> di Paolo Calabrò
Daniele Baron, piemontese doc classe ’76, è laureato in filosofia ed è tra l’altro fondatore della rivista «Filosofia e nuovi sentieri». Da sempre dedito all’esplorazione dei più diversi linguaggi attraverso i quali il pensiero filosofico possa estrinsecarsi – dal romanzo alla pittura – dà oggi alle stampe un volume di poesia (Il Cantico di Hermes, ed. Controluna); ma, detto così, è già riduttivo. Abbiamo preferito rivolgere la domanda direttamente a lui.
Versi, prosa, dialoghi teatrali: che cos’è il Suo Cantico di Hermes?
È una sperimentazione letteraria che trae ispirazione dalla tradizione spirituale millenaria dell’alchimia, dell’arte regia. Ci tengo a precisare che a dispetto del palese (già dal titolo) riferimento all’alchimia, il libro non richiede alcuna particolare preparazione o conoscenza in quel campo e che, d’altro canto, non è un libro sapienziale, non vuole tramandare un sapere. È un’opera potenzialmente fruibile da qualunque lettore e sebbene lungo tutto il percorso siano disseminati simboli che forse solo l’appassionato di alchimia saprà riconoscere appieno, tutto continua ad avere senso indipendentemente da essi. Nel Cantico si danno, perciò, vari livelli di lettura tutti egualmente legittimi. Come giustamente si rileva, Il Cantico di Hermes è poi un laboratorio in cui differenti materiali espressivi si alternano e si fondono, mi auguro in modo armonico; così come nel crogiolo degli antichi alchimisti i metalli venivano uniti alla ricerca della pietra filosofale, dell’oro, così qui poesia, filosofia, teatro, prosa, si avvicendano tra di loro per tentare un nuovo tipo di scrittura. Non a caso in molti passi la scrittura viene tematizza nella sua struttura morfologica e protagonisti diventano gli stessi segni del discorso (la punteggiatura, le parentesi, l’andare a capo, ecc.). Le parole, i segni, non sono meri mezzi destinati a sparire davanti al significato, non sono mai neutrali ai fini dell’espressione del soggetto e del mondo, ma hanno una loro personalità che ho cercato di esplicitare. In un certo senso, nel Cantico la scrittura è la materia e il soggetto del discorso. I differenti stili che ho utilizzato nascono da un’esigenza, che è in fin dei conti un anelito alla libertà dalle costrizioni di un genere specifico, che va di pari passo con la scelta della forma migliore per ogni singolo tema. Non tanto dunque eclettismo, ma necessità espressiva. Mi auguro che questo esperimento venga letto come qualche cosa di nuovo, inedito, e perciò interessante e che soprattutto sia sentito come autentico e spontaneo. Spero che il lettore allo spaesamento dato dalla variazione continua possa affiancare l’apprezzamento ed il riconoscimento dell’unità fondamentale che ispira e dà senso all’opera. Giustamente si sottolinea come l’ascrizione del Cantico nel genere della “poesia” sia riduttiva, perché non in grado di spiegarne l’essenza. Quando ho cominciato a comporlo non avevo intenzione di fare della poesia; Hermes rappresentava ai miei occhi, fatte le debite proporzioni, l’equivalente dello Zarathustra di Nietzsche, vale a dire era a tutti gli effetti un “personaggio concettuale” in grado di prestare voce alla mia visione del mondo e della vita, alle mie intuizioni più profonde. L’intento iniziale era filosofico, pertanto, ma la scrittura stessa mi ha condotto, quasi mio malgrado, a questo risultato ibrido in cui differenti stilemi si armonizzano per tentare un genere “nuovo”, che in ultima analisi, in senso lato, può essere definito poesia.
La capacità di tenere insieme generi diversi nello stesso libro (e il giocare, tra l’altro, con il linguaggio della matematica) fa pensare a certe opere di Maurice Bellet di genere filosofico-narrativo; d’altro canto, alcune tematiche riproposte diffusamente fanno pensare a Moresco. Cosa ne pensa, e quali sono gli autori che l’hanno maggiormente ispirata?
Sono numerosi gli influssi che si possono cogliere nel Cantico, sia quelli espliciti sia quelli impliciti. Il mio libro è debitore nei confronti di numerose tradizioni letterarie e concettuali: su tutte posso citare le avanguardie dell’inizio del secolo scorso, in particolare il surrealismo e il futurismo, per la loro carica sperimentale e per la loro capacità di rivoluzionare ogni canone fondendo diversi stili, facendo dialogare differenti linguaggi espressivi, anche mescolando le differenti arti (poesia, pittura, musica, ecc.) e i diversi piani che la tradizione classica aveva voluto mantenere rigorosamente separati. Soprattutto il surrealismo con la sua valorizzazione dell’inconscio come serbatoio inesauribile visioni spaesanti è stato per me primaria fonte di ispirazione. Non posso non menzionare poi l’influsso essenziale a livello teorico dell’opera di Georges Bataille, geniale scrittore e pensatore francese dello scorso secolo: il suo nome ricorre in un passo (in Equazioni lineari) e la sua presenza è facilmente individuabile in tanti altri luoghi del mio testo, ad esempio, nell’interpretazione della poesia come manifestazione dell’impossibile, nell’erotismo come approvazione della vita fin dentro la morte, nel piacere come estasi mistica. Altri riferimenti per la poesia sono: Baudelaire, Rimbaud, Leopardi, l’ermetismo, Palazzeschi, Papini, Ungaretti, ecc. Non disdegno, tuttavia, di affiancare a questi riferimenti “alti” anche quelli della cultura popolare musicale che è stata per me molto formativa: il blues, il rock psichedelico, in particolare i Doors con i loro testi visionari, ecc.
Nigredo-Albedo-Rubedo: che cos’è questa tripartizione del volume, e che rapporto ha con il titolo?
Queste sono le tre fasi classiche dell’alchimia. L’alchimista le deve attraversare per arrivare in fondo al processo di trasformazione della materia che mette capo all’unione degli opposti ed alla pietra filosofale. Grazie al lavoro fondamentale di Jung e di altri pensatori, nel secolo scorso, è stato per fortuna superato il precedente pregiudizio che considerava l’alchimia una chimica ingenua da relegare nel passato remoto, un insieme di procedimenti oscuri e privi di efficacia, un complesso di dottrine ormai rese inutili dal trionfo della scienza nel Settecento e nell’Ottocento. L’alchimia, oggi lo sappiamo, non è solo l’antenato, ingenuo e goffo per certi aspetti, della chimica moderna. Nel procedimento alchemico, infatti, già nell’antichità, il lavoro sulla materia e sui metalli andava di pari passo con il lavoro sull’uomo, sull’anima dello stesso alchimista, mediante percorso psicologico preciso; i due ambiti, fisico e psichico, non erano separati. I simboli dell’alchimia erano espressione sia di operazioni fisiche di trasformazione della materia, sia di altrettanto importanti moti dell’anima dello sperimentatore. Ecco perché possiamo affermare che le figure dell’alchimia sono simboli universali e validi ancora oggi: parlano al nostro profondo e sono veicolo di importanti verità. Il mio Cantico parte da questo assunto fondamentale e riprende la tripartizione classica interpretandola psicologicamente e filosoficamente. Si potrà notare, infatti, leggendolo, che la prima fase Nigredo, opera del nero, è quella più malinconica e nichilistica, a tratti aggressiva e rabbiosa, mentre in quelle successive (Albedo, opera del bianco, Rubedo, opera del rosso) tutto si rasserena; l’intera opera deve essere vista come una ripresa del movimento che partendo da una ineluttabile espiazione, separazione, porta alla compiuta armonia e conciliazione degli opposti.
Il tema della morte è ricorrente e variamente sfaccettato: parla di putrefazione, decomposizione, marcitura, inumazione, scheletri, rigor mortis…
Sì, la morte ha diversi significati nel Cantico. In primo luogo, viene presa in considerazione a livello filosofico come un costitutivo essere dell’uomo: l’uomo è per morire, è solo per non-essere più. Questa essenziale finitezza, tuttavia, non ha nulla di naturale: la morte è fonte di angoscia perché distruttrice di senso, poiché impossibile da comprendere e da accettare; si tratta infatti di un evento disumano per il singolo che nulla, nemmeno la fede, la credenza in Dio e nell’al-di-là, può giustificare. L’uomo escogita tanti modi per sfuggire al pensiero della morte, per poterlo annullare, ogni mezzo è buono per negare il divenire. L’evocazione frequente di questa tematica nel Cantico, perciò, ha questo primo duplice significato: quello di porre l’accento sulla essenziale finitezza dell’uomo e quello di dare voce all’angoscia che proviamo davanti ad essa. Ma non c’è solo questo livello di interpretazione della morte nel Cantico, ce n’è uno anche che definirei psicologico. Sotto questo aspetto mi riferisco ad un particolare accadimento presente nell’esistenza di ogni persona: in un momento preciso del passaggio dall’infanzia all’adolescenza (nel mio testo, memore di William Blake, ho parlato anche di passaggio dall’innocenza all’esperienza), ogni individuo si rende conto di essere mortale, di dover morire; questa improvvisa, quasi istantanea, comparsa della coscienza della propria mortalità fa crollare tutto l’ordine di prima, quello nel quale il soggetto era privo di (questa) coscienza, lasciandogli un senso di smarrimento e abbandono, oltre che la nostalgia per il passato dorato che sa che non tornerà più. Nella Bibbia questo trapasso traumatico è ben esemplificato dalla narrazione del peccato originale e non a caso due passi del Cantico sono dedicati ad Adamo ed Eva. Infine, è importante aggiungere che non sempre nel Cantico la coscienza della morte, di essere mortali, ha una valenza negativa. L’anelito nichilistico, il costitutivo tendere al nulla dell’uomo e la sua sete a volte di annullamento, non ha solo implicazioni negative, può avere, infatti, risvolti positivi: il nulla, come nostro destino e metafisicamente come assenza di fondamento dell’essere, può anche significare, prima di tutto, libertà dalle forme costituite, spesso illusorie, e sedimentate che velano la realtà; in secondo luogo, la morte è strettamente parente, se non identica sotto questo punto di vista, con la vita considerata come dispendio continuo di energie e risorse. Da questo punto di vista, la coscienza della morte può indurci a vivere con maggiore intensità proprio perché ci rende consapevoli della gratuità del nostro essere al mondo, della nostra contingenza.
Scrive: «Non per elevarsi un uomo casto dovrebbe confessare i propri pensieri impuri, ma per portare a galla ciò che è naturale in ciascuno di noi: il desiderio senza freni che si concretizza in pensieri inconfessabili, la bestialità rimontante». Similmente, parla del rapporto tra la creatività del poeta e la coda, ricordo di passate (ma mai del tutto) animalità.
La scrittura, come ogni altra espressione artistica, come ogni linguaggio umano, a livello antropologico, è strettamente collegata al nostro essere animale, alla nostra parte più istintiva, sensibile, ma tendiamo a dimenticarlo. L’animalità significa, dunque, rammentare sempre da dove veniamo, da dove discendiamo. Si tratta di una genealogia necessaria per contrastare ogni oblio delle origini; è il giusto antidoto contro ogni forma di idealismo e di spiritualismo. L’uomo non nasce dal nulla, ha in sé una parte animale, tuttavia gli impulsi atavici vengono rimossi, relegati nel subconscio. Il nostro essere carne oltre che spirito, le nostre pulsioni, condizionano quasi tutte le nostre espressioni, anche quelle più elevate, molto più di quanto vorremmo ammettere. La ragione calcolante, l’utilitarismo, il lavoro, l’urbanità necessaria al nostro vivere in società, ci inducono a negare questa discendenza e soprattutto nell’anelito all’identità a negare la molteplicità istintiva e animale che ci costituisce.
Tra i suoi versi ritroviamo l’equazione della potenza (IO=DIO) e l’equazione del divenire (Sé=Altro). Di che si tratta?
Si tratta del nucleo filosofico principale del Cantico, espresso ironicamente qui in due formule antitetiche (ridurre il pensiero e la realtà a formule matematiche semplici è il sogno di ogni filosofo): l’incognita, la x, di queste equazioni lineari è il desiderio che è l’essere costitutivo dell’uomo, il de-siderare che, come spiego in altro passo, significa nella sua etimologia latina (sidera: stelle) due cose opposte: guardare intensamente le stelle e insieme, interpretando il de come privativo, distogliere lo sguardo dalle stelle. Le due formule rappresentano due atteggiamenti opposti che hanno una comune radice nel desiderio e tutto dipende da come il desiderio viene interpretato o vissuto: da un lato, c’è l’identificazione IO=DIO dell’equazione della potenza, che è un volgere lo sguardo alle stelle, un desiderare l’essere come assoluto, fondato e eterno; dall’altro, c’è l’identificazione Sé=Altro (Rimbaud scrive che “Io è un altro”), impossibile per il pensiero logico (fondato sull’identità e sul principio di non contraddizione), nella quale si esprime il divenire in cui l’essere viene identificato al non-essere e che comporta il distogliere lo sguardo dalle stelle. Come ho sottolineato, nel Cantico accenno a questa importante verità in modo ironico, nel senso che la affermo per negarla o la nego per affermarla. Da un punto di vista concettuale il discorso meriterebbe un approfondimento che un’opera poetica non concede. Il vantaggio della poesia è di rendere sensibili immediatamente le intuizioni filosofiche e di farlo anche per un pubblico di non specialisti.
«Da quando filosofare è diventato un gioco sulle parole, molti confondono filosofi e poeti». Qual è invece la differenza fondamentale, e perché è così importante?
Come ho detto, quando nel Cantico mi riferisco a questa differenza lo faccio in modo ironico: non perché non sappia o non voglia vedere che poesia e filosofia sono due cose molto differenti. La poesia di norma procede per intuizione, assonanza; sono le stesse parole in essa a volte a suggerire il contenuto, a richiamare una sensazione, a evocare un sentimento. La filosofia deve basarsi su ragionamenti utilizzando i concetti, deve astrarre spesso da tutto ciò che può commuovere l’animo del poeta per affrontare i problemi della conoscenza e dell’esistenza in modo sistematico e logico. Tuttavia, il mio Cantico non è forse la sconfessione di questa differenza? Non afferma dal principio alla fine il contrario? Che la poesia deve essere filosofia e la filosofia poesia? Non gioca a sua volta con le parole pretendendo allo stesso tempo di esprimere pensieri profondi?
“Poeta mio malgrado”: è solo il titolo di una composizione, o si riferisce a Lei, direttamente?
Si riferisce senz’altro a me. La poesia mi si è imposta, mio malgrado, in quest’opera come migliore espressione del mio pensiero. Con questo non voglio sminuire minimamente l’importanza della poesia: non è che io voglia dire che uno sia o diventi poeta per caso e in mancanza d’altro; voglio affermare che la poesia deve arrivare da sé, quasi senza ricerca, senza che ci si metta al suo seguito per acciuffarla e che deve imporsi come parola necessaria, definitiva, ultima. Ritorniamo sempre allo stesso punto: all’ironia, il nostro abito costitutivo. Noi siamo una cosa solo al modo di non esserla (come ha spiegato Sartre ne L’Essere e il Nulla). Si può essere poeta solo se non lo si è, solo se non ci si definisce poeta e non si desidera esserlo, ecco ciò che volevo anche dire in quel componimento.
A cosa sta lavorando adesso?
Essenzialmente a tre progetti, ancora allo stato embrionale. Sto scrivendo un romanzo intitolato “Il terzo occhio” (narra di un tizio a cui spunta un terzo occhio in cima al capo). Sto elaborando gli stessi temi del mio Cantico da un punto di vista più prettamente concettuale nella speranza (forse vana) di riuscire a scrivere un giorno un sistema filosofico sul divenire. Infine, mi piacerebbe scrivere un’opera monografica su Georges Bataille: il mio sogno sarebbe quello di “fare un ritratto” di Bataille attraverso la mia interpretazione particolare del suo pensiero, un po’ come Deleuze ha fatto nella sua produzione, ad esempio, con Nietzsche o con Spinoza.
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Daniele Baron, Il Cantico di Hermes, ed. Controluna, 2018.