la maggior parte della storia della scienza, che le leggi di natura fossero eterne era un’idea sensata. O l’universo era eterno e non c’era stato bisogno di un Dio che lo creasse, oppure era stato fatto da Dio ed era sempre lo stesso da allora, con l’eternità di Dio come garanzia. Ma, in un cosmo che evolve, la teoria delle leggi costanti ha ancora un senso? Tutte le leggi di natura erano già presenti al momento del Big Bang, come un codice napoleonico cosmico? Se tutto il resto evolve, perché non dovrebbero evolvere con la natura anche le sue leggi?
Questa è la posizione di Sheldrake. Il quale però non basa l’idea che le leggi (e, in particolare, le costanti della fisica) possano variare dato che tutto evolve. Consapevole che quest’ultima è ancora un’ipotesi, non una conclusione, egli ne supporta la validità proprio a partire dal fenomeno sperimentale della variazione delle costanti fisiche, e dalla storia del loro variare attraverso gli anni, gli esperimenti, i laboratori, gli strumenti. Con una trattazione puntigliosamente innervata di grafici e dati, Sheldrake spiega che i valori della costante di gravitazione universale, G, ha assunto valori molto diversi negli ultimi quarant’anni di ricerca:
Fra il 1973 e il 2010 il valore più basso di G è stato 6.6659, il più alto 6.734, con una differenza dell’1.1%. Questi valori pubblicati sono dati con un’approssimazione alla terza cifra decimale, qualche volta alla quinta, con errori stimati di poche parti per milione. O questa apparente precisione è illusoria, oppure G effettivamente cambia.
Dirac, pensava che, con l’espandersi dell’universo, la costante G avrebbe potuto subire piccole variazioni in diminuzione: non si tratta in fin dei conti di un’idea così scandalosa per la scienza, almeno finché ciò permette di conservare l’altra e più fondamentale idea che le leggi fisiche, a dispetto di queste oscillazioni, si mantengano costanti. Più problematico e radicale è invece pensare che tutto stia variando, nella più generale evoluzione dell’intero universo.
Pensare l’universo
Ma è veramente pensabile una cosa del genere? Come dovrebbe essere fatto l’universo, per poter evolvere come se fosse… un animale?
È evidente, infatti, che il modello evoluzionistico è inapplicabile a un universo concepito come una grossa macchina; idea della realtà concepita come meccanismo, nata insieme alla scienza moderna, nel XVII secolo, sull’onda della crescente matematizzazione delle regole di comportamento della natura e del fascino esercitato dall’idea di automa, estrinsecata nelle celebri bambole meccaniche di Descartes. L’immagine della realtà come una gigantesca macchina, dal comportamento automatico, culmina nella visione di Laplace, per la quale – pur di avere a disposizione un intelletto sufficientemente capace e un tempo abbastanza lungo – ogni elemento del mondo sarebbe conoscibile e prevedibile in ogni suo aspetto.
In precedenza, tuttavia, l’universo non era concepito come una macchina, ma come un organismo vivente. Un animale. Tanto da essere dotato di anima, una sua propria anima mundi: idea che risale almeno a Plotino, per il quale «l’anima dell’universo è simile all’anima di un grande albero che, senza fatica e in silenzio, governa la pianta». Su questa scia, appena prima dell’arrivo della scienza moderna, Marsilio Ficino scrive che «cosa che è della massima importanza, nel mondo, che è, come sappiamo, un animale, anzi il più perfetto, c’è più unità che in qualsiasi altro animale». E ancora che:
Senza dubbio il corpo del mondo, per quanto appare dal moto e dalla generazione, è ovunque vivo, cosa che i filosofi degli Indi provano a partire dal fatto che da ogni parte genera da sé esseri viventi. Pertanto vive per mezzo di un’anima che è presente ovunque a se stessa e perfettamente commisurata a esso.
La vita del mondo, in verità, che è insita in tutte le cose, si propaga in modo evidente nelle erbe e negli alberi, che sono quasi i peli e i capelli del suo corpo. Cova inoltre nelle pietre e nei metalli, come nei denti e nelle ossa. È diffusa anche nelle conchiglie viventi, attaccate alla terra e alle pietre. Tutti questi esseri infatti non vivono tanto di una vita propria, quanto della stessa vita comune del tutto.
Quanto il tutto è più perfetto che la parte, tanto è più perfetto il corpo del Mondo, che il corpo di qualunque animale. Certo inconveniente cosa sarebbe che il corpo imperfetto avesse l’anima, e il perfetto fosse senza anima.Chi è sì semplice che dica la parte vivere, e il tutto non vivere? Vive adunque tutto il corpo del Mondo. […] Chi negherà viver la Terra, e la Acqua, le quali danno vita agli animali generati da loro?
Concezione messa in ombra, come dicevamo, dalla razionalità scientifica, ma recuperata intorno alla metà del secolo scorso dall’ambientalismo, con l’ipotesi Gaia, oltre che da filosofi quali ad esempio Raimon Panikkar, di cui parleremo in seguito. Ma già la filosofia moderna aveva ripreso a esplorare l’antica ipotesi. Charles Peirce immaginò che le cosiddette leggi di natura fossero più simili ad abitudini che a regole matematiche, che tendevano a rafforzarsi col tempo: «C’erano deboli tendenze a obbedire alle regole che erano state seguite e queste tendenze erano regole a cui veniva prestata sempre più obbedienza in grazia della loro stessa azione». E William James si era espresso al riguardo senza mezzi termini:
Se […] si assume in modo radicale la teoria dell’evoluzione, bisogna applicarla non soltanto agli strati di roccia, agli animali e alle piante, ma anche alle stelle, agli elementi chimici e alle leggi di natura. Deve essere esistita una lontana antichità, si è portati a immaginare, in cui le cose erano davvero caotiche. Poco a poco, fra tutte le possibilità casuali di quel tempo, sono emerse alcune cose e abitudini connesse, e sono iniziati i rudimenti di un comportamento regolare.
Similmente Whitehead, per il quale «il tempo si differenzia dallo spazio per il fatto di ereditare degli schemi dal passato. […] Molti commettono l’errore di parlare di “leggi di natura”. Non esistono leggi di natura. Esistono solo temporanee abitudini di natura».
Allo stesso tempo, si sgretola il muro che le scienze avevano eretto per separare, all’interno della stessa realtà, ciò che è vivo da ciò che non lo è. Al riguardo, infatti, molte distinzioni appaiono arbitrarie e viene da domandarsi: e se, al di là di ogni distinzione artificiale, ogni cosa fosse viva?
[La seconda parte è stata pubblicata domenica 16 maggio ed è visibile qui]
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[Leggi l’intervista esclusiva a Rupert Sheldrake, edita in Italia da Progedit]
9 Maggio 2021 alle 14:52
Le suggestioni filosofiche che emergono da questo articolo sono interessanti perché aprono a considerazioni e ripensamenti in grado di scalfire e rimettere in discussione aspetti talmente condivisi nell’attuale pensiero occidentale da meritare il nome di “paradigmi” (nel senso di “visione del mondo” dato al temine da Kuhn). Chi mi conosce sa che ho ripetutamente sottolineato – su questa e altre riviste – i rischi connessi al trasferimento di teorie, affermazioni, modelli, e dimostrazioni da un dominio all’altro (in modo particolare da quelli scientifici a quelli sociologici o politici) (https://filosofiaenuovisentieri.com/2015/11/15/il-metodo-e-il-contesto-la-dottrina-darwiniana-e-le-ideologie-parassitarie-parte-i/; https://filosofiaenuovisentieri.com/2015/11/22/il-metodo-e-il-contesto-la-dottrina-darwiniana-e-le-ideologie-parassitarie-parte-ii/). A questo proposito, basti pensare al mare di corbellerie che vengono dette e scritte in tanti ambiti del sapere – e del non sapere – invocando i principi della meccanica quantistica, primo fra tutti il principio di indeterminazione di Heisenberg.
L’articolo di Calabrò, però, va ben oltre il banale trasferimento del concetto di evoluzione da un dominio all’altro. L’articolo parte da una domanda sulla legittimità di estendere il concetto e i meccanismi dell’evoluzione dall’ambito biologico allo “sviluppo dell’intero universo”. La riflessione però va ben al di là di questa prima domanda, e applica ricorsivamente la questione filosofica – che diventa pertanto sistemica – alla legittimità di estendere i concetti e i meccanismi dell’evoluzione alla dinamica stessa dell’evoluzione, elevando la questione dal mero livello tecnico a quello riguardante l’ontologia (o ontonomia, usando il glossario di Raimon Panikkar) universale.
È una questione, questa, che ci riporta alla radice del pensiero, e non solo di quello occidentale. L’affermazione che Platone (Cratilo) mette in bocca a Eraclito: «Tutto si muove e nulla sta fermo», potrebbe anche significare non solo che “tutto scorre”, ma che scorre anche il fenomeno stesso dello scorrere. Così, ciò che avviene in un contesto agisce sul contesto stesso e, ricorsivamente, su se stesso. È in questo senso, credo, che Calabrò, richiamandosi a Peirce, James, e Whitehead, afferma che non esistono leggi universali ma “solo temporanee abitudini di natura”. Mi viene da pensare (e lo dico da ex uomo di scienza) che parlare di “leggi di natura” riflette una certa quale arroganza da parte di chi stabilisce che una particolare relazione tra determinati “fatti” è una “legge di natura” universale. Questo genere di affermazioni, anche quando sono implicite e mai apertamente esplicitate, tende inconsapevolmente a mettere a tacere ogni possibile tentativo di speculazione filosofica attorno alla natura delle cose, incluse le leggi di natura universali.
Il carattere ontologico della analisi di Calabrò porta una ventata di novità sulla riflessione epistemologica sul tema dell’evoluzione. Rimango in febbrile attesa del prosieguo di queste riflessioni nella seconda parte dell’articolo.