> di Luca Pantaleone*
Rispondere alla domanda su dove abiti il bello equivale a chiedersi due cose. Innanzitutto se esso possa “abitare” un luogo, nel senso usuale del termine. In secondo luogo poi, in che cosa consista l’essenza del bello, o secondo quali modalità questo si manifesta. Sono due domande molto profonde, su cui la filosofia si interroga da secoli.
Preferisco partire dalla seconda, perché la domanda sul manifestarsi dei fenomeni non può che porsi come originaria rispetto a qualsiasi altra riflessione. Una certa tradizione filosofica sarebbe tentata di ricavare l’essenza del bello dagli esempi attraverso cui il bello si manifesta. Il problema di un simile approccio però è riuscire a trovare la quadra che consenta poi, in seconda battuta, di evincere un’essenza a partire dai suoi “accidenti” contingenti. Detto altrimenti, posto che riuscissimo a identificare come “belli” alcuni oggetti d’arte, o in generale alcuni fenomeni (una cascata, un temporale, l’eruzione di un vulcano), in quale modo sarebbe possibile stabilirne un’essenza comune? O, prima ancora, sarebbe davvero possibile definire un unico concetto di “bello” in modo che possa applicarsi a tutti questi esempi? Le sfide difficili non hanno mai scoraggiato i filosofi. Ma il fatto che questo tipo di approccio non abbia condotto nel corso dei secoli a niente se non al semplice accumulo di interpretazioni diverse non giova di certo a suo favore. Credo che il motivo per cui questo modo di ragionare sia fuorviante risieda nel fatto che esso dia per scontato il mondo ancora prima di incontrarlo. Ovvero che si giudichi il bello come tale ancora prima di entrare in contatto con la sua manifestazione mondana, cioè con la bellezza.
Ma come fare per non dare per scontato l’accadere del mondo nella modalità della bellezza? Anzitutto, non anteponendogli un’idea, o una definizione, che possa essere applicata a priori a qualsiasi ente contingente. Vale lo stesso per il bello. Definirlo come un’idea a priori di qualsiasi nostra rappresentazione, o come dotato di “forma e armonia” prima ancora di percepirne la forma e l’armonia nel loro manifestarsi, equivale a porlo dinnanzi alla propria coscienza secondo un atto inautentico che non si prefigura in maniera intenzionale come proprio, e dunque “mio”. Questo può portare a lasciarsi affascinare dalla suggestione che l’essenza del bello risieda in una regione trascendente o soprasensibile, e che si cali nel mondo attraverso le sue manifestazioni contingenti in modo del tutto indipendente da come queste vengono percepite dalla coscienza. Ma l’idea che sta alla base di questa interpretazione della bellezza è facilmente smentibile dall’esperienza, cioè dal fatto che la manifestazione del bello ha bisogno, perché accada, di una coscienza intenzionante che ne abbia sensazione.
Ma come può accadere l’essenza del bello? È necessario che questa accada? Porsi una domanda del genere equivale a chiedersi anzitutto se una cosa come la bellezza esista, e in seconda battuta se si possa rimanere sordi al richiamo dato dalla sua esistenza. Essere coscienti di questa domanda – cioè mettersi alla ricerca dell’essenza del bello – equivale a far fuori-uscire (ex-sistere) la propria coscienza dall’ambito del quotidiano, posizionandola al centro di un processo di comprensione del mondo che mira a ricercare il non-quotidiano, l’eccezionale, l’eccedente. Sotto questo aspetto, il bello si prefigura quindi non come un qualcosa di semplicemente piacevole o armonioso; bensì come l’emergere di una coscienza di differenza nello iato che separa la percezione soggettiva del mondo dal suo manifestarsi. In altre parole, occorre porsi in una peculiare modalità di ricerca del bello per poterlo arrivare a percepire. E questa modalità di ricerca corrisponde a una modalità d’essere tale da poterci mettere in condizione di apprezzare una differenza nel modo di manifestarsi dei fenomeni che abbiamo intorno, portandoci a nominare quello che fino al momento precedente chiamavamo il normale, il quotidiano, come bello.
Ora, se il bello emerge nella differenza con il quotidiano – quindi con il già-dato, o il già-noto – com’è possibile apprezzarne l’essenza? Qual è questa modalità d’essere che ci consente di poter nominare il bello? Si è già detto che tale modalità d’essere ha bisogno, per manifestarsi, dell’autenticità di un atto intenzionale. Più nello specifico, essa ha bisogno dell’autenticità dell’atto intenzionale con cui l’uomo scopre se stesso come esistente dopo aver messo tra parentesi tutte le sue certezze a proposito di se stesso, del mondo, degli altri. Questo mettere tra parentesi equivale a sperimentare l’esperienza della solitudine nella compagnia, e si attua mediante un esercizio di dubbio scettico nei confronti di qualsiasi modalità dell’apparire quotidiana. L’uomo che dubita vive per la prima volta la solitudine, poiché decide di privarsi autonomamente di tutte le sue certezze. Egli continua a vivere un mondo fatto da sicurezze, ma prova al loro interno un sentimento nuovo, che lo porta a tentare una strada diversa da quella quotidiana. Questo sentimento è un atto intenzionale che ha bisogno per manifestarsi, come tutti i sentimenti, di un atto di sensazione che lo riempia, arrivando a costituirne la materia d’atto. E l’atto di sensazione in grado di riempirlo è lo stesso atto che porta l’uomo a sperimentare su se stesso, sulla propria pelle, una coscienza di differenza. Ciò accade quando per esempio si osserva per la prima volta la neve cadere dal cielo, ammantando le strade di bianco. La sensazione visiva della neve, la sua freschezza avvertita sulla pelle, l’umidità che sentiamo nella bocca quando uno dei suoi fiocchi ci cade sulla punta della lingua, costituisce la materia d’atto di un sentimento che ci porta a riflettere sul mondo, e sul manifestarsi dei fenomeni che accadono in esso. Tale sentimento non si riduce a quello della piacevolezza, o della spiacevolezza. Come non è assimilabile a relativo alle sensazioni di freddo che possono scaturire dal contatto dei pantaloni bagnati con la propria pelle. O meglio, non è solo relativo a questi sentimenti, non si riduce tutto al movimento centripeto operato dal mondo per entrare dentro di noi. Esso è, innanzitutto e per lo più, la risultante di un moto d’animo interno che ci fa scoprire il mondo in un modo diverso da come lo conoscevamo, da come lo avevamo sempre percepito.
Una volta rischiarato dall’accadere dell’evento come differenza, l’uomo sarà portato a riflettere sulle sue certezze. Osservando ad esempio il fenomeno della neve penserà che non tutto ciò che cade dal cielo lo fa sotto forma di acqua liquida, e questo lo porterà a ridiscutere non solo il ruolo dei fenomeni nel mondo, ma anche il suo stesso ruolo in quanto ente com-partecipe di questi fenomeni. Così potrà scegliere di operare una messa tra parentesi, una negazione provvisoria, di tutto quello che lui credeva essere certo e indiscutibile, arrivando a mettere in discussione persino l’esistenza del suo stesso pensiero. Ma è proprio negando ciò che avanzerà finalmente il primo passo verso l’esistenza. Dalla negazione che qualsiasi pensiero esista gli apparirà infatti come inconfutabile l’esistenza di almeno questo pensiero negante. E questo gli farà guadagnare la sua prima grande certezza, rendendolo ancora più cosciente della differenza che lo separa da tutti gli altri enti del mondo.
La domanda che occorre farsi a questo punto è la seguente: come si sentirà quest’uomo dopo avere ottenuto finalmente questa prima certezza? Quale sarà il suo stato d’animo, o il suo sentimento? La semplice risoluzione del dubbio scettico non basta per fare emergere un sentimento, in quanto come detto questa peculiare modalità d’atto ha bisogno, per manifestarsi, di una sensazione che occupi il posto della materia intenzionale, e dunque di un corpo proprio in grado di provare questa sensazione. L’uomo che avrà scoperto l’esistenza del proprio pensiero si domanderà dunque ora se possa esistere qualcosa come il corpo proprio. Ma questo ulteriore dubbio genererà in lui di riflesso una risposta lo porterà ad appoggiare la mano sul proprio braccio, percependolo tutto a un tratto come suo. Il sentimento che si accompagnava al dubitare troverà così la sua soddisfazione, grazie all’atto di sensazione con il quale la mente comanderà al proprio corpo di percepire se stesso, decretandone la sicura l’esistenza.
Questo sentimento d’esistenza con il quale l’uomo è in grado di appercepire per la prima volta la propria esistenza fondante (e di essere dunque causa noumenon di sé stesso) è la meraviglia. Essa deriva dal trauma di aver avvertito una differenza nell’esperirsi dei fenomeni della quotidianità, e si realizza come thaumazein in seguito alla risoluzione del dubbio scettico a proposito dell’esistenza dei propri pensieri e del proprio corpo. Una volta stabilito il proprio esser-ci nel mondo l’uomo potrà così rivolgersi nuovamente agli enti che lo circondano, ed è solo allora che potrà accettarne finalmente la differenza come attuale e compiuta, calandosi nel proprio personale rapporto con essi al fine di tentare di comprenderne l’essenza e la manifestazione. Al sentimento del thauma, sempre presente, si accompagneranno così tanti sentimenti particolari che avranno come sensazioni riempienti le materie d’atto intenzionali di una coscienza finalmente consapevole di sé, pronta non solo a ricevere dal mondo il già-dato, o il già-noto, ma a riflettere sull’essenza dei propri atti operando, assieme al movimento centripeto che va dal mondo all’uomo, anche un movimento centrifugo in grado di dare vita a un flusso ininterrotto tra noi e l’insieme degli enti che ci circondano.
Ed è proprio in questo iato che dimora la bellezza. Percepire il mondo come bello vuol dire percepirlo con occhi nuovi. Osservare il quotidiano come il superamento della sua negazione, e rivestire gli enti che popolano la nostra vita di un significato nuovo, calandoci tra essi e facendoci conquistare dal sentimento di meraviglia che accompagna tutti gli atti della coscienza che si scopre come causa fondata di sé. Il bello non si prefigura quindi come un unico sentimento, ma come un processo, che parte dal fenomeno per tornare al fenomeno con occhi nuovi, facendo guadagnare all’uomo la consapevolezza di essere causa noumenon di sé nella percezione e nella comprensione di questo fenomeno. Tale processo si prefigura come un flusso ininterrotto esperienziale che va dal mondo all’uomo e da questi al mondo, e che fa notare all’uomo una differenza non solo negli enti che lo circondano, ma anche in se stesso, ridisegnando nel suo manifestarsi il ruolo e la storia di entrambi. Per questo il bello non può risiedere in un luogo determinato. Ma anzi è racchiuso nel proprio manifestarsi come fenomeno nell’ambito della percezione intenzionale da parte della coscienza dubitante, e dunque nel proprio aleggiare orbitante tra la coscienza del trauma e la manifestazione del sentimento del thauma.
* Luca Pantaleone, di origini toscane, è laureato in Farmacia e Filosofia, si interessa prevalentemente di antropologia culturale, esistenzialismo e fenomenologia ed è autore di diversi libri di filosofia e narrativa, tra cui Il problema della verità (ed. Aracne) e Apnea – I misteri del Gargano (ed. Porto Seguro)
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