> di Paolo Calabrò
Claudio Tugnoli nasce a Budrio (Bologna) nel 1953. Autore di numerosi saggi e articoli di argomento storico/filosofico, ha appena dato alle stampe Filosofia e dilemma, (ed. Mimesis).
Che cos’è il dilemma? E perché dovremmo occuparcene “con filosofia”?
Il dilemma è uno degli strumenti di confutazione più potenti, a cavallo tra logica e retorica; la sua efficacia dipende dalla pretesa di ridurre a due (o a tre, comunque a un numero ristretto e definito) le possibilità che abbiamo in campo nelle più diverse situazioni della vita pubblica e privata. Il dilemma che mette con le spalle al muro, che non lascia via di scampo, si basa per lo più sulla falsa dicotomia. Ad esempio se diciamo: “O con me o contro di me”, rappresentiamo la realtà del rapporto con il prossimo ricorrendo a una semplificazione che è anche una falsificazione. Esiste quasi sempre una terza via, la possibilità di passare tra le corna del dilemma. Il dilemma presenta invece le due alternative come escludentesi ed esaustive, come se fossero reciprocamente contraddittorie. E invece per lo più le due alternative sono contrarie e, come sa ogni bravo studente di logica, i contrari ammettono il medio. Ammettere il medio significa ampliare indefinitamente il campo delle possibilità, che il dilemma invece, nell’intenzione di chi lo costruisce e lo usa, pretende di ridurre a due soltanto. Il dilemma è in sostanza, per lo più, una scorciatoia per averla vinta sull’avversario di turno, ma al tempo stesso rivendica una dignità cognitiva che di solito non possiede, dal momento che, come ho già detto, è un abile falsificatore della realtà, tranne poche eccezioni. Ad esempio la dicotomia “La porta è aperta o chiusa” rispecchia uno stato di cose oggettivo, perché in effetti abbiamo soltanto due possibilità, che sono esaustive e non ammettono vie di mezzo. Ma le due alternative esclusive possono considerarsi autenticamente esaustive anche in ragionamenti più complessi. Ad esempio potremmo osservare che abbiamo a che fare con macchine sempre più intelligenti, sempre più uman… oidi e umani sempre più simili a macchine passive, obbedienti all’imperativo dell’efficienza, della velocità e del profitto. E’ questa la svolta? Se l’obiettivo fosse quello di creare esseri umani intellettualmente e moralmente migliori di quelli in carne ed ossa, perché non investire nell’educazione e nella formazione di questi ultimi? Se invece l’obiettivo fosse quello di sostituire l’uomo nei lavori ripetitivi, purtroppo si dovrà ammettere che qualsiasi attività anche intellettuale può essere standardizzata e resa ripetitiva proprio attraverso l’automazione… Non è un circolo vizioso? È la possibilità di sostituire l’operatore umano con una macchina che decide se quel lavoro è ripetitivo?
Il dilemma: un problema logico, morale o esistenziale?
Il dilemma è un problema logico, morale ed esistenziale insieme. La sua struttura logica è molto semplice. Partirei dal monolemma, una tesi che si può confutare mostrandone le implicazioni assurde, per poi passare al dilemma, al trilemma, al quadrilemma, e così via. I greci sono i nostri maestri praticamente insuperati nella comprensione dell’architettura del dilemma e del suo carattere insidioso e truffaldino. Pensiamo a Protagora che sancisce un patto con il suo discepolo Euvatlo, in base al quale quest’ultimo pagherà l’onorario a Protagora per le lezioni che gli ha impartito, solo dopo aver vinto la sua prima causa. Dopo qualche tempo Protagora, visto che Euvatlo non si decide a saldare il debito che ha con lui, lo cita in giudizio. Protagora ragiona così: “Se vinco la causa, Euvatlo dovrà pagarmi in base al verdetto del giudice; se perdo la causa, Euvatlo in base al patto dovrà pagarmi perché avrà vinto la sua prima causa”. Euvatlo invece ragiona in modo diametralmente opposto: “Se perdo la causa, non dovrò pagare Protagora in base al patto perché non avrò vinto la mia prima causa; se vinco la causa, non dovrò pagare Protagora, in base al verdetto del giudice”. In realtà è possibile mostrare che l’errore consiste nel far coincidere la prima causa, dopo aver vinto la quale Euvatlo è tenuto a pagargli l’onorario, con la causa che Protagora intenta a Euvatlo. Prima di questa causa in cui Euvatlo è citato in giudizio non c’è stata una prima causa vinta da Euvatlo. Questo è solo un esempio per dare l’idea del campo minato che può rivelarsi il dilemma, in quasi tutte le sue forme e modalità. Il dilemma tuttavia non ha solo una funzione retorica. La sua cogenza, direi, è morale ed esistenziale, come cerco di mostrare nel libro passando in rassegna e discutendo una serie di casi emblematici che la filosofia analitica del Novecento ha proposto all’attenzione della filosofia morale. Del resto l’esempio che ci offre Aristotele nella sua Etica Nicomachea assume la valenza di un dramma archetipo che si è riproposto nel corso della storia sia alla riflessione filosofica, sia alla coscienza di chi si è trovato a dover decidere in prima persona quale fosse il male minore, cioè quale fosse il bene di minor valore da sacrificare: un tiranno tiene prigionieri i figli e i genitori di un uomo al quale ordina di commettere un crimine, quale condizione per riavere i propri cari sani e salvi. Il dilemma sul piano esistenziale non ammette una scappatoia retorica, una sottigliezza capziosa; non lascia scampo a chi lo subisce, che dovrà prendere una decisione tremenda, con poco tempo a disposizione per passare all’azione. Poco tempo, come nella variopinta casistica della carrellologia, una branca della filosofia morale contemporanea in cui i soggetti di esperimenti mentali solo apparentemente cervellotici, hanno a che fare con treni e carrelli. Immaginiamo un uomo in piedi accanto a un binario sul quale un treno in corsa con i freni fuori uso sta arrivando verso di lui. Poco oltre sullo stesso binario ci sono cinque persone legate sui binari. L’uomo ha a disposizione una leva di scambio, azionando la quale può far deviare il treno su di un altro binario, un ramo deviato sul quale c’è una persona legata ai binari. Se l’uomo aziona la leva, i cinque uomini saranno risparmiati, ma l’uomo legato sul ramo deviato morirà. Che cosa deve fare l’uomo? Che cosa gli dice la sua coscienza? E se sul ramo deviato ci fosse sua moglie o un suo figlio? Ancora più drammatica è la situazione dell’uomo che si trova sul cavalcavia sotto il quale passa un carrello in volata. Più avanti sui binari ci sono cinque persone legate sui binari. L’uomo sa che se gettasse giù l’uomo grasso che si trova accanto a lui in quel momento, il carrello sarebbe arrestato: l’uomo corpulento morirebbe, ma i cinque sui binari si salverebbero. Qui per salvare cinque persone a scapito di una è necessario uccidere l’uomo grasso. Che cosa farà l’uomo sul cavalcavia? Ancora, immaginiamo con Bernard Williams che un tale Jim arrivi nella piazza centrale di una piccola città del Sud America. Lungo un muro sono allineati venti indios legati e terrorizzati, in attesa di essere uccisi dal plotone di esecuzione. Il comandante spiega a Jim che ha radunato quei venti indios a caso e li farà uccidere in risposta ad alcuni atti di protesta contro il governo. L’uccisione dei venti è una misura di prevenzione, per scongiurare altre proteste. Tuttavia concede a Jim, ospite d’onore, la possibilità di uccidere lui stesso uno degli indios. Se Jim lo farà, gli altri diciannove saranno risparmiati; se invece Jim, rinunciando al mero calcolo utilitaristico che gli imporrebbe di uccidere quell’unico indios, ascolterà la voce della sua coscienza profonda e obbedirà al divieto di uccidere un uomo di cui, tra l’altro non sa nulla e contro il quale non ha nulla, i venti uomini saranno tutti soppressi. Che cosa farà Jim? Nel film La scelta di Sophie (1982) un ufficiale nazista comunica alla madre Sophie che ucciderà i suoi due figli, a meno che non sia lei a decidere quale dei due debba essere salvato. Nel libro cerco di illustrare le differenze tra quest’ultimo caso e quello dell’uomo grasso: dal punto di vista dell’universo infernale dell’ufficiale nazista che adotta la regola della condanna a morte del maggior numero, il figlio sacrificato non è forse quello che sopravvive, il figlio maschio che Sophie con un dolore difficile da comprendere fino in fondo alla fine decide di salvare? Sophie è costretta a sacrificare uno dei figli per salvare l’altro. L’ufficiale nazista è il solo responsabile a priori di questa situazione aberrante, eppure delega a Sophie, con diabolica abilità, la responsabilità di salvare uno dei due figli.
Che ha a che fare il dilemma con il libero arbitrio?
Come si evince dagli esempi precedenti ogni decisione presuppone un giudizio morale, una valutazione del male minore, senza escludere la possibilità di “rovesciare il tavolo” mandando a gambe all’aria il dilemma relazionale che si presenta senza via d’uscita. Ad esempio a Jim potrebbe essere data la possibilità, per quanto remota, di sottrarre la pistola al comandante e prenderlo in ostaggio costringendolo a sospendere l’esecuzione dei venti indios. Come cerco di mostrare nel libro, la capacità di autodeterminazione non è messa in discussione dalle trappole dilemmatiche, ma semmai è attivata e messa alla prova. Coscienza, responsabilità, intenzione non sono caratteristiche osservabili, ma capacità che devono misurarsi con situazioni di estrema, drammatica difficoltà. C’una differenza tra la psicologia morale e la filosofia morale. Chi non esita a dichiarare che azionerebbe la leva dello scambio o che butterebbe giù l’uomo grasso in realtà sta immaginando che cosa potrebbe decidere di fare in determinate circostanze. Non sappiamo se, di fatto, questi stessi soggetti si comporterebbero in modo conforme alla dinamica che hanno immaginato. Il dilemma non confuta il libero arbitrio, ma è la prova lampante del carattere tragico della coscienza morale che troppo spesso si trova a dover decidere non tanto per il bene maggiore, quanto per il male minore. E la decisione su che cosa sacrificare non può obbedire a regole preordinate o a meccanismi psicodinamici, ma ogni volta deve attraversare l’inferno di un conflitto comunque astrattamente insanabile tra due alternative, ciascuna delle quali ha conseguenze orribili. Si pensi al caso di Sophie.
Qual è il contributo delle neuroscienze alla questione?
Le neuroscienze hanno affrontato la questione del libero arbitrio partendo dallo studio del cervello, in linea con il presupposto quasi tacito che il progresso nella conoscenza dei processi neurologici renda obsoleto il concetto di responsabilità e libero arbitrio. Immaginando che esista un nesso deterministico tra la decisione e l’azione, alcuni neuroscienziati non hanno esitato a proclamare che l’uomo è un “burattino biochimico”. Fortunatamente uno scienziato come Benjamin Libet ha eseguito esperimenti in cui dimostra che il processo volontario ha inizio nell’inconscio, ma alla volontà cosciente è consentita la decisione se portare a termine il processo già avviato oppure se bloccarlo. La volontà cosciente ha dunque un ruolo attivo, come ha spiegato Giuliano Di Bernardo nel suo saggio “Libero arbitrio e determinismo nella fondazione epistemologica delle scienze sociali”, pubblicato nel volume C. Tugnoli (a cura di), Libero arbitrio. Teorie e prassi della libertà, Liguori 2014. Il fatto che la coscienza non esista senza cervello non significa che i processi della coscienza siano riducibili alla mera attività cerebrale, la cui osservazione passa attraverso la rilevazione dell’attività elettrica. Molti neuroscienziati attribuiscono al cervello la funzione di persona tradizionalmente riconosciuta alla persona. Nessun fattore cerebrale può fare le veci del chi del soggetto. Studiando l’attività cerebrale preparatoria del comportamento della persona non abbiamo alcuna possibilità di riconoscere il soggetto. La coscienza è irriducibile all’attività cerebrale. A parte gli automatismi che ci permettono di risparmiare tempo ed energia, la capacità di assumere una decisione inedita si risveglia e mette all’opera quando siamo dinanzi a una serie di alternative rispetto alle quali dobbiamo prendere posizione. Ecco allora riportati ai dilemmi morali, quelle situazioni di emergenza in cui tutte le capacità e facoltà cui accennavo prima – coscienza, memoria, responsabilità, intenzione – si danno convegno, mirabilmente forzate e tragicamente coinvolte nell’individuazione della risposta migliore alla sfida che il soggetto ha dinanzi. L’approccio alla questione deve essere olistico e non analitico, soprattutto deve evitare la confusione tra causa e condizione. Mettere il cervello al posto della persona significa dimenticare che il cervello non è, non può essere la causa delle capacità, ma solo la loro condizione. E poi dissolvere la nozione di responsabilità mettendo in primo piano il quadro causale dei processi cerebrali entra in collisione con i sentimenti morali della persona e toglie ogni fondamento alla virtù e al vizio, alla punizione e alla ricompensa. Uno studio recente ha approfondito il ruolo della credenza nel libro arbitrio. Che cosa accade a una società dominata dalla credenza che le persone non possano controllare né siano consapevoli delle proprie azioni? L’esperienza della scelta consapevole è solo un risultato a posteriori dei processi neurali oppure corrisponde all’effettiva capacità della coscienza di sovraintendere e decidere senza essere completamente condizionata dai diversi fattori che limitano obiettivamente la libertà di manovra del soggetto? Se il libero arbitrio è una capacità, la libertà effettiva non è mai completa e perfetta, ma questa constatazione si presta come argomento sia per negare l’esistenza del libero arbitrio, sia per affermarla. Lo studio citato dimostra che la negazione del libero arbitrio affievolisce il senso di responsabilità e l’intransigenza dei giudizi morali sulle proprie e altrui azioni. Lo scetticismo sul libero arbitrio rende indifferenti rispetto al male che si può fare al prossimo, indebolisce la forza di volontà e il potere di controllare gli impulsi. Insomma abbandonare la credenza nel libero arbitrio significa assimilare gli esseri umani ad automi. Viceversa chi crede di essere libero e responsabile si comporta come se lo fosse. Ecco il ruolo decisivo della credenza, che può trasformare gli esseri umani in quasi automi, in schiavi irresponsabili, se si nega il libero arbitrio, oppure in esseri liberi e responsabili, se lo si afferma.
Insomma: il dilemma va superato, o bisogna imparare a conviverci?
Il dilemma è consustanziale all’essere umano. Se si incontra un orso in montagna, e qui in alcune zone del Trentino negli ultimi tempi non è un evento poi tanto raro, si ha a disposizione un numero limitato di mosse e non si sa quale sia quella più prudente. La risposta dipenderà dall’esperienza e dalla capacità di capire rapidamente il grado di pericolosità della situazione. Ma mettiamo che l’orso aggredisca un turista incauto e una guardia forestale nelle vicinanze riesca a intervenire. Quale misura adotterà per salvare il turista? Potrà decidere di mettere in conto anche l’uccisione dell’orso, nel caso in cui la vita dell’escursionista sia in grave pericolo? Come cerco di mostrare nel libro riprendendo anche alcuni luoghi della tragedia greca, il dilemma è tutt’uno con il tragico. Al gorgo infernale del dilemma è preferibile la morte. Nelle Troiane di Euripide Andromaca, rivolgendosi a Ecuba, lamenta la morte di Polissena, sgozzata sulla tomba di Achille, sacrificata quale dono al “piè veloce” morto e sepolto. E commenta che esser morti è meglio che soffrire così atrocemente. Chi è morto non si accorge di alcuna sciagura; Polissena, essendo morta, è come se non fosse mai nata; non sa nulla delle sue sventure. Chi presta soccorso ai naufraghi, chi opera nei centri di pronto soccorso e comunque in tutte le situazioni di emergenza, compresa la guerra, si trova quotidianamente alle prese con la necessità di decidere quale sia il male minore, non senza incertezza e angoscia. D’altra parte, senza il dilemma da cui il tragico ha origine non ci sarebbe né coscienza morale, né responsabilità, né la capacità di assumersi la responsabilità di essere responsabile. E proprio questo è l’umano, come cerco di dimostrare nel libro: una coscienza capace di guardare in faccia al male senza abbandonarsi all’impotenza suggerita diabolicamente dalla trappola in cui ci si può trovare persino nella vita quotidiana.
È stato uno dei primi a trattare la filosofia di Maurice Bellet in lingua italiana, ai tempi della rivista svizzera «Cenobio». Come l’ha conosciuto e quale contributo pensa che possa dare al nostro tempo?
Il merito della filosofia di Maurice Bellet è di aprire le porte a un processo di svecchiamento e rinascita del cristianesimo, il cui insegnamento ha inflitto agli esseri umani un senso di colpa permanente e paralizzante come fondamento dell’esistenza. Paolo e Agostino d’Ippona, ma anche Lutero possono essere chiamati in causa in questa opera funesta di rappresentazione dell’uomo come “originariamente schiavo del peccato” e perciò incline alla perversione e incapace di dirigere la propria vita avendo come guida la ragione personale. Lo spirito di vendetta o ressentiment che ha origine dalla frustrazione personale e dal senso di inferiorità per cui si attribuisce al prossimo la causa del proprio fallimento o sventura, non riusciamo a trovarlo nei vangeli, dove troviamo invece il diametralmente opposto amore per i propri nemici. La stessa divinizzazione di Gesù, “l’uomo più nobile”, secondo Nietzsche è una forma di vendetta che gli apostoli si prendono nei confronti di un uomo la cui superiorità appariva insopportabile. Bisogna rileggere l’Anticristo di Nietzsche e Bellet lo ha fatto. L’assunzione di responsabilità nei confronti del prossimo, lo stesso concetto di apertura e riscoperta dell’alterità a partire dal proprio corpo, l’uomo come viaggiatore che si apre a nuovi mondi anziché rimanere rinchiuso e congelato nel proprio io, sono una prova vivente della vocazione alla trascendenza che caratterizza l’uomo. Non la trascendenza statica istituzionalizzata nelle formule della liturgia, ma la trascendenza dinamica della sua stessa vita nell’intreccio dei rapporti interpersonali, come disposizione al superamento del male in ogni sua manifestazione. Trascendenza non è affidarsi passivamente alla Provvidenza e trastullarsi nella litania sulla nullità irrimediabile dell’uomo, nella disquisizione perpetua sulla sua peccaminosità originaria e indelebile. Per riportarci al dilemma, all’uomo deve essere riconosciuto il compito di affrontare attivamente le situazioni difficili facendo uso di quella ragione che gli è stata data da Dio, se crede in Dio, e che comunque possiede come uno dei beni più preziosi. Non si deve dimenticare che l’uomo, come ho già detto, ha la responsabilità di assumersi la sua responsabilità, questa sì originaria, che lo chiama al superamento di tutto ciò che lo limita e l’offende, lo incapsula e lo mortifica.
Su cosa sta lavorando al momento? Quali novità ha in serbo per i suoi lettori?
In questo momento sto rivedendo gli articoli sparsi che a partire dagli anni Ottanta ho dedicato al tema del tempo, del divenire e della storia. È molto probabile che li pubblichi come miscellanea entro l’anno in corso. Un argomento la cui trattazione sul piano teoretico incontra notevoli difficoltà, come dimostrano le aporie già individuate da Aristotele e dagli stoici nella loro riflessione sulla natura della temporalità. È nota l’aporia, già individuata da Bergson, per cui ogni spiegazione del divenire temporale spazializza il tempo sostituendo il movimento con la stasi. Ma il tempo è rilevante anche sul piano esistenziale, come ha mostrato Eugène Minkowski, Le temps vécu. Études phénoménologiques et psychopathologiques, 1933, L’Io, la coscienza, si fonda sulla dialettica di due principi, schizoidia e sintonia. La sintonia ci permette di immergerci nell’ambiente, di uscire da noi stessi, di muoverci all’unisono con lo stesso ambiente; la schizoidia è la capacità di distaccarci e di prendere le distanze dall’ambiente. I due principi sono in apparenza contraddittori, ma la vita psichica normale si basa essenzialmente sulla loro coesistenza e alternanza nel modo più armonioso possibile. L’autismo, quel distacco dalla realtà accompagnato dal predominio assoluto della vita interiore, come già Bleuler aveva osservato, può essere interpretato come la manifestazione del prevalere unilaterale della schizoidia. La nostra stessa attività è volta a lasciare un’impronta di noi stessi: quindi nel momento stesso in cui ci immergiamo nel divenire a contatto con l’ambiente, dialetticamente emerge l’esigenza di affermare noi stessi facendo ricorso esclusivamente alle nostre stesse forze e concentrandoci solo sulla nostra opera: per questo si può dire che nello slancio personale c’è un elemento di schizoidia.
Claudio Tugnoli è nato a Budrio (Bologna) nel 1953 e si è trasferito in Trentino nel 1977; è stato docente di italiano, storia e geografia in molte scuole della provincia di Trento, poi di filosofia e storia presso il liceo classico “G. Prati” di Trento; ha collaborato attivamente con l’IPRASE (Istituto Provinciale per la Ricerca, l’Aggiornamento e la Sperimentazione Educativi) del Trentino e con il Corso Superiore di Scienze Religiose di Trento. Ha conseguito l’Idoneità di Professore Associato in FILOSOFIA MORALE nel 2005 presso la Facoltà di lingue e letterature straniere dell’Università degli Studi di Bologna, confermata dall’Abilitazione per Professore Associato in FILOSOFIA MORALE (ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE – BANDO 2012) in data 27 febbraio 2014. Ha insegnato presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna e Trento. Tra le ultime pubblicazioni: “La magnifica ossessione. Il mito della vittima tra letteratura e vangeli”, Bruno Mondadori, Milano 2006; “Libero arbitrio”, Liguori, Napoli 2014; “Ritratto dell’anima/Anima del ritratto”, Osiride, Rovereto 2014; “Humanism and Post-humanism. The obsolescence of classical Platonic humanism”, Lambert Academic Publishing, Saarbrücken 2016; “Come un ladro nella notte”, Genesi editrice, Torino 2018 (memoire); “Il confine invisibile”, Il Faro, Trento 2019; “Filosofia del dilemma”, Mimesis, Milano-Udine 2019. È autore di testi poetici in italiano e in dialetto budriese. Pubblica recensioni e articoli su RIVISTA ROSMINIANA, QUILIBRI, DIALEGESTHAI, PER LA FILOSOFIA, OPEN JOURNAL OF PHILOSOPHY, PHILOSOPHY STUDY. È autore di traduzioni di: Rousseau, Voltaire, Montesquieu, McTaggart, Wundt. Attualmente collabora con la Facoltà di Sociologia di Trento con un corso seminariale sull’argomentazione scientifica. In qualità di Accademico degli Agiati, è membro del Comitato scientifico del Centro Studi Antonio Rosmini del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Trento e segretario della rivista online “Rosmini Studies”, nonché Presidente dell’Associazione Culturale “A. Rosmini” di Trento e membro del comitato scientifico di ASES (Associazione Studi Emanuele Severino). Ha ricevuto numerosi premi sia per la saggistica che per la poesia, l’ultimo è il primo premio ex aequo del Premio Internazionale di Poesia ” Sulle orme di L.S.Senghor” (du Prix International de Poésie” Sur les traces de L.S.Senghor”, in cui è stato premiato “Il confine invisibile”. Cerimonia presso la Casa della Cultura di Milano, 14 dicembre 2019. Al vincitore del primo premio è assegnata una pagina di wikipoesia: https://www.wikipoesia.it/wiki/Claudio_Tugnoli.
Claudio Tugnoli, Filosofia del dilemma, ed. Mimesis, 2019.
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