> di Giuseppe Brescia*
Sommario. 1. Ermeneutica filosofica. Accezioni di ‘Vitalità’ e ‘mondo della vita’. 2. Il vivente originario e il sentimento – tempo nella ‘quadratura’. 3. Schema della simbolica spirituale e ‘coincidentia oppositorum’. 4. La fondazione della concezione hegeliana del finito e la teoria del giudizio. 5. Psicologia e medicina. 6. Il caso di Alberto e l’esigenza di ‘qualificare le emozioni’. 7. “Che cos’è la vita ?”. 8. La questione degli opposti. Vico e Croce, ‘filosofi olistici’. 9. Tempo e vita nel pensiero occidentale e ne ‘I Ching’. 10. “Mememormee”. Archetipo dell’acqua.
Parte II di IV
Per leggere le precedenti parti:
- Schema della simbolica spirituale e ‘coincidentia oppositorum’
Propongo un ‘quadro’ i cui innesti sono segnati in lingua franca, così da mantenere linguisticamente la tri-unità del “tempo”, singolare e plurale, “le Temps”, sull’asse delle ordinate, accompagnate al centro da “Simultaneité” , in basso da “Succession” e in alto da “Permanence”; mentre la dinamica del sentimento, la “dialectique du coeur”, è segnata sull’asse delle ascisse. Nei quattro quadranti che si aprono a ventaglio, in alto a sinistra Saint-Exupery illumina la prospettiva del sentire: “Non si vede bene che col cuore; l’essenziale è invisibile agli occhi”. In basso a sinistra, si afferma la regola kantiana della terza Critica, 1790: “E se il Giudizio dia a priori la regola al sentimento di piacere e dispiacere,come al termine medio tra la facoltà del conoscere e la facoltà del desiderare, ecco ciò di cui si occupa la presente Critica del Giudizio”.
Nel quadrante in alto a destra, come esplicitazione del problema del ‘nostro’, e del ‘suo’, tempo, in lotta contro i cascami del positivismo, sottolineo il pensiero di Henri Bergson, 1902: “Ce qui Je prétende c’est que ce travail de l’esprit qui transcende la logique ne doit pas d’ etre illogique, et doit pouvoir toujours réduire la plus grande partie de nous-memes en termes logiques”. Questo concetto, invero scaltrito dalla esperienza di Schopenhauer e Hartmann, è anche nel saggio crociano del 1908 Dal primo al secondo Schelling ( Saggio sullo Hegel , Bari 1967, pp. 329-338 ), con la critica della “volontà come qualcosa d’irrazionale e d’illogico”: “Ma la volontà non è logicità né illogicità: è volontà: essa si congiunge molto bene con la logica, e perciò non è illogica; ripugna all’antilogico, eppure non è logica; volontà e conoscenza sono insieme distinte e unite, ed entrambe elementi del reale”. E nel 1907, anno della memoria Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, Croce tracciava le differenze tra ‘Vitalità’ e ‘volontà di vivere’: “L’individuo vive nella società come societas hominum; e anzi, in quella più vasta società, societas rerum, che è la natura, e include in sé l’altra. Isolato non è mai; tale non è nepputr il Robinson dei romanzi e dei trattati di economia; non solo per la ragione detta più volte, che egli proviene da una societase la serba nel suo spirito, ma per quella più fondamentale, che Robinson, anche senza Venerdì, è in relazioni con animali, piante e fatti naturali, ossia con altrettante determinazioni dell’Idea, come avrebbe detto Hegel, o oggettivazioni della Volontà, come avrebbe detto Schopenhauer !” ( in Primi saggi, Bari 1927, pp. 17-25 ). “Se non c’è rosa senza spine”, nota lo Schopenhauer in un passo di Parerga e paralipomena, “è anche vero che ci sono molte spine senza rose”. Il male consiste nella dialettica di vita e morte insita in ogni organismo, la cui manifestazione caratterizza la “volontà di vivere”, fino al suo progressivo annichilimento come Noluntas ( I conti con il male, Bari 2015, pp. 93-102 ).
Nel nostro diagramma, al quadrante alto, corrisponde precisamente, in basso a destra, una nota dello stesso Benedetto Croce, del 1912, a proposito dell’intreccio prospettico di sentimento e tempo: “Senza il piano non si può avere il rilievo; senza il periodo di apparente calma non si può avere l’istante di commozione violenta”. Bergson significa l’esigenza che il ‘vitale’ non decada in Irrazionalità, o illogicità, pura (come Thomas Mann porrà in guardia verso ‘Nostro fratello Hitler’ ). Croce riceve, a suo modo, la classica dottrina della “catarsi”, pietà e terrore – timore e speranza – cautela e ardimento, nel farsi dell’azione, cioè nel “dramma” come categoria dello spirito. Avverto ( in caso ve ne sia bisogno ) che codesto ‘schema’ non ritiene alcun valore matematico o scientifico, dovendoci anzi guardare dalla indebita trasposizione di concetti in diagrammi o piani cartesiani; ma sì – bene – di simbolica spirituale, entro cui evidenziare lo sforzo di “trascendere la logica” senza cadere nell’ ‘illogico’, ed ospitare il “vitale” senza idolatrarlo come ‘hybris’, male assoluto, Ge-stellung. (Cfr. H. Bergson, L’idée de Temps. Cours au Collège de France 1901-1902 , ed. P.U.F, Paris 2019; Thomas Mann, Der Zauberberg (1912-1924); Scritti minori (1938), Milano 1958, p. 374; Epistolario 1899-1936, Milano 1963, pp. 693-698 del carteggio con Enzo Paci, autore di Ingens Sylva ed Esistenza e immagine, Milano 1950; con i miei Tempo e Libertà, cit. 1984; L’anima e l’Occidente; Del vitale, cit., 2001 e 2010; Il sogno di Castorp e il progetto di Pico, Laterza, Bari 2003, pp. 12-39.) Peraltro, Pantaleo Carabellese riteneva “sentimento” e “tempo”, formazioni “coeve”. (P. Carabellese, Critica del Concreto (1921), 3^ ed., Sansoni, Firenze 1940; La filosofia dell’esistenza in Kant, 1940-1943, a cura di Giuseppe Semerari, Bari 1969; L’essere e la sua manifestazione. I. Dialettica delle forme, voll. 3 ( 1943-44, 44-45, 45-46 ), Castellani, Roma 1947; II. Io ( 1946-47 ); poi, L’attività spirituale umana ( 1947-48 ); Luciano Anceschi, La ‘terza parte’ del sistema e il pensiero estetico del Carabellese in Giornate di studi carabellesiani, Silva, Milano 1964, pp. 75-93; Giuseppe Brescia, Questioni dello storicismo. II. Il tempo e le forme, Editrice Salentina, Galatina 1981,pp. 11-79). E, perciò, la “misurazione” sugli assi cartesiani qui si traduce nella scansione delle “forme ideali” del tempo. L’intelletto astraente viene adoperato in via sussidiaria e non qualitativa; un poco come accade con la divisione in quadranti, nello stemma della teoria dei colori di Goethe, proponendo uno ‘schema’ che ospita per metà di ogni categoria uno ‘spicchio’ di qualità valoriali.
La “divisione” è, sì, in Goethe, geometrica e spaziale; ma anche più che spaziale o territoriale, articolandosi in assiologia, ‘dialettica delle forme’ ( disutile-bello; bello-nobile; bene-utile; utile-comune ). Il bello e l’utile sono i due valori qui ‘con-divisi’ , rispettivamente, tra la Fantasia e la Ragione pensante, e tra Intelletto astraente e Sensibilità, come funzioni delle “due scienze mondane”, individuate dal Croce in un celebre saggio del 1931. Il disutile, il nobile e il comune – per parte loro, nello stemma goethiano – non ‘con-dividono’ alcuna sfera valoriale operativa; ma pertengono solo alla ‘inutilità’ dell’Arte ( Fantasia ); alla ‘nobiltà’ della Ragione pensante; e alla ‘comune base’ vitale della Sensibilità. Mentre i colori sfumano; dividono e non dividono; ci sono, ma trascolorano cangiando d’intensità al centro ( rosso, arancione, giallo, verdino, azzurro, fucsia ). La mente del genio segue passo passo le metodiche e gli strumenti che l’intelletto le mette a disposizione; pur alludendo ad una logica qualitativa di tipo diverso, filosofica e ontologica, atteso che filosofia è scientia qualitatum, rapporto tra vita e forme di attività spirituali.
Identica logica viene impiegata nella vasta fenomenologia del “momento culminante” nel dramma; e cioè, poiché tutta la vita si realizza come “azione”, e “dramma” ( dal greco *drao ), in tutte le narrazioni del “mondo della vita”. Le trecento domande cosmiche che Joyce pronuncia nell’addio tra Leopold Bloom e Stephen, sono il pretesto per il Rallentamento del tempo, la “sospensione dell’addio”, dunque una forma di dialettica dei contrarii, proiettata nelle misurazioni e dimensioni autobiografiche, galattiche, geografiche, storiche, termiche, astronomiche e matematiche. E più Joyce si inpegna nel giuoco delle interrogazioni spazio-temporali, più lascia intendere che esse interrogazioni stanno, e non stanno, di per sé, servendo – piuttosto – a “fermare il tempo” ( se mai ciò fosse possibile, come a ‘ritardare’ il momento dell’addio). E, così, il genio irlandese riprende l’episodio della “cicatrice di Ulisse” al XIX canto dell’ Odissea, il canto di Euriclèa: allorquando la nutrice riconosce dalla ferita il caro signore, ma si trattiene dal parlare e dal tradirlo dinanzi ai Proci. Anche Omero, con mezzi diversi, “ferma il tempo”, aprendo puntuale e minuta descrizione della battuta di caccia al cinghiale, in cui Ulisse si era procurata la ferita, descrittiva distesa per circa novanta versi (386-475). Trecento domande universali in Joyce, ispirate al ‘senso del celeste’; novanta versi ‘terreni’ in Omero, vergati nello stile del “realismo”, in perfetta aderenza alla “Mimesis” ( come Erich Auerbach ha insegnato in una magistrale narrazione del “realismo nella letteratura occidentale” ). Ed è così: il realismo descrittivo della battuta di caccia esiste e insiste in Omero. Ma – si badi – esso sta per qualcos’altro: per la intensa dialettica emozionale provocata dal “riconoscimento” di Ulisse ( sorpresa, stupore, timore, speranza, incoraggiamento e cautela, fedeltà e presentimento del nuovo e forse imminente avvenire, attesa della vendetta e del pieno ritorno a casa del padrone ), ma che Omero simbolizza nella coincidentia oppositorum gioia-dolore: “Ora la vecchia, toccando la cicatrice con le due mani aperte, / la riconobbe palpandola, e lasciò andare il piede. / A lei Gioia e angoscia insieme presero il cuore, i suoi occhi / si empirono di lacrime, la florida voce era stretta” ( vv. 467-472 ). Così, il “senso del celeste” e il “senso del terrestre” hanno sorti affini, pur distanti duemila anni, e per opposti stili: la allusione al momento della “dialettica delle passioni”, che abbisogna – per render l’idea della propria in-tensità – di una significativa sospensione del tempo. E’ una “epifania” all’incontrario, ‘à rebours’, o nei modi e negli stili concepiti dal poema epico e nella giornata ulisside e borghese dell’ uomo moderno, latore di valori universali. (Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946), voll. I-II, ed. it., Einaudi, Torino 1968. – Per l’arcano teatrale, v. Gustave Flaubert, Correspondance, Paris 1904, IV, p. 180 ( lettera a George Sand del 1874 ); B. Croce, Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana ( 1908 ), Bari 1966, p. 113 con le Deformazioni di una mia teoria estetica (1912), poi in Pagine sparse, Bari 1960, I, pp. 510-516) “Here Comes Everybody” , “Hecco Che passa Ognuno”, ripete Joyce nella Veglia di Finnegan.
Inoltre, la fenomenologia del momento culminante conosce una serie impressionante di esperienze e diramazioni: l’ ‘epifania’; il ‘climax’ in Shakespeare; la prospettiva radicalmente nuova dell’arte di Caravaggio; le quattro fasi del “Sacrificio di Isacco” in Aut Aut di Soren Kierkegaard; la musica in Proust come ‘tempo’ e ‘intermittenze del cuore’ della Recherche; il dis-velamento dell’essere, come A-letheia in Heidegger, e la poetica di Montale ( I limoni; Meriggiare pallido e assorto ); l’ “arcano teatrale”, che sorprende Gustave Flaubert nei suoi scritti critici e nell’ intensa Correspondance; il concetto di “aura” presso Walter Beniamin e l’ Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; fino al clic individuato nell’arte della fotografia, e poi esteso da Mario Fubini a canone della poesia e della critica estetica. Ma c’è un aspetto comune a tutte le casistiche, che sottolineo: la ‘dialettica delle passioni’ nel suo temporalizzarsi, nel farsi ‘prospettica’. Avendone già parlato in altra lettura, proseguo con il caso di Joyce, autore dei “Fogli Triestini”, e del giovanile Giacomo Joyce, per la pagina IX, prodromica ai Dubliners e all’ Ulysses, attinente la musica dell’ “Addio”. Musica languida di una canzone del 1584, “Restìo all’addio”, di John Dowland, che esprime la “malinconia del distacco” ( Lia Guerra ); meglio, la “resistenza all’addio”. “I play lightly, softly singing, John Dowland’ s languid song” ( rigo 10: ‘Suono leggermente, dolcemente appena cantando, la languida canzone di John Dowland’).
“Loth to depart: I too am loth to go” (rigo 11 del testo joyciano: ‘Restìo all’addio. Restìo anch’io ad andare via’ ). E’ la stessa dialettica di resistenza e congedo, nel momento del distacco, centrata alla penultima stazione dell’ Ulisse. (Cfr. Fogli triestini. Giacomo Joyce, in “Joyciana” 2, a cura di Lia Guerra, Pisa 2007, pp. 98-99 per la trascrizione della Pagina IX del manoscritto originale e la pag. 101 per la prosecuzione del commento; con il mio James Joyce. Lettera dalla posterità, ITES Carafa di Andria, “Percorsi e Discorsi”, del marzo 2019; e in Generazioni del Tempo, Matarrese, Andria 2018, pp. 156-196) Joyce porta alla luce le “origini della dialettica”. Come l’arte, ‘opera di verità’ in Caravaggio, illumina con straordinaria potenza la “coincidentia oppositorum” nella mano al centro della Resurrezione di Lazzaro (1609): “Portami con Te ! No, voglio dormire!” – “Voglio vivere! No, voglio morire!” – “Sì vengo ! No, lasciami stare!” ( detto da Lazzaro a Cristo ). Let me be, let me live !; ‘Mamma, lasciami stare?, scandisce il cuore di Joyce, tra i mille intrecci simbolici e affettivi della “resistenza all’addio” e del “distacco” ! Sostando su questo luogo, ricordo la novella conclusiva di Dubliners, The Dead, “I morti”, e donde il regista John Huston osò ricavare un film: novella che evoca nelle pagine finali la discesa continua della neve, che sembra a Gabriel seppellire tutti i vivi e tutti i morti, in un sistema musicalmente incrociato di espressioni: “His soul swooned slowly as he heard the snow falling faintly through the universe and faintly falling, like the descent of their last end, upon all the living and the dead”. Di cui, tra le tante, pongo la mia interpretazione, che serba l’inversione musicale dell’ordine dei termini, ‘falling softly’ e ‘softly falling’, a mente del ‘softly singing‘ della languida canzone di Dowland: “La sua anima svanì lentamente, mentre egli ascoltava la neve cadere lievemente per tutto l’universo e lievemente cadere, come la discesa verso la loro ultima fine, su tutti i viventi e su tutti i morti”. (Dubliners (1904-1914), Grant Richards, 1914; Gente di Dublino, trad. Lami, Milano 2002.)
Altro esempio. Nel film La struttura di cristallo del regista polacco Krzystof Zanussi ( 1969 ), i protagonisti e amici Marck e Jan sono stati promettenti allievi della facoltà di fisica. Poi le loro strade si sono divise. Marck ha scelto la carriera dedita alla scienza – non senza soddisfazioni pratiche. Jan predilige invece la vita di campagna, con la moglie, occupandosi di una stazione meteorologica. Marck non riesce a convincere l’amico a tornare all’attività di ricerca scientifica, pur prestigiosa. Ma quando Marck mostra a Jan i propri appunti, con ipotesi scientifiche originali sulla struttura del cristallo, il regista usa l’espediente di sospendere il dialogo, abbassato così a muto, e di rianimare il bianco e nero scabro ed essenziale della scena con vibrazioni di note musicali. La musica è relazione, ( ci dice l’autore ) rapporto di anime a colloquio, concordia discors di punti di vista pluriprospettici, esistenziali e vitali. Ma, comunque, è ‘modalità relazionale’, incastro di esperienze, reciproco penetrare di affetti e pensieri dell’uno nell’altro e dell’altro nell’uno; come il “Filosofo, fa musica” del platonico Fedone 61a riflette una verità più profonda della narrazione empirica esterna. “E io credevo che il sogno mi volesse incoraggiare a fare quello che facevo, cioè la musica che già facevo, in quanto la filosofia è la musica più grande” ( Socrate ). Mentre il sogno si riferiva propriamente alla “musica”. La ‘musica’, il ‘musiken poiein’, comprende e accoglie in sé la virtù della “temperanza”, come in Protagora 333, l’altro dialogo platonico che perviene a trattare lo “sciame delle virtù”, di cui è moderatrice – dialetticamente – la virtù ‘modale’ della temperanza. Così, il ‘vitale’ abbraccia: il punto o momento di scaturigine e incrocio tra sentimento e tempo; la ‘relazione’ interpersonale; la descrizione fenomenica e la sensibilità comune ( il ‘gemein’ di Goethe, nello stemma della “Teoria dei colori” del 1810 ); insieme il nesso io-cosmo; la tessitura complessa del rapporto, la ‘lunghezza d’onda’ in termini fisici, la ‘musica’ come modalità relazionale di affetti e pensieri, ed ancora il trans-colorare delle giacche nei Giocatori di carte di Cezanne (1890-1892), a seconda dei contesti filosofici, cinetici o artistici tolti in esame.
Inoltre, l’identità musica-filosofia, in quanto temperanza delle virtù e modalità relazionale tra la vita e le forme dell’anima, è approfondita in Timeo 87c – 88d: “Ora è ragionevole e conveniente, in contrapposizione alle cose dette, mettere in correlazione ciò che concerne la cura dei corpi e delle menti e in quale condizione si possono salvare. Infatti, è cosa più giusta che il discorso si soffermi di più sui beni che non sui mali. Tutto ciò che è buono è bello; pure il bello non è privo di miserie. Dunque, anche il vivente, per essere autenticamente tale, dobbiamo supporre che lo sia in giusta misura. (..) Dunque, chi ricerca il sapere oppure esercita molto l’attività razionale bisogna che procuri anche al corpo il suo movimento, prendendo dimestichezza con la ginnastica. E, a sua volta, colui che plasma il corpo in modo accurato bisogna che procuri, in compenso, le corrispettive attività della sua anima, facendo uso della musica e della filosofia tutta quanta, se veramente dovrà essere chiamato uomo bello e a un tempo buono a giusta ragione” ( sottolineature mie nel testo ).
L’armonia tra vita e forme, spirito e corpo, mente autocosciente ed esercizio fisico, tracciata da Platone, attraverserà tutto il pensiero antico, moderno e contemporaneo, fino alla dialettica delle forme da Kant a Croce, o alla psicoterapia e la “quadruplice radice dell’anima” in Carl Gustav Jung.
Pure, il quadro proposto è attendibile o almeno plausibile; ma non ancora del tutto esaustivo né soddisfacente. Anche il nesso sentimento-tempo, l’incrocio di dialettica e prospettiva, il maturarsi della “coincidentia oppositorum” nel movimento e nella relazione e il compimento della singolarità nella totalità attraverso la forma tetradica, possono rivestirsi di schematismo e di intellettualismo, punteggiandosi in uno schema e paludandosi in gelide maschere. Il ‘vivente originario’ può esser tradotto in soffio di morte; così come la ripetizione pedissequa dei “quattro”, nella varia fraseologia di Ulysses o Finnegans Wake, finisce a volte per stancare. Sempre governa la nostra dedizione all’interpretare, il momento in cui lo schema viene oltrepassato e calato nel reale, grazie alla ‘durata reale’, al tempo o al linguaggio che lo dis-occulta. “Come conoscenti fummo; come senzienti siamo; come agenti saremo”, compendiava la propria sintesi il teoreta della Critica del concreto Pantaleo Carabellese, maestro sia all’idealista Assunto che al fenomenologo Semerari. Ma il detto non ci soddisfece appieno. Ché, infatti, si sarebbe riproposta la tripartizione schematica, l’allineamento tra ‘regioni’ e ‘momenti’, la persistente ‘spazializzazione del Tempo’, senza la dèbita correzione: “In quanto conoscenti fummo; come senzienti siamo, ricordiamo di essere stati e stiamo per essere; come agenti, saremo”. Pregevole è la risorsa linguistica, che approndisce la dinamica dei tempi, là dove è possibile implementarla in senso qualitativo, e compenetrando il ‘sentimento’ con la ‘memoria’ e la ‘prospettiva’. Questo è il senso originario e musicale del Tempo agostiniano; è il ‘momentum’ delle Confessioni X e del De Musica. Tutto ciò presiede alla giustificazione del ‘diagramma’ di assi, la cui ‘misurazione’ è giocata nelle forme trascendentali del tempo non già dei numeri ordinali né di segmenti spaziali. E la ‘dialettica delle passioni’ non è puntiforme né territoriale, atomizzata e resecata dal processo del suo farsi ( ‘catarsi tragica’, ‘epifania’ ); ma è calata in un divenire, in un travaglio complessivo della coscienza morale ( in cui pietà e terrore si confermano espressioni culminanti ed esponenziali; comunque abitando un profilo di successione – simultaneità – permanenza ). Notevolmente, in senso processuale-prospettico, il Croce disse una volta della poesia che “in essa immane il passato, il presente e il futuro della umanità”. (La Poesia (1936), Bari 1963). Dialettica e tempo; dialettica e sentimento-memoria-tempo, sono sempre, per ciò, formazioni “correlative”. E quando non fossero assunte nè mantenute tali, decadrebbero a unilaterali statuizioni ( vacuo ottimismo e fatuo psicologismo o altrettanto unilaterale e vano pessimismo ), a “singolarità” resecate da ogni prospetto di “totalità”, epperò inerti ed improduttive. Si prenda, a conferma, e contrario, il caso della coincidentia oppositorum, lumeggiato, anche linguisticamente, da Sigmumd Freud, in pagine sempre acute ma non altrettanto profonde; rispetto alla più vasta latitudine della trepidanza della coscienza morale affermata nell’ umanesimo romanzo ( la nostra ‘sapienza dei secoli’; verso il carattere del ‘doppio significato’, ‘a due facciate’ ).
“L’essenziale relatività di ogni conoscenza, pensiero o consapevolezza non può non trasparire nel linguaggio. Se tutto quello che possiamo sapere è visto come una transizione da qualco’altro, ogni esperienza deve avere due facciate e o ogni nome deve avere un doppio significato, oppure per ogni significato vi devono essere due nomi”. (S. Freud, Opere 1909-1912, Volume sesto, Torino 1974, pp. 185-191; A. Bain, Logic, London 1870, vol. I, p. 54.) La delucidazione ‘dialettica’ insiste nella analisi onirica e psicolinguistica di Freud: “In latino altus significa alto e profondo, sacer sacro e sacrilego, sussistendo qui pienamente i significati opposti senza modificazione della locuzione. La variazione fonetica per separare i contrari viene documentata da esempi quali clamare ( gridare )- clam ( piano, di nascosto ); siccus ( secco ) – succus (succo ). In tedesco Boden significa ancor oggi sia la parte più alta che quella più bassa della casa. Al nostro bos ( cattivo ) corrisponde bass (buono ), nel sassone antico bat ( buono ) si contrappone all’inglese bad ( cattivo ), e in inglese to lock ( serrare ) al tedesco Lucke ( apertura ), Loch ( buco ). In tedesco kleben ( attaccare ), in inglese to cleave ( spaccare ); in tedesco Stumm ( muto ), Stimme (voce ) ecc. In questo modo anche la tanto irrisa derivazione lucus a non lucendo verrebbe ad avere un senso”. (Varrone, nel De lingua latina, aveva ipotizzato che il termine lucus ( bosco ) derivasse da lucere ( avere luce ), ma “in quanto il bosco ‘non’ luce”. Il paradosso linguistico ed etimologico divenne poi proverbiale per la incongruenza. Ma Freud, giocando sulla possibilità di oscillazioni semantiche del linguaggio, tende a giustificarne la interna contraddittorietà luce-non luce.) Ancora: “Per esprimere ‘senza’ l’inglese dice ancor oggi Without, dunque ‘consenza’, e altrettanto fa il prussiano orientale. Lo stesso with, che oggi corrisponde al nostro ‘con’, significava originariamente non solo ‘con’ ma anche ‘senza’, com’è tuttora riconoscibile in withdraw ( ritirare ) e withhold ( trattenere ). La stessa trasformazione ritroviamo nel tedesco wider ( contro ) e wieder ( insieme con )”. Poi ci sono le inversioni di significato, le inversioni fonetiche nel gioco dei bambini, i raddoppiamenti di radice: tutti elementi che sono confrontabili con il lavoro onirico e, per suo tramite, con le peculiarità dei contrari incorporati nella lingua egizia.
Conclusione, certo provvisoria, tratta dal Freud, è che: “ci è consentito vedere una conferma alla nostra concezione del carattere regressivo, arcaico dell’espressione del pensiero nel sogno”. (Freud, Opere 1909-1912. Volume sesto, cit., p. 191. – Il campione ermeneutico offerto dagli opposti in Freud, eminentemente statici e inerti, altro non è che un aspetto saliente della critica più avvertita alla psicoanalisi freudiana, improntata alla “fissità” e non alla “plasticità” della memoria e del cervello né al “dinamismo” delle elaborazioni inconsce, al dire di Vittorino Andreoli, Freud. Sette lezioni sulla psicoanalisi, Marsilio, Venezia 2019, Quarta lezione. Una critica, 75-91 e passim.) Ed è conclusione, che confrontiamo in un campo di letture contrastive del linguaggio dei contrari.
Jung mantiene, da parte sua, la narrazione “anfibologica”: “La lingua che parlo deve essere ambigua, ossia a doppio senso, per adeguarsi alla natura psichica col suo duplice aspetto. Io aspiro coscientemente e intenzionalmente alla espressione anfibologica , perché questa è superiore alla univocità e corrisponde alla natura dell’essere. Se seguissi la mia inclinazione, mi sarebbe assai facile essere univoco. Non è una difficoltà questa, ma la si realizza a spese della verità. Io faccio echeggiare intenzionalmente tutti i toni concomitanti perché da un lato essi sono comunque presenti, e dall’altro danno un quadro più completo della realtà” ( Ricordi Sogni Riflessioni, a cura di A. Jaffé, ed. it., Milano 1978, pp. 435-436 ). “Perciò, – prosegue in un altro passo Jung – il fatto che un polarità stia alla base della dinamica della psiche significa che l’intero problema degli opposti, nel suo più vasto significato, è portato nella discussione psicologica, con tutti i suoi aspetti religiosi e filosofici. (..) Indipendentemente dalla loro pretesa di essere verità autonome, resta il fatto che, considerati empiricamente, (gli opposti) sono innanzi tutto fenomeni psichici. Questo mi sembra un fatto incontestabile” ( Energetica psichica, in La dinamica dell’inconscio, vol. 8 delle Opere, Torino 1976; Ricordi sogni riflessioni, cit., pp. 409-410 in: 385-414, Ultimi pensieri ).
Da parte sua, l’originale erede junghiano Hillmann ( 1926-2011 ), in Puer Aeternus ( 1999 ), tende al ripristino dell’uomo nella sua “totalità”, scoprendo: “E’ solo quando si trovano nella fascia mediana che si ha vero conflitto: come Eroe e Padre, Puer e Senex si combattono”. “Tutti noi nella vita cerchiamo questa fusione. Cerchiamo una trasformazione del conflitto tra estremi in unione di uguali”. “Quanto più ci si avvicina agli estremi, tanto più chiaramente si evidenzia l’identità. Shakespeare ( in Come vi piace, II, VII, 164-167 ) ricongiunge i due estremi del continuum biologico quando osserva: ‘L’ultima scena, infine, / a conclusione di questa varia e strana storia / è una seconda infanzia, puro oblìo, / senza denti, occhi, gusto, senza niente’. – Il Puer subisce una enantio-dromìa, convertendosi nel suo opposto, il Senex; offre l’altra faccia di Giano. In questo modo siamo condotti a capire che non esiste una differenza di fondo tra il Puer negativo e il Senex negativo, a parte la differenza di età biologica” ( ed. Adelphi, 1999, pp. 100-104; 111-119 e 135-151 ). In questo modo, Hillmann – junghianamente – vede non solo la unione dialettica di Puer e Senex, “tristia” e “hilaria” ( come nelle feste in onore di Attis ), ‘abissi’ e ‘vette’, abbattimento ed esaltazione, ma anche – con etimologia dedotta dall’ Antica Cina ( su cui dovrò tornare ) -, tra “Lao – Tzu”, o “Lao” = Vecchio e “Tzu” = Fanciullo . (p. 100) Sul distacco tra padre e figlio, si sofferma lo stesso Hillman: “Da questa scissione ( i. e.: tra Io e Sé, coscienza e inconscio ) ci viene la sofferenza del conflitto padre-figlio e del silenzio che separa le due generazioni, della ricerca del padre da parte del figlio e della nostalgia del figlio da parte del padre, che sono la ricerca e la nostalgia del proprio significato da parte di ciascuno; nonché gli enigmi teologici del Padre e del Figlio” ( op. cit., pp. 120-121 ).
Posso ricostituire il quadro comparativo delle dottrine e delle poetiche immaginative degli opposti.
Gli opposti sono sedimentati in una concezione ‘regressiva’ e arcaica, in Freud. Gli opposti sono compenetrati in una visione ‘dialettica’ e intensiva, in Croce e Bergson. Gli opposti sono vissuti nei ‘toni concomitanti’ dell’ “archetipo” e della “enantiodromia”, in Jung e Hillmann. Gli opposti sono trattati in una visione ‘prospettica’ nella lingua e nella poesia italiana, dal Duecento a Leopardi. Gli opposti, infine, sono stratificati in una forma di ‘neo-lingua’ o ‘bispensiero’, per George Orwell.
Nell’ “antico e dantesco italiano” ( come lo chiamò Croce nel 1933, per ‘orientare’ i lettori sul motto “Il mondo va verso..” ), spesseggiano ‘pietade’ o ‘pietate’; ‘viltate’ o ‘viltade’ ( Inf. 2, 5; 5, 140; Par. 33, 19 ); ‘volontade’ (Purg. 25,83 ) e ‘volontate’ ( Par. 29,63 ); ‘veritate’ ( Par. 4, 71 ); ‘dignitate’ ( Purg. 19,131 ); ‘etate’ ( Par. 19, 132 ); ‘libertate’ ( Par. 5, 22 e 31, 85; anche in rima con ‘bontate’ ); ‘nobilitate’ ( Inf. 2, 9); ‘podestate’ ( Inf. 3, 5; Purg. 18, 72 e 19, 135; Par. 31, 37 ); ‘unitate’ ( Par. 2, 138 ) e ‘quantitate’ ( Purg. 21, 133 ) o ‘quiditate’ ( di Par. 20, 92 ); ‘deitade’ ( Inf. 11, 46 ) e ‘facultade’ ( Inf. 11,44 ). Tutti questi termini vengono dal latino, a significare la disposizione complessiva dell’animo o di una condizione etica. “Pietade” vale: “Pietà”, o “angoscia”, o “disposizione ad amare” ( non “compunzione”, come vorrebbero alcuni esegeti neo-tomisti, di fronte al dramma di Paolo e Francesca ). In generale, sono le forme anche in *–anza ( derivanti dal provenzale o lingua franca, in *-ance ), a dipingere la “pienezza umana”, la “integralità del sentire”, la gamma del sentimento per cui passa la “tensione dialettica”, che si raccoglie in compendio nella guisa della ‘polarità’.
Alcune di queste forme si sono perse o sono andate incontro a inevitabile troncamento, per ragioni pratiche e per uso comune; altre si sono mantenute, e quasi esaltate, nella grande poesia. “Beninanza”, per “benignità” ( Par. 7, 143 e 20, 99 ), a significare ‘la volontà che vince per propria benignità’, derivava dal francese; ma era già penetrata nella lirica del Duecento. In Dante, essa rappresenta i giusti che compongono l’ Aquila, quindi il rapporto tra fede e salvezza. E la maggior parte di codesti termini figura nel Paradiso, dove la prova stilistica è più ardua. Essi sono ad es.: ‘dilettanza’ per ‘diletto’ ( Par. 18,58 ); ‘disianza’ per ‘desiderio’ ( Par, 23, 39 ); ‘distanza’ ( mantenutosi in uso, da Par. 7, 9 ); ‘fallanza’ per ‘errore’ ( Par. 27, 32 ); ‘fidanza’ per ‘fiducia’ ( Par. 22, 55 ); ‘nominanza’ per ‘nome’ ( Inf. 4, 76 ); ‘onranza’, ‘orranza’ per ‘onore’ ( Inf. 4, 74 ); ‘possanza’ per ‘forza’ o ‘potere’ ( Par. 22, 57; 23, 37; 27, 36 ); ‘rimembranza’ ( mantenutosi e radicatosi in Leopardi, per ‘memoria’, Purg. 12, 20 ); ‘sembianza’ ( mantenutosi, in Purg. 12, 22; Par. 18, 56; 22, 53; 27, 34 ) ‘speranza’ ( mantenutosi e vagheggiato in Leopardi, da Purg. 21,38 e Par. 20, 95 ); ‘usanza’ ( per ‘uso’, e mantenuto nella tradizione, da Purg. 21, 42 e Par. 3, 116; 13, 22 ). Mentre per Freud, nel linguaggio e nel sogno, i contrari sono nettamente speculari, a ‘doppia facciata’, secondo diritto e rovescio; nella tradizione neo-latina e nella poesia italiana, i contrari coincidono col momento culminante di un complessivo travaglio della coscienza morale e vitale. Tutto ciò campeggia in Leopardi, con “Le Ricordanze” del 1829; le “Rimembranze” ( idillio del 1816, poi escluso dalla raccolta definitiva ); le invocate “Speranze, speranze”, e care “usanze”. Sì che, nello “Zibaldone” 1827-1829 – spiega Leopardi -: “Analizzate bene le vostre sensazioni ed immaginazioni più poetiche, quelle che più vi sublimano, vi traggono fuor di voi stesso e del mondo reale; troverete che esse, e il piacer che ne nasce ( almen dopo la fanciullezza ) consistono total.(mente) o principalm.(ente) in rimembranze”. “La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo,si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago” ( 1828, p. 4426 ).
Anche il richiamo alla fanciullezza non ha un carattere “regressivo” ma “prospettico”, come si vede nella legge del campo associativo individuata da Emilio Peruzzi a proposito degli aggettivi in “A Silvia”: “ Fra le varie associazioni più immediate degli aggettivi (contrapposti o giustapposti ) emerge un’idea accessoria che trova il suo contrario nell’altro aggettivo, o nell’idea primaria dell’altro aggettivo”. “Ridenti e fuggitivi”, è come ‘sorridenti e ritrosi’: ma l’idea secondaria di “fuggitivi” , “che fugge” o “morenti”, sta all’incontrario di “ridenti”. E’ un ossimoro, come per “lieta e pensosa”, dove l’idea secondaria o accessoria di “lieta”, cioè ‘spensierata’, è ossimorica rispetto a “pensosa”. Solo che l’aggettivazione contrastiva è scorciata in prospettiva, è temporalizzata, vissuta nella ‘durata reale’. “Silvia, rimembri ancora / Quel tempo della tua vita mortale, / Quando beltà splendeva/ negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, / e tu, lieta e pensosa, il limitare / di gioventù salivi ?” (Cfr. almeno Emilio Peruzzi, Saggio di lettura leopardiana, in “Vox Romanica”, XV (1956), 2, pp. 94-163; Domenico Consoli, Per una lettura di ‘A Silvia’, “Italianistica”, IX/1 (1980), pp.74-101.) “Limitare” è idea accessoria di “limite”, “confine”, e ripropone il “presagio” di morte già avvertito per “mortale” ( con cui assuona in fine verso ), “fuggitivi” e “pensosa”: è la “soglia della negata giovinezza” e il “limite” stesso della vita. Il poeta, punto di vista per il filosofo, – e con Raffaello Franchini – “ci fa toccare con mano la struttura temporale dell’uomo, il suo continuo vivere in attesa, il suo proiettarsi verso il futuro, l’orrore e insieme il desiderio del non essere ancora”. (Raffaello Franchini, Teoria della previsione , Napoli 1972 (2^ ed.), p. 106.) Silvia, “scorciata in una illusione e in una delusione”, è un exemplum di momento “prospettico”, come nell’indefinito di un’ ellissi ( “Miei pensieri la sera..” ), in un gerundio – “il modo della sospensione, della continuità del tempo, dell’infinito, l’attimo in cui sorge nel Leopardi l’ansia della poesia” ( ‘sedendo e mirando’ ). “Il Leopardi parla, con poetica evidenza, di “innalzamento d’animo”. Benedetto Croce vedeva in ogni creatura della fantasia, non il riferimento biografico, ma “tutto l’umano destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori, le gioie, le grandezze e le miserie umane”. (Attilio Momigliano, Introduzione a Leopardi (1936), in Introduzione ai poeti, Firenze 1964, pp. 216-221; B. Croce, Il carattere di totalità dell’espressione artistica, Bari 1917). E per correggere le deformazioni di una sua teoria estetica, nella nota I momenti poetici, chiariva:“Sarebbe come il caso di un uomo che parlasse col mezzo di ragionamenti o di esortazioni a un giovane per persuaderlo di un’opera buona da fare o di una verità, e a un punto del discorso si ampliasse in un moto d’anima che supera e distanzia il discorso precedente e che non è né esortazione né ragionamento né commozione sentimentale ma poesia”. Perciò, nella nostra “poesia della giovinezza” ( Leopardi, Montale ), e quindi nell’interpretazione generale della poesia come punto di vista per la verità dell’essere, il momento dialettico e drammatico è “dialettico e drammatico”, perché “prospettico”, o proteso verso l’ avvenire. (B. Croce, Terze pagine sparse, Bari 1955, I, p. 126). Perciò, se si vuol ripetere con Sigmund Freud il carattere “regressivo ed arcaico” dell’espressione del pensiero nel sogno, bisognerebbe risalire – semmai – al carattere “originario” del “vivente” in Schelling ( 1810 ), o ridiscendere verso il carattere prospettico e cosmico che ci rivelano la grande poesia coeva allo Schelling ( Foscolo, Leopardi ), o l’estetica e l’ermeneutica di Croce ( 1902-1936 ), o guardare al carattere “archetipale”, di “quadratura” e di ‘coincidenza degli opposti’ ( ‘La création du Premier Mandala’, 1916 ), in Carl Gustav Jung, con l’ Aurora Consurgens del Codex Rhenovacensis 172, 10v, della Biblioteca Centrale di Zurigo, dove Sol e Luna, luce e ombra, giorno e notte si affrontano lancia in resta, rispecchiandosi mirabilmente nei volti e negli scudi dei cavalieri. Certo, Jung stesso è attratto dal paradigma dell’ “Ombra”: “La figura dell’ Ombra impersona tutto ciò che il soggetto rifiuta di conoscere e tuttavia continuamente – in modo diretto o indiretto – gli si impone: ad es., tratti inferiori del carattere e altre tendenze incompatibili”. Oppure: “L’Ombra è quella personalità celata, rimossa, per lo più inferiore e colpevole, che con le sue estreme propaggini rimonta al regno dei nostri antenati ancestrali e così abbraccia l’intiero aspetto storico dell’umanità”. (Carl Gustav Jung, Coscienza inconscio e individuazione, in “Zentralblatt fur Psychoterapie”, 1939, pp. 265 sgg.; “Aion”, 1951, p. 379. Cfr. Giuseppe Brescia, Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva, Bari 2000, vol. II, pp. 185-199; Questioni dello storicismo.II. Il tempo e le forme, Galatina 1981, p. 143). Ma tutta l’insonne indagine junghiana, a proposito di “Psicologia e Alchimia”, serba una ricerca delle origini della coincidentia oppositorum, come l’ “archetipo”, ricerca che è anche avviamento verso la ripresa di speculazione sulla “dialettica”, vista come la esperienza “vitale” degli opposti, e tale da precedere la “dottrina della dialettica” con formulazione triadica, che ne aveva dato lo Hegel ( tesi – antitesi e sintesi ), estendendola dalla sfera teoretica a quella storica fenomenologica ed estetica, come una sorta di camicia di forza per la storia del pensiero e il processo evolutivo della civiltà. Due altri autori grandeggiano per l’analisi linguistica dell’inconscio, intervenuti a sfaccettare diversamente le coniazioni di Freud e Jung: la ‘Psicopatologia’ di Eugène Minkowski, che illustra con sapienza il significato “prospettico” della paroletta “Verso…”, formata da cinque lettere in cui “passa il soffio dell’umano”, come l’aprirsi a ventaglio sul futuro ( tematica a noi cara per le straordinarie affinità con il futuro aperto dell’umanismo storicistico, oltre che con la “Lettura di Benedetto Croce: Il mondo va verso..”); e il contributo essenziale di Erich Fromm, nell’ Anatomia della distruttività umana; in Avere o Essere e specialmente nell’ analisi del mito e del sogno, The Forgotten Language ( ‘Il linguaggio dimenticato’ ), ove l’autore compone una profonda lettura del protagonista del Processo di Kafka, Josif K., del cui temperamento Fromm dimostra il carattere “ricettivo”, con bisogno e penuria di affetti allo stesso tempo; oltre a porgere occasione per la rilettura del “Matriarcato” di Bachofen. “La relazione attraverso la quale il genere umano ha cominciato a progredire nella civiltà è il principio matriarcale. Tutto lo sviluppo della civiltà, la devozione, la cura, e il lutto per i morti sono radicati in essa”. Così, la “origine dell’umanità è essa medesima risultato di un processo, d’uno svolgimento e di un cammino”. Al “ribrezzo eraclitèo pel cadavere”, consegnato al fr. 96: “I morti sono da allontanare anche più del letame”; e all’episodio narrato da Erodoto I, 214, a proposito della vendetta compiuta dalla regina dei Massageti Tomiri sul cadavere di Ciro caduto in battaglia, dove Erodoto usa due espressioni diverse, i “morti” per gli altri Persiani ed il “cadavere” per Ciro, in quanto oltraggiato secondo la minaccia preavvisatagli ( contesti che provano per la fase più antica quella del ribrezzo per il cavavere e la sua impurità ); mentre il principio dell’amore e della pace, della devozione e della pietà, rappresentato emblematicamente da Antigone e dalle “leggi non scritte” rispetto a Creonte, con ritmo vichiano converte il “negativo” in “positivo” e fa sì che l’utile si risolva in etica, o – per dimenticare il terrore del fulmine – l’uomo scopre le nozze e le gioe d’amore ( con le sepolture, tribunali ed are ). “Questa coscienza dell’antico e del primitivo, nei suoi caratteri distintivi, sempre che sorge o si rinnova, è cosa di gran rilievo per l’intelligenza storica. Senonché essa richiede non il rifiuto ma il rinvigorimento e l’approfondimento della filologia, non la diminuzione ma l’accrescimento del rigore critico”, obietterà poi il Croce. “Il Bachofen fu portato alla sua conversione metodologica dalla forte tendenza religiosa. Il Marx e, più specialmente, l’Engels, che della teoria del matriarcato si valsero nella loro storia delle origini della famiglia e della proprietà privata per inferirne una legge di ritorno delle società umane al comunismo primitivo, tirarono l’acqua al loro mulino, e lasciarono da parte i motivi religiosi di quella teoria”. (Erich Fromm, Il linguaggio dimenticato (1951), ed. it., Garzanti, Milano 1973; Anatomia della distruttività umana, ed. it., Mondadori, Milano 1975; Giuseppe Brescia, Tempo e Libertà, Lacaita, Manduria 1984, cap. ‘La libertà tra Antoni e Fromm”. Anche: B. Croce, Bachofen e Burckardt, (1929) in Conversazioni critiche, Serie Quarta, Bari 1951, pp. 135-136; La filosofia del Bachofen, rec. del libro di G. Schmidt (1929), ivi, pp. 63-65 e Il Bachofen e la storiografia afilologica (1928), in Varietà di storia letteraria e civile, Serie prima, Bari 1949, pp. 302-319; con E. Minkowski, “Verso…(”Lo slancio verso..), in Filosofia Semantica Psicopatologia, a cura di Mario Francioni, ed. it., Mursia, Milano 1969, pp. 153-161; e Il tempo vissuto, ed. it., Einaudi, Torino 1972)
Tutto ciò ci immette nei confini della “neo-lingua”, nell’antiutopia ( così spesso tragica e deserta ) della modernità, che abbiamo anticipato sotto il nome e il segno di “1984” di Orwell, chiamando in causa la “stratificazione dei sentimenti”, allorché questa prende il campo della “dialettica delle passioni”, che è invece indizio di creatività e fervore nell’ opera. Così, appare chiaro che, dove si sedimentano gli “strati psichici”, nello stesso istante si impongono, come forme di “malattia”, il “non detto”, l’ Ombra testé rivisitata, la penuria esistenziale e vitale ( con parziale recupero della “regressione”, scoperta dal Freud). Al contrario, quando gli “strati psichici”, le sedimentazioni, l’ “Area cieca”, si sciolgono nella temporalità o temporalizzazione, e cioè si riadducono a un processo che le veda ‘*e-sultare’, in senso etimologico, ‘salire a galla’ o ‘saltar fuori’; lì è la “guarigione” o la premessa di ritrovata salute psichica.
Alla fine di 1984, prima che Winston Smith accetti il Potere-Iddio, impostogli dall’aguzzino O’ Brien, Orwell gli intravede nell’anima – con i ricordi più segreti dell’infanzia -: “Uno straordinario miscuglio di sentimenti ( ma non era esattamente un miscuglio, erano piuttosto strati successivi del sentire, dei quali non si poteva capire bene quale fosse l’ultimo ) prese a combattergli dentro”.
E’ la elegante versione italiana proposta da Gabriele Baldini dell’originale: “An extraordinary medley of feelings – but it was not a medley, exactly; rather it was successive layers of feeling, in which one could not say wich layer was undermost – struggled inside him” ( p. 319 ). In tanti casi, c’è una “funzione Proust”, ma di un Proust “sliricato”, in Orwell. “Ma qualche volta Winston doveva aver gustato della cioccolata come quella che gli aveva portato la ragazza. La prima sensazione di profumo gli aveva risvegliato un certo antico ricordo che non riusciva a delimitare chiaramente, ma che senza dubbio era potente e sconcertante” ( pp. 143-148 ). Ma si tratta di una “reinterpretazione tipica della esperienza saggistica e scaltrezza letteraria di Orwell, specie della lancinante ‘dialettica di sentimenti’ pietà-terrore, attrazione e sconcerto, desiderio di affetti e impossibilità di affetti, che gioca al fondo della sua ‘fucina’ interiore e fantastica. E quindi è una ‘funzione Proust’ ( i ricordi della madre e della sorella nell’acqua ) che sùbito s’interseca, rapporta e cala in una ‘funzione Kafka’, intendendo per ‘funzione Kafka’ la tragica deprivazione di umanità e di affetti, cui si contrappongono la nostalgia, il rimpianto e il bisogno ( tanto più potenti quanto più sepolti nell’inconscio e segreti ) degli affetti stessi”. (Nineteen Eighty-Four by George Orwell (1948), Longmann, Editor David Harmer, London 1991; trad. it., 1984, a cura di Gabriele Baldini, Milano 1950-1983 (8^ ed.). Su cui: Elena Croce, “Settanta” del marzo 1972, pp. 29-43; Benedetto Croce, Filosofia e storiografia (1949), Bari 1969, pp. 313-319; Pier Paolo Ottonello, La barbarie civilizzata, L’Arcipelago, Genova 1994; Tom Wolfe, 1984. La trappola della neolingua, “La Stampa”, A. 117, n. 303, 23 dicembre 1983, p. 3. – Per tutta l’analisi delle “false memorie” e della “parola ‘Shakespeare’ sulle labbra”, rimando ai miei Ethos e kratos. I. Lettere aperte sulla crisi.II. La carità e le ipotesi, Bari 1994; “1994”. Critica della ragione sofistica, Bari 1997 e al secondo volume di Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva.II. Da Kant al postmoderno, Bari , pp. 289-316.) La ‘funzione Kafka’ si porge in tutti i passaggi ove Orwell descrive minutamente la polvere sul pavimento e l’ attrazione per la donna, esemplate sullo stile del Processo. Sì che, alle estreme battute del grande romanzo dis-topico, Orwell vede la ‘resa’ di Winston Smith: “I suoi pensieri vagavano ancora. Quasi inconsciamente egli scrisse con le dita sulla polvere del tavolo: 2 x 2 = 5. ‘Non possono entrarti dentro’, aveva detto lei. Ma essi potevano entrare dentro. ‘Quel che ti succede qui è per sempre’ aveva detto O’Brien. Era una frase giusta. C’erano alcune cose, le proprie azioni, per es., dalle quali non si poteva guarire. Qualcosa veniva ucciso dentro al petto: bruciato, cauterizzato”. “Bruciato e cauterizzato”; “sepolto” e “abbassato” nella “stratificazione dei sentimenti”; “Ferito a morte” ( si direbbe con il nostro Raffaele La Capria ). L’analisi scopre il linguaggio, la parola, il ‘ritmo’, per tentare la terapia. La poesia esprime l’inviscerarsi della malattia di fronte al Potere, la discesa negli abissi della psiche, il linguaggio capovolto del ‘bis-pensiero’ ( o double Think ). Ma si badi:
“Undermost Layer”, vale meglio “lo strato più sottostante”, che non “l’ultimo strato” ( nella traduzione di Baldini del capolavoro orwelliano). E’ come se codesto inarrivabile piano di “fondo”, e non di “sfondo”, si contrapponga alle “false memorie” ( “It was a false memory. He was troubled by false memories occasionally” ), subentrate per introiezione del sistema di potere nella coscienza di Winston Smith. – ‘Non possono entrarti dentro’ – ‘Sì, possono farlo e per sempre’, è l’alternativa tragica dettata dal Potere assoluto. Junghianamente, lo strato ‘più sottostante’ è anche la “maternità”, l’archetipo, la più segreta risorsa, il ‘vivente originario’, la ‘fucina’ ( a seconda dei contesti linguistici o categoriali adottati e prescelti ). Noi vediamo Jung e Proust e Kafka in Orwell; Jung in Joyce; Joyce in Orwell; in una interpretazione complessiva del carattere realistico, coestensivo o pluri-prospettico del “vitale”. (Cfr. ad es. di George Orwell, Selected Essays, London 1957; The Collected Essays, Journalism and Letters, ed. by Sonia Orwell, London 1968; The Unknown Orwell, by Peter Stansky and William Abrahams, London 1972; George Orwell: The Critical Heritage, ed. by Jeffrey Meyers, London 1975; The Last Man in Europe: an Essay on George Orwell, by Alan Sandison; George Orwell, The War Broadcasts, edited with an Introduction by W. J. West, Penguin, London 1985-87 ( Introduzione, Lezioni alla BBC in tempo di guerra su vari autori, Shakespeare, Jonathan Swift, Edmund Blunden, Bernard Shaw, Anatole France, Ignazio Silone, H. G. Wells, carteggi con importanti scrittori quali Th. S. Eliot su Joyce ); Gordon Bowker, George Orwell, London 2003; R. Franchini, Orwell: un pentito dal volto umano, “Nuova Civiltà delle Macchine”, II/3 ( estate 1984 ), pp. 95-97; Giuseppe Brescia, Lo spostamento del vetrino, “Corriere della Sera”, 15 Agosto del 2000; e Macbeth nella Fattoria di Orwell, “Corriere della Sera”, 25 febbraio 2003.) La felicità del ‘gioco’ – così ricordiamo – nella prima infanzia viene respinta dalla mente di Winston; come la “grazia del gesto” della ragazza bruna, che gli viene incontro in sogno al principio del romanzo, sembra annullare un’intiera cultura, un intiero sistema filosofico. “Anche quel gesto apparteneva ai tempi trapassati. Winston si svegliò con la parola ‘Shakespeare’ sulle labbra”. (p. 54)
- La fondazione della concezione hegeliana del finito e la teoria del giudizio
Procedendo verso un’ ulteriore assiomatizzazione del “vitale”, sulla scorta di tali flussi incrociati delle rispettive espressioni logiche e artistiche, si precisa che il “vitale” contiene un carattere “realistico”, dal momento che rivisita la nozione classica di “Mimesis”, ‘rispecchiamento’ e aderenza alla realtà, limite per il pensiero; un carattere “coestensivo”, perché legato a ogni forma di attività, o creatività, estetica, logica, utilitaria ed etica, come sentimento di piacere e dispiacere; e infine, “prospettico” e “pluriprospettico”, nel “duplice senso che si intesse di tutta la gamma del sentimento per cui passa quella tensione dialettica, e che proprio perciò si costituisce in compendio nella guisa di ‘polarità’; e nell’altro senso, che col primo forma tutt’uno, che in codesta ‘raccolta o concentrazione di forze spirituali’ si adempiono i ‘parti dello spirito teoretico e pratico’ e si fonda, come caso, e incremento, particolare, la teoria del giudizio storico-prospettico e il circolo di pensiero e azione”. (Cfr. Raffaello Franchini, Esperienza dello storicismo, Napoli 1953-1971 (4^ ed.); con la mia Noterella sulla dialettica, “Realtà del Mezzogiorno”, XVII/10 (ottobre 1977 ), pp. 855-876, anticipazione di Trendelenburg e la fondazione della concezione hegeliana del finito. )
La critica di Adolfo Trendelenburg alla dottrina hegeliana del finito, onde Hegel avrebbe anticipato alla deduzione le proprie premesse, e cioè il ‘movimento’, attinto per ‘intuizione’, a ‘essere’ e ‘nulla’ ( critica che secondo Enrico Berti riposerebbe su fondamenti aristotelici ), tale critica non si giustificherebbe sino in fondo, se non si trovasse un “genere” comune alla concezione del finito, un intiero ( Das Ganze o ‘totalità’ ) entro cui si stabiliscono le singole determinazioni finite della dialettica. E questo “intiero”, questa categoria della Totalità, altro non è che il “sentimento”, l’integralità del sentire, la latitudine e profondità delle passioni entro cui scorre la particolarità delle singole determinazioni. (Giuseppe Brescia, Questioni dello storicismo.I. Dalle origini della dialettica alla ricerca dei modi categoriali, Galatina 1980, pp. 177-178 in: 153-181. Particolare riguardo meritano le “Ricerche Logiche”, Logische Untersuchungen, di Adolf Trendelenburg (1840), Hildesheim, 1964, su cui la mia disamina Trendelenburg e la fondazione della concezione hegeliana del finito ( op. cit., 1980, pp. 153-181 ). In questo caso, la premessa “urtante”, “inevitabile” e “imprevedibile” della dottrina della dialettica, del pensiero o dell’ Idea, è – appunto – il “vitale”, come la “pienezza e vastità del sentire”. Addirittura, lo stesso panlogista e idealista Giorgio Hegel, a proposito delle origini dell’ opera d’arte, nelle Vorlesungen uber die Aesthetik del 1831, enucleava il motivo della “pienezza della vita” ( Ueberfulle des Lebens ), integrando: “Cattivo segno quando un artista si accinge all’opera, movendo non già dalla pienezza della vita, ma da un complesso d’idee astratte “ ( I, pp. 66-67 e 353: cfr. Croce, Estetica. Parte storica, Adelphi, Milano 1990, pp. 384-385 ).
Tuttavia, il nesso vita-forma, pensiero-azione, prevedibilità-imprevedibilità, conosce una recondita ( forse non del tutto esplorata) “reciprocità”; nel senso che le ‘stratificazioni’ del sentire e la stessa ‘dialettica delle passioni’ generano dal loro seno la luce della teoresi, l’intervento della mente autocosciente, la nascita del “Giudizio”; e che tale consapevolezza – conquistata nel “ritmo” di cui parlano la psicologia analitica e la psicopatologia – opera in aiuto nei casi di “guarigione”. Ma, nel far ciò, presenta o ri-presenta gli stati psichici nella ‘coincidentia oppositorum’, in forme impreviste o insperate. Ed è come se, procedendo più a fondo nei recessi della psiche e nelle stratificazioni dei sentimenti ( che l’analisi porta a galla e ad espressione linguistica ), ad ogni fase ‘progressiva’ ( e non più ‘regressiva’ ) dell’esistenza, puntualmente rispuntino gli ‘opposti’ e la loro germinazione, considerata e assunta nella consapevolezza del pensiero. Grande è l’implicazione reciproca delle forme. Torneremo per un attimo a Kant, Freud e Jung; e al caso di “Alberto”, giovane campione nella metodica della “comunicazione facilitata”, a proposito di ‘autismo’.
Prima del proprio distacco da Freud ( “Solo più tardi mi resi conto che la tendenza al ritmo non proviene affatto dalla fase nutritiva donde sarebbe passata in seguito in quella sessuale, ma che rappresenta un carattere peculiare di tutti i processi emotivi in generale”, scrive Jung in Simboli della trasformazione ), (Simboli della trasformazione, in Opere, vol. 5, Torino 1970, pp. 153-157.) in uno studio del 1904-1905 sullo Schematismo delle associazioni nei soggetti normali, l’analista filosofo esplicitamente risale a Kant, pur in uno schema complesso che rivela la sua ambizione di esaurire tutto il campo delle possibilità logico-associative cosiddette “normali”: “1. Associazioni interne: a. per Raggruppamento, b. Relazioni di qualificazione, c. Relazioni causali; 2. Associazioni esterne: Coesistenza. Identità. Forme linguistico-motorie; 3. Reazioni al suono; 4. Reazioni miste; 5. Reazione egocentrica: Idee di riferimento dirette, Giudizi di valore soggettivi; 6. Perseverazione: Connessione con una parola-stimolo, Nessuna connessione con una parola-stimolo; 7. Ripetizione della reazione; 8. Connessione linguistica: Stessa forma grammaticale, Stesso numero di sillabe, Concordanza fonetica.” – Ho appena semplificato il composito quadro giovanile junghiano delle associazioni, dal momento che preme riportare l’assunto neokantiano di fondo, rivendicato a proposito delle Relazioni di qualificazioni, pertinenti alle ‘Associazioni interne’. “Come è noto, – scrive Jung – Kant divide il giudizi in analitici e sintetici. Questo principio di classificazione logica è valido per noi solo perché, in un giudizio analitico, viene presentata una parte del concetto ( cioè un predicato ) che è necessariamente inerente al concetto stesso. In tal modo nel giudizio viene dato ciò che già implicitamente esiste. Invece nel giudizio sintetico al concetto viene aggiunta qualche cosa, che non è già necessariamente contenuta nel concetto”. (Ed. Newton Compton, Roma 1995, pp. 32 sgg.) L’importante è che Jung ne deduce implicazioni psicocritiche con opportuni adattamenti ad hoc della dottrina del trascendentale in Kant. Adotta, perciò, gli esempi “matita/lunghezza”, per i giudizi analitici, e “padre/ preoccupazione” per i giudizi sintetici. “Nell’associazione matita/lunghezza, lunghezza è sostanzialmente contenuta nel concetto, o coesiste con esso, mentre in padre/preoccupazione il concetto preoccupazione aggiunge qualcosa di nuovo e provoca perciò uno spostamento del concetto”. A questo punto, Jung fa propria la revisione della demarcazione tra concetti astratti e concetti concreti, affine a quella dedotta da Croce in Logica come scienza del concetto puro ( del coevo 1905 ), tra giudizio individuale e giudizio definitorio.
“Si può tentare di risolvere il problema solo quando nei singoli casi è possibile distinguere tra un concetto astratto e un concetto concreto. Sappiamo che Zichen ritiene di aver fatto questa distinzione interrogando direttamente anche i bambini. Noi non solo consideriamo questo metodo estremamente inattendibile, ma troviamo anche molto difficile distinguere tra concetti astratti e concetti concreti. Quando do un nome ad una rappresentazione mentale, tale rappresentazione è costituita dalla considerazione di molti ricordi, il cui aspetto maggiormente concreto o astratto dipende da differenze minime dell’acutezza percettiva.In molti casi anche persone psicologicamente preparate avrebbero difficoltà a decidere se nella coppia casa/tetto sia ravvisabile un tetto concreto o un tetto astratto” ( op. cit., pp. 32-33 ). Perciò Jung ritorna al Kant 1781 della prima Critica.
Ma in quale nuova topica del giudizio, ciò accade? – In una nuova idea della quaternità o tetrade, conquistata attraverso l’allargamento all’esperienza, e la sua aggiunta “vitale” al concetto.
In effetti, i giudizi analitici o esplicativi – aveva detto Kant – sono quelli in cui il predicato conviene al soggetto, come qualcosa che vi è appartenuto implicitamente. I sintetici, o estensivi, sono quelli – invece – il cui predicato si trova al di fuori del concetto contenuto nel soggetto, benché in connessione col medesimo. Esempi: ‘tutti i corpi sono estesi’ ( giudizio analitico ); ‘tutti corpi sono gravi’ ( giudizio sintetico ). Per Jung, corporeità/estensione va a combaciare con matita/lunghezza; mentre corporeità/gravità corrisponde perfettamente a paternità/preoccupazione. E’ a questo punto che il ‘ritorno a Kant’ ( se così si può dire nella storia del pensiero, ove ogni tema problematizzato assurge alla dimensione del ‘ritorno’ ) va sospinto ancora più innanzi. Nella propria e originaria dimostrazione, Kant aveva dedotto per i giudizi sintetici: “Al contrario, sebbene nel concetto di corpo in generale io non includa punto il concetto di gravità, quel concetto tuttavia rappresenta un oggetto dell’esperienza mediante una parte di essa, alla quale io posso aggiungere ancora altre parti della stessa esperienza, che non siano appartenenti al concetto. Posso prima conoscere il concetto di corpo analiticamente per le note dell’estensione, dell’impenetrabilità, della forma ecc. che sono tutte pensate in questo concetto. Ma poi estendo la mia conoscenza, e ricorrendo di nuovo all’esperienza, dalla quale ho tratto il concetto di corpo, trovo con le note precedenti legata costantemente anche quella della gravità, e l’aggiungo quindi sinteticamente, come predicato, a quel concetto”. – “Sull’esperienza, dunque, si fonda la possibilità della sintesi del predicato della gravità col concetto di corpo, perché questi due concetti, sebbene l’uno non sia compreso nell’altro, tuttavia, come parti di un tutto, cioè dell’esperienza, che è essa stessa una connessione sintetica delle intuizioni, convengono l’uno all’altro, benché solo in modo accidentale”. (Critica della Ragion pura (1781), ed. it. Gentile-Lombardo Radice, revisione di V. Mathieu, Bari 1963, p. 48.)
Ora, l’esempio discusso da Jung di giudizio ‘sintetico’ padre/preoccupazione risponde allo schema kantiano di ‘estensività’, tratto dall’esperienza, del ‘giudizio sintetico’. In effetti, è esattamente estendendo i requisiti della paternità, e cioè ricorrendo a un ampliamento dell’esperienza, che l’aspetto etico della preoccupazione viene aggiunto alle note implicite nell’idea di paternità ( ad es., l’aver generato figli, seguìto la loro crescita, palpitato e trepidato per le condizioni di salute, accompagnato il loro sviluppo psicologico e relazionale, esultato per i loro successi o sofferto empaticamente per gli insuccessi, e così via ). Così, l’idea di “preoccupazione” si propone nella sintesi del giudizio di paternità, proprio quando si ricorre di nuovo alla esperienza e, così facendo, la si riscopre come un tutto, o una connessione sintetica delle sue intuizioni ( rappresentazioni di paternità ), fondandovi sopra il riconoscimento di un altro aspetto, la preoccupazione e la cura.
Aspetto che conviene al concetto di paternità, in modo mediato, dal momento che l’allargamento dell’esperienza interviene a fondare la condizione -“vitale”- della sollecitudine, cura e trepidazione per l’esistenza e la storicità del figlio. Il calzante, e nuovo, esempio rinvia alla “connessione nuova e sintetica” delle forme dell’esperienza, impegnando la sintesi di gioia e dolore, timori e speranze, entusiasmi e delusioni, che caratterizza il “progetto e concetto della paternità”: progetto che, come sintesi di polarità affettive, e dunque “dialettica delle passioni”, può arrivare a “mediarsi” e “com-pendiarsi” nella “cura”, “preoccupazione”, “angoscia” esistenziale ( vedansi, in ermeneutica filosofica ed estetica, il ‘Sacrificio di Isacco’ di Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi; ‘Paesaggio con caduta di Icaro’ di Pieter Bruegel il vecchio; ‘Dedalo e Icaro’ di Antonio Canova, e gli altri emblemi da me raccolti nella “nuova teoria del Giudizio” ). Allora, il referente oggettivo del giudizio sintetico, esteso in psicologia analitica, postula un ampliamento del contenuto ‘vitale’, un ricorso alla ‘dialettica delle passioni’, su cui si fonda la ‘connessione sintetica’ dell’allargamento estensivo della esperienza. Ma tutto ciò provoca: a) la coscienza di una più stretta implicazione di teoria e prassi; b) la proposta di nuova teoria del Giudizio.
Così, il giudizio analitico è apriori, universale e necessario ma non estensivo. Il giudizio sintetico è a posteriori, fecondo e ricco della esperienza ( intuizione ), in cui l’amplificazione è una aggiunta del predicato al soggetto, desunta dalla connessione esperienziale, assunta come un tutto e non solo come una parte. Ne deriva non solo che i giudizi matematici sono tutti aposteriori e sintetici, perché solo l’intuizione ci fa vedere la complessità dei dati che li costituiscono ( Kant, Introduzione VI.I, alla Critica del 1781 ); ma, specialmente ( ed è l’acquisto ora procurato ), che i giudizi attinenti la psicologia e l’etica sono tutti ‘sintetici’ e ‘a posteriori’, perché la ‘connessione’ esperienziale, intesa come esperienza ‘vitale’, è la ‘conditio sine qua non’ per lasciarci intuire la ‘ricchezza’ dei dati affettivi che la costituiscono ( cura, preoccupazione, trepidazione, timore e speranza, piacere e dispiacere, cautela e ardimento, amore – dolore ). Si è così ricostituito il quadro trascendentale dei ‘giudizi’.
Non basta: “Tutti i giudizi attinenti la psicologia e l’etica, in quanto sintetici e aposteriori, sono ‘tetradici’ e ‘pluriprospettici’ ”. Dunque: “Tutti i giudizi sintetici sono tetradici e plurisprospettici”.
Abbiamo visto che Jung, andando avanti sulle orme anche di Vico e Croce ( non sappiamo con quale grado di consapevolezza filologica ), riscopre il mito, il ‘mandala’, la grande idea topica della ‘quaternità’, corrispettiva, nella struttura del giudizio psicologico o esistenziale, alla ‘tetrade’ adottata da Croce per spiegare lo svolgimento in quattro momenti della circolarità delle forme spirituali.
Jung vede la quaternità anche nel simbolismo della messa di rito bizantino, quaternità che “ha carattere di totalità”: “Jesus Christos Ni – Kà” ( “Gesù Cristo vince” ), per l’ostia divisa in quattro; nel rapporto tra Oriente e Occidente, per il “Quadruplice grande sentiero” nel Commento al Libro Tibetano della grande liberazione, e nel Libro Tibetano dei morti per le “quattro forme di saggezza”
rappresentate dai quattro colori, il Bianco come sentiero di luce della saggezza, il Giallo come sentiero di luce della purità, il Rosso come il sentiero di luce che discerna e il Verde, per il sentiero di luce che tutto opera ( v. Psicologia e religione, ed. it., 1993, pp. 212, 491-523 e 524-538 ).
– Ma come può il giudizio essere strutturato per la ‘quaternità’ ? E in quali modi può assumere nel proprio quadro categoriale non solo l’idea astratta, archetipica, ma la forma e la organicità ‘vivente’, della tetrade ?
Per non soffrire ( come nella psicologia analitica o nell’analisi di ‘padre/preoccupazione’ ), il Giudizio è necessariamente ‘quaternità’ relazionale’: all’interno, come forza e capacità di controllo; all’esterno, come capacità di previsione che impegna il fattore tempo in quanto anticipo, il ‘colpo d’occhio’ dell’arciere prudente di Machiavelli o il ‘giudizio percettivo’ di Croce ( perciò: attività logica di discernimento ); come ‘prudenza’ ( etica ) per non favorire ingenuamente chi attacca attaccandolo e rendendolo così più pericoloso, ma ricercando intese e forme di ‘agire comunicativo’ ( direbbe Habermas ); infine, come aspetto ‘ludico’ o ‘leggerezza’, che realizza il momento estetico, l’ ‘Oasis’ di Fink o il ‘Gioco’ di Caillois, consentendo di ‘addomesticare’ la sofferenza.
Per non soffrire, è opportuno incorporare – nel Giudizio – la ‘quaternità’ delle possibilità esistenziali ( ‘utilitarie’ o di convenienza; ‘logiche’ o di percezione e discernimento critico; ‘etiche’ o di intesa e agire comunicativo autentico; ‘estetiche’ o di creatività e fantasia, anche ludiche ). Ognuno articola questi passaggi, riempiendoli di vari contenuti pratici, in base alla propria formazione e soprattutto alla propria esperienza ‘vissuta’ ( ‘Erlebnis’, dice Dilthey ). Ma, in fondo, è come se ci sorridesse vicino il genio di Wolfgang Goethe, che insegnava a usare per “sistole e diastole” tutte le forze spirituali, per ritrovare l’armonia dialettica e psicologica dell’ Io. In ‘analisi transazionale’, ad esempio, si allegano le quattro forme ( “Potenze” ) del cambiamento, come Potenza vera e propria ( momento utilitario o Forza ); Protezione ( determinazione di mezzi tempi e modi dell’azione, Percezione ); Perdono ( intesa Etica ) e Permesso ( momento estetico e ludico, o Leggerezza, che si connette alla persona nella sua integralità ). Certamente, se il caso tipico di ‘padre-preoccupazione’ si innesta sulla metodica dei modi categoriali ‘ memoria-tempo’ e ‘sentimento-dialettica delle passioni’, riportando alle forme trascendentali del tempo ‘successione-simultaneità-permanenza’ per la processualità dei modi categoriali stessi, il giudizio sintetico apriori può dirsi un ‘giudizio di quaternità’ secondo le forme ideali del tempo, che innescano il ‘passaggio’ all’ interno della quaternità. Concludo che tutti i giudizi sintetici a priori sono prospettici o pluriprospettici, modali, relazionali e temporali. Ed elaboro una Tavola del giudizi sintetici a priori, coonestando le funzioni aristoteliche dell’anima, le leggi dello schematismo trascendentale di Kant, il nesso dei distinti e il circolo tra pensiero e azione nella tetrade di Croce, con gli apporti della psicologia analitica e dei princìpi di associazione junghiani. Al centro modulare della Tavola lavora la implicazione di teoria e prassi, onde la conoscenza entra nell’azione, orientandola bensì ma non determinandola; e l’azione, il problema vitale e l’esperienza danno impulso al pensiero sollecitandolo a risposte sempre nuove e circostanziali. Ed è la “contemporanea presenza attiva delle forme”, su cui si travaglia Carlo Antoni. (Carlo Antoni, Commento a Croce, Neri Pozza, Venezia 1959.) Non vi può essere una facile precettistica, una facile panacèa per i mali dell’uomo ( forse neanche la pur nobile e classica “Saggezza antica” di cui parla convintamente e ripetutamente Giovanni Reale ), (Giovanni Reale, Saggezza Antica, Cortina, Milano 1995; Corpo Anima Salute, Milano 1999; Giuseppe Brescia, L’Anima e l’Occdente, Andria 1999.) filosofia ‘minima’ o in pillole; dacché il reale è sempre imprevedibilità e sorpresa, e molte volte l’impaccio e l’inganno ci si rivelano proprio dove non sembrerebbe sussistere alcuna difficoltà; e dove invece tutte le forze spirituali sono all’erta per parare i colpi dell’ ‘agire strategico’, non si ritrova poi grande ostacolo. Accade nella vita, nella scuola, nei giornali e nell’economia, nell’amministrazione dello stato e della giustizia. Ma proprio perché la risposta al ‘problema’ ( ‘Die Frage’, dice lo storicismo tedesco, da Gustav Droysen in giù ) non è uno schema, non è un precetto, una dispensa e nemmeno un’indulgenza, ma un dramma, un travaglio, un impegno dialettico di tutte le forze vitali, proprio per questa ragione ( e non perché una astrazione ), la risposta è nell’ articolazione, nella ‘quaternità’, nella ‘tetrade’ o nel ‘Ge-viert’, Terra – Cielo – Mortali – Divini ( come rispettivamente in Jung, Croce, Heidgger ). Quindi, non essendo schematica né precettistica, la tetrade dei vissuti esistenziali ( logica, etica, utilitaria o estetica ), cui l’allargamento dell’esperienza rinvia, è anche una compenetrazione dei momenti reciproci, come – in una stupenda immagine del Vico – l’acqua del mare è più dolce in corrispondenza della foce dei fiumi. Allora, la ‘dolcezza’ penetra nella ‘forza’, il ‘simbolo’ estetico nel ‘segno’ rigorosamente logico, la opportunità ‘economica’ o l’aristotelica ‘ofelimità’ nella coscienza morale dell’ ‘intesa’, e il discernimento del ‘Giudizio’ immane all”orizzonte della ‘decisione’ e dell’atto volitivo. Facile a dirsi; difficile a compiersi: è un poco il sigillo della “Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva” e della “Epistemologia come Logica dei modi categoriali” ( Bari, 1999-2000 ), cui ha portato il giro delle riflessioni sul ‘vitale’.
Alla fine, per questa parte, della teoria dei giudizi pluriprospettici, si raccolgono, a giustificazione del rapporto tra le forme spirituali, gli appelli alla “vita”, rivolti da Erwin Schrodinger in Scienza e Umanesimo; e al “di più vita”, dall’epistemologo Giulio Preti in Retorica e Logica. (Giulio Preti, Retorica e Logica, Einaudi, Torino 1968, p. 222.)
“Girando il mondo, ritroverai la tua anima”. “Progress”, etimologicamente, denominavano gli antichi sassoni il “giro” dei castelli o delle chiese, svolto dal signore o dall’arcivescovo. “Giro” è il “progresso” o lo “svolgimento” spirituale, in senso filosofico, del circolo che involge i momenti della Quaternità, o Quaternium. Il giudizio ‘pluriprospettico’, che lo riflette, costituisce la nuova forma del giudizio sintetico a priori, il ‘giro dell’anima’ – immensa – che affascina la scienza, come nell’analisi psicologica di Jung o Hillmann, Fromm e Minkowskj e – si consenta il raffronto – come si pro-duce per le suggestive ‘Vie dei Canti’ di Bruce Chatwin. (“In Middle English la parola ‘progress’ significa ‘viaggio’, soprattutto un ‘viaggio stagionale’ o periodico. Un ‘progress’ era, per un re, il giro dei castelli dei suoi baroni; per un vescovo, il giro delle sue diocesi; per un nomade, quello dei suoi pascoli; per un pellegrino, quello dei luoghi sacri” ( ‘The Songlines’, Le vie dei canti, ed. it., Adelphi, Milano 1987 ).
[continua]
*Giuseppe Brescia Presidente della Libera Università “G. B. Vico” di Andria, Preside titolare nei Licei, Medaglia d’oro per i benemeriti della Scuola nel 1990 e Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica, dopo la fase filologica (La poetica di Aristotele e Croce inedito del 1984), ha espresso un sistema in quattro parti: Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva in due volumi (Bari 1999); Epistemologia come logica dei modi categoriali (2000); Cosmologia come sistema delle scienze di frontiera (1998) e Teoria della tetrade (2002). Ha lavorato all’innesto tra umanesimo storicistico, epistemologia ed ermeneutica, dando valore attrattivo ai tempi del “tempo” e della “Lebenswelt”; alle Ipotesi e problemi per una filosofia della natura (1987), L’azione a distanza (1990) e Pascal matematico (1991); alle attualizzazioni dei problemi del male e del sofisma (Critica della ragione sofistica, 1997; Ipotesi su Pico, 2000 e 2011; Il sogno di Castorp e il progetto di Pico, 2002; Il vivente originario. Saggio sullo Schelling, Milano 2013).