Nella storia della civiltà occidentale il discorso politico ha incrociato più volte (e continua tuttora) il suo cammino con l’esercizio della retorica e il conseguente ricorso alla segretezza. Nelle società antiche specie nel mondo romano, il ricorso alla riservatezza e alla dissimulazione erano aspetti decisivi per assicurare il bene della res publica garantendone di fatto la sua integrità. La salus rei publicae doveva essere preservata anche grazie alla delicata architettura di poteri occulti icasticamente rappresentati dagli arcana imperii et dominationis di tacitiana memoria mediante i quali il ricorso alla riservatezza e persino alla menzogna era in grado di alimentare il fisiologico rapporto tra imperium e secretum. La moderna visione liberaldemocratica della politica sembrerebbe al contrario aver stigmatizzato il ricorso alla menzogna politica, esprimendo l’interesse a perseguire un controllo del potere esercitato dal popolo nelle forme previste dai nuovi modelli civili prima ancora che politici. L’idea di una tale forma di “potere visibile” avrebbe dovuto sancire una rottura netta rispetto al passato, ristrutturando dall’interno gli strumenti di controllo del potere, attraverso i quali si era riusciti per secoli a legittimare in modo pressoché assoluto l’auctoritas dei sovrani secondo il principio quod pricipi placuit, legis habet vigorem (Il giurista Ulpiano (II secolo d.c.) precisa: «Quod principi placuit, legis habet vigorem: utpote cum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem conferat.». Digesta, I, 4, 1.)
Tuttavia, al di là dei proclami di matrice illuministica e liberale sul dover perseguire sempre la chiarezza come obiettivo del discorso politico, la questione riguardo ad un possibile ricorso alla segretezza nella dialettica politica, continua a sollevare ancora oggi molto interesse e altrettanti dubbi, rimanendo nell’ombra di molte democrazie contemporanee. L’aspetto relativo alla costruzione del consenso dei cittadini pone dunque tutt’ora, le democrazie di fronte a grandi interrogativi. Per rendersi conto della portata della questione, basta tener presente che gli individui di una società, soggetti a strumenti di persuasione retorica, presto o tardi si troveranno a sperimentare un progressivo indebolimento delle loro reali possibilità di attuazione del consenso mediante un’approvazione piena e soprattutto priva di qualsiasi forma di condizionamento dovuto ad ingerenze esterne.
Alcuni di questi interrogativi appena sollevati, si ritrovano con esiti tutt’altro che democratici anche alla base della riflessione politica di Leo Strauss. Per il filosofo tedesco il discorso pubblico è ampiamente dominato da elementi retorici e simbolici che influenzando profondamente la struttura della razionalità moderna hanno costretto la filosofia a ripiegare nel campo dell’ideologia al servizio di un potere costituito. Nel contesto della filosofia politica questa situazione genera una impasse decisiva tanto sul piano del pensiero quanto su quello dell’azione; gli uomini infatti non riescono più a compiere una riflessione genuinamente filosofica in grado di produrre nuova conoscenza riguardo alle questioni capitali dalle quali dipende il loro stare insieme. Per Strauss il dispositivo concettuale che sta alla base del discorso politico moderno è caratterizzato da una forte neutralità di fondo che rende inaccessibile e impensabile qualsiasi riferimento al problema della giustizia come centro gravitazionale di ogni progettualità politica. A suo dire, uno dei principali errori della modernità sarebbe stato proprio quello di aver pensato di poter risolvere il problema politico effettuando uno spostamento dal piano dei valori a quello dei bisogni, affrontando questioni politiche per via economica e sostituendo al diritto naturale degli antichi la moderna scienza giuridica, concentrata su una soluzione verticale del conflitto tra valori e pertanto sicura della sostanziale impossibilità di poter distinguere tra l’essere e il dover essere. All’interno di questa crisi del pensiero politico moderno, il discorso pedagogico assume per Strauss una posizione particolarmente importante soprattutto alla luce di quel drastico ridimensionamento del ruolo paidetico della filosofia in favore delle competenze ben più trasversali delle scienze sociali. Strauss osserva che peccando di pigrizia morale e intellettuale, l’educazione nella modernità si sarebbe col tempo limitata sempre più a fornire un insieme di nozioni sufficienti ad “addestrare” gli individui piuttosto che provare a educarli. Il rapporto conflittuale tra insegnamento e apprendimento avrebbe dunque trovato nell’ideale moderno di civiltà il terreno adatto per poter prosperare, acuendo di fatto le differenze tra élite e massa. A questo si deve aggiungere che il delicato tema dell’educazione dei membri della società ha dovuto spesso fare i conti con l’impaziente necessità dei governanti, i quali hanno sempre cercato di far accettare al popolo un regime di valori e comportamenti che potessero garantire sicurezza e pace sociale e contestualmente rendere gli individui moderatamente coinvolti e coscienti del sistema culturale e politico di cui erano parte. Ed è proprio in questo iato che Strauss intende inserire il ricorso al linguaggio retorico quale strumento di manipolazione e di dominio di una classe di governanti illuminati sul popolo. Ripercorrendo le alterne fortune politiche della modernità e recuperando implicitamente la distinzione tra gli aristoi e l’òchlos, il filosofo tedesco vedeva nella democrazia liberale non una forma di governo ideale, espressione di libertà e uguaglianza, bensì la concepiva platonicamente come un regime nel quale governano coloro che sono preda delle passioni e che dunque possono facilmente cadere vittime di un capopopolo (demagogo) o peggio ancora di un tiranno. Nell’agone politico della modernità, la filosofia di matrice socratico-platonica è destinata a non trovae più posto; l’unica difesa di cui essa può disporre è la dissimulazione che consente al filosofo di continuare a compiere la sua ricerca mantenendo vivo quell’atteggiamento scettico e aperto alla ricomprensione noetica del reale, in pieno accordo con lo spirito socratico. La filosofia è pertanto scepsi zetetica (Leo Strauss, Sulla Tirannide 1959, trad. it. a cura di Antonio Gnoli, Biblioteca filosofica Adelphi, Milano 2010, pp. 115-116) perché distante da qualsiasi svolta decisionista, anche se il pensiero moderno sembra averlo dimenticato preferendo orientarsi verso un’analisi neutrale delle questioni politiche che escludono dal loro orizzonte qualsiasi tentativo di problematizzare la natura della giustizia come momento genetico del politico. La critica alla modernità e il recupero della filosofia antica come unità di legge e natura, divengono in Strauss le pietre di paragone sulle quali saggiare le reali potenzialità del liberalismo moderno e della democrazia rappresentativa nell’affrontare l’ordine delle cose umane, senza perdere mai di vista il conflittuale rapporto tra verità e potere. Strauss sviluppa dunque un grande interesse verso l’analisi del discorso retorico in continuità con la pratica della filosofia; in particolar modo per quel che riguarda un possibile impiego della nobile menzogna platonica, che considera come il primo e più efficace esempio di strumento mitico-retorico impiegato per fini pedagogici, all’interno degli schemi educativi della città. Egli intende riconnettere strettamente la funzione paidetica della filosofia con la politica, scorgendo nelle molteplici declinazioni della prima, una possibile soluzione-comprensione del rapporto conflittuale tra sapere e potere. D’altronde, la continuità tra questi due ambiti è resa possibile dal fatto che la vita politica trae la sua linfa vitale da un insieme di contraddizioni che condizionano anche il percorso della ricerca filosofica perché provengono dallo stesso spazio storico e culturale della città. La presenza di diverse costituzioni politiche è pertanto il riflesso dell’altrettanta varietà di stratificazioni storiche; questo spiegherebbe il perché la vita politica è intrinsecamente imperfetta e limitata, nonché il frutto spesso amaro di scelte arbitrarie che devono essere continuamente poste in dubbio dall’indagine filosofica. Per Strauss il discorso filosofico sul politico porta quindi uno stravolgimento generale nella sfera dei costumi caratterizzanti le diverse comunità di uomini, le quali s’identificano di volta in volta con quelle forme di giustizia storicamente vigenti. (Cfr. Leo Strauss, Diritto Naturale e Storia, a cura di Nicola Pierri, Il Melangolo, Genova 2009, pp. 92-102). L’autorità politica nel rappresentare questo costume dominante, lo codifica sotto la forma della legge ma è portata pur sempre a dover dissimulare fingendosi ad un tratto natura. Il risultato è la creazione di un’identità collettiva che deve passare inesorabilmente attraverso il filtro del mito politico prima di divenire simbolo socialmente accettato di una verità condivisa. La comunità politica appare pertanto come un universo chiuso nel quale agiscono diversi attori i quali partecipano a loro volta con un peso differente l’uno dall’altro al processo di costruzione dell’identità sociale. Strauss avverte questo rapporto d’identificazione tra l’individuo e la sua comunità come profondamente complesso: ogni cittadino versa infatti in un perenne stato confusionale poiché diviso tra ciò che egli pensa e ciò che il suo gruppo lo porta a credere. È a questo livello che entra in gioco l’elemento mitico mediante il quale può esser tradotto in un linguaggio socialmente comprensibile e ampiamente condiviso, il problema della legittimità della legge, delimitandone i confini unilateralmente come dike ovvero quell’insieme di regole e prescrizioni di comportamento degli uomini tra di loro e poi con gli déi in quanto garanti dell’ordine cosmico. In Strauss, ricontestualizzare il ruolo dell’artificio retorico-politico significa dunque voler operare un riposizionamento della filosofia nella città dal momento che lo spazio del politico, come si è visto, si trova in continuità con quello mitico-teologico, il quale a sua volta consente alla filosofia di poter affrontare con maggiore serenità il problema dei limiti artificiali della comunità e di rimando la questione della giustizia. Al fondo di tutto ciò, si trova poi una visione profondamente realista della natura umana che divide gli individui in aristoi e plethos. Una volta aver accettato questa suddivisione all’interno della caverna politica, Strauss può legittimamente seguire due diversi percorsi educativi, uno pensato appositamente per il popolo e fondato sulla fiducia ottenibile mediante il ricorso a strumenti retorici; l’altro indirizzato alle sole anime di coloro i quali condividono la passione per la conoscenza disinteressata. È inoltre importante notare riguardo a questo punto, come Strauss ritenesse questa sua duplice soluzione attuabile non solo nelle tirannidi ma anche nei moderni stati democratici. Tracciata dunque questa linea di demarcazione netta tra il filosofo e la città, il ricorso alla dissimulazione nel discorso politico può aspirare finalmente a diventare davvero l’unica alternativa percorribile per la filosofia nella profonda notte in cui sembra essere sprofondato il pensiero politico moderno. Tuttavia, sembra emergere dalla riflessione straussiana un decisivo distacco aristocratico che imponendosi come movente principale delle proposte in ambito pedagogici-politico, non produce a mio modo di vedere, alcuna critica autenticamente costruttiva nei confronti di quella forma politica storicamente realizzatasi nella modernità, la quale viene invece pensata sempre in difetto rispetto ad una potenziale idea che teoreticamente dovrebbe agire da modello. Il risultato di tutto ciò sembrerebbe collocare la proposta straussiana entro le stesse categorie del pensiero ideologicamente fondato della scienza politica attuale. L’immagine che Strauss traccia del liberalismo democratico come ambito della mediocrità intellettuale e del pensiero massificato della società della tecnica, sembra reggersi su una serie di forzature e di interpretazioni alle volte troppo arbitrarie e di parte. Nello specifico, mi sembra che la crisi della modernità tratteggiata da Strauss, finisca col peccare di eccessive semplificazioni soprattutto per quel che concerne la riduzione del pluralismo etico e culturale a scevro relativismo valoriale. Nell’elaborare la sua idea di decadenza morale dello stato di diritto liberaldemcratico, Strauss rivolse lo sguardo alla filosofia antica e alla sua idea di società, pensando la politica in termini organicistici. La conseguenza principale rispetto a questo modo di filosofare, se preso integralmente e riproposto nella modernità, è destinata a produrre a mio avviso, una totale mancanza di responsabilità morale nei confronti della nuova idea di politica nel cui centro si trova ormai stabilmente l’individuo socialmente costituito come unico polo di attrazione della coerentizzazione dello spazio comunitario. La soluzione prospettata da Strauss riguardo all’annoso problema della limitatezza dell’azione politica e consistente nel disprezzo della cultura di massa, lascia in eredità come sola possibilità, una visione destinale dell’occidente massificato e tecnologico le cui responsabilità non sembrerebbero in ultima istanza interessare la filosofia. Mi sento di dire che in un orizzonte di pensiero così delineato, l’azione di momentanea stabilizzazione da attuarsi mediante una noble lie, potrebbe soltanto alimentare un atteggiamento di maldestra tracotanza intellettuale in grado di disarmare la stessa filosofia e i suoi veri rappresentati. Difatti, la legittimazione del potere politico nelle mani di un ristretto numero di sapienti per essere davvero valida e incontrovertibile, dovrebbe poter trovare una sua fondazione de iure tra gli uomini; cosa questa che invece non può verificarsi in Strauss soprattutto se rapportata alla sua idea di filosofia in cui filosofare vuol dire socraticamente compiere una interrogazione radicale e continua intorno ai problemi costitutivi dell’esistenza umana. Anche per una tale ragione sono portato a pensare che il realismo politico straussiano – lungi dal caratterizzarsi come un’analisi schiettamente filosofica di quello spazio pratico-prudenziale che è la società politica liberale – tenda piuttosto a rendere la filosofia un meccanismo di dominio e consenso volto a rispecchiare e consolidare la sostanziale disuguaglianza radicata nelle società umane. A onore del vero, bisogna riconoscere che le moderne democrazie liberali pur con le loro numerose imperfezioni, concedono a tutti gli individui le loro libertà e non hanno pretese di onnipotenza sul controllo integrale della comunità; in esse vi è spazio anche per i filosofi che possono esercitare pienamente il loro magistero della verità, aspetto questo che non poté passare inosservato agli occhi dello stesso Strauss. Pertanto, il liberalismo democratico diversamente da quanto aveva previsto il filosofo tedesco, non radicalizza affatto le difficoltà insite nella natura umana; la sua intima forza consiste al contrario nel riconoscimento consapevole della limitatezza che ogni regime presenta per sua stessa costituzione e che per tale ragione non può essere emendata in via definitiva, pena l’azzeramento generale di tutte quelle differenze che compongono lo stesso essere sociale e quindi di rimando il terreno ideale della filosofia intesa come opinione (della città) rettificata. Ecco perché lo squilibrio che Strauss rivede nella caverna politica della modernità e che vorrebbe controllare nel nome dell’ordine a dispetto della libertà, potrebbe generare degli stravolgimenti ancora maggiori oltre che difficilmente controllabili se posti al di fuori di una perimetro giuridico-costituzionale com’è quello garantito dalle moderne democrazie liberali. La demagogia e il ricorso agli elementi decettivi, lungi dal facilitare il naturale processo di produzione del consenso, possono soltanto dar vita ad un pericoloso strabismo tanto nell’ambito del conoscere quanto in quello dell’agire. Snaturando la filosofia e segnando irrimediabilmente lo spazio comunitario della dialettica politica, l’unica alternativa non può che essere la sottomissione ideologica e la tirannia delle parti.