> di Luca Pantaleone
In un testo del 2016 (R. Marchesini, Alterità – L’identità come relazione, Mucchi Editore, Modena, 2016) l’etologo e filosofo Roberto Marchesini avanza una nuova proposta di antropologia filosofica, cioè di costruzione dell’identità umana, che pone al centro l’alterità e l’ibridazione animale quali unici elementi in grado di traghettarci verso una dialettica sociale post-umana.
In quest’ottica l’alterità è vista come «antimateria dell’identità», distacco/vicinanza al sé che contribuisce in un movimento dentro-e-fuori natura a tessere un concetto di identità incentrato sull’essere relazionale del vivente (ivi, p. 12). Il bersaglio del polemos è chiaramente l’antropologia ego-centrica cartesiana, che nella sua dialettica soggetto-oggetto fa cadere ogni alterità nell’indistinto, e verso cui l’unica soluzione, a detta di Marchesini, è operare un verso e proprio esercizio fenomenologico di epoché, mettendo tra parentesi l’essere-per-sé della res cogitans e ritrovando un essere-per-altri che veda il punto focale della propria esistenza nella cura, nell’espressione di un atto coniugativo e relazionale con il mondo-ambiente (l’Umwelt) (ivi, p.19). Il risultato di questa ricerca delle alterità, rappresentate dal tipo non umano, è l’approdo ad una dimensione esistenziale che consenta di ricostituire una soggettività epistemica non antropo-centrica ma eto-centrica, «implicita nella condizione animale» e in grado di essere «espressione modale del corpo» (ivi, p.176).
Il fatto di decentrare il modello di organizzazione della vita gnoseologica e sociale umana (potremmo dire del suo habitus epistemico e relazionale) verso forme di ibridazione che consentano alla mente di «elaborare una dialettica inclusiva e organizzativa» (ivi, p.173) valica ovviamente i confini ristretti dell’uomo vitruviano. Abbracciare ed aprirsi a nuove forme di alterità significa infatti in primo luogo abbandonare la credenza nell’indipendenza della soggettività dalla condizione animale, includendo nelle proprie possibilità ontopoietiche le particolarità filogenetiche e le particolarità del corpo (ivi, p.109); in secondo luogo, vuol dire introdurre nel rapporto uomo-mondo una dialettica che si pluralizza nell’infinità delle possibilità che le predicazioni dell’essere umano sono in grado di esprimere (ivi, p.171). Per attualizzare questa dialettica inclusiva. A detta di Marchesini, è necessario, da parte dell’umano, soppesare le rappresentazioni delle alterità, proiettare il sé nelle alterità riorganizzandolo attraverso esse e, in definitiva, fare emergere un nuovo tipo di umano come esito di questo incontro (ivi, p.173). Per fare questo sono necessarie però metamorfosi che inducono a parlare non più di una impostazione umanista, bensì di una post-umanista che proponga una nuova cultura della tecnica «virale e infiltrativa» e una tecnopoiesi come processo antropo-decentrativo (ivi, p.187).
Per Marchesini insomma occorre operare un cambiamento di paradigma filosofico, togliendo l’uomo dal centro dell’indagine epistemica (antropo-decentrandolo) e «contaminandolo» con i frutti del mondo naturale e della tecnica. La riflessione si colloca sul solco del nichilismo nietzscheano (e in particolare nella contrapposizione dello spirito apollineo con quello dionisiaco) e della critica della ragione operata da gran parte della filosofia continentale post-hegeliana. Tuttavia, non è chiaro il perché l’uomo debba operare questo decentramento. Uno dei motivi potrebbe essere quello indicato tra le righe da Marchesini; il rischio cioè che l’antropo-centramento conduca ad una prepotenza dell’umano verso tutte le forme di alterità, e in primis sulla natura, sull’animale e sull’ambiente. Ma tale rischio, sebbene possa sussistere in qualche caso contingente, non è giustificato ad essere elevato a causa dell’impellente «trasloco paradigmatico» che l’uomo dovrebbe operare. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che l’intera riflessione di Marchesini, come accade spesso in critiche del genere, sottintende un concetto di verità irraggiungibile, o peggio indefinibile, totalmente disperso nel relativismo della dipendenza della «struttura interrogativa», ovvero nel rapporto tra uomo e ambiente che non si realizzerà mai come corrispondenza a causa della natura intrinsecamente estranea, sovra-naturale, estranea, dell’apparato epistemico dell’uomo vitruviano (ivi, p.136).
L’idea che ci sia una corrispondenza reale tra un soggetto conoscente (la res cogitans) e un oggetto da conoscere, cioè la convinzione che mente e mondo dei corpi facciano tutti parte di un grande puzzle in cui l’obiettivo finale è ritrovare un perfetto bilanciamento e incastro tra le parti bianche e le parti nere, non è difficile da criticare. Il problema con cui si trova ad avere a che fare la filosofia però è prendere le misure di una nuova dimensione esperienziale che tenga conto della difficoltà di riuscire a staccare pezzi del mondo reale (i fatti) e farli corrispondere a parole o enunciati per arrivare ad asserire qualcosa di vero. Le strade da tentare per una soluzione possono essere tante, ma già rendersi conto del problema è operare un antropo-decentramento (direbbe Marchesini), uno slittamento del punto di riferimento cognitivo che conduca il soggetto a collocarsi non più nella mente o nella coscienza, ma nell’individualità, nella presa di possesso cioè del connubio della mente e del corpo in quanto «mio corpo», corpo proprio. La domanda da fare a questo punto è: è davvero necessaria la perdita dell’umanismo per operare questo slittamento di prospettiva? Cosa può dare l’animalità o l’ibridazione tecnologica in più, a livello sociale ed epistemologico, rispetto alla presa di possesso dell’uomo della propria individualità?
Nel secondo capitolo del suo libro Marchesini propone una «fenomenologia della vita» che abbandona l’idea di «un filo d’Arianna che conduce all’essere» e ipotizza la totale «assenza di una forma ultima del mondo» (ivi, p.47). L’esperienza non sarebbe descrivibile così in un modo univoco, ma si realizzerebbe nella molteplicità del dialogo senza che l’episteme che ne consegue possa arrivare a definirsi davvero compiuta. Conoscere, accettando quest’idea, non potrebbe che corrispondere così con l’accettazione di un «itinerario di alterità», accettando «l’ignoranza come costituzione di ogni processo di conoscenza» (ivi, p.50). È a questo punto che emergerebbe con chiarezza il ruolo dell’ibridazione animale e tecnopoietica: laddove infatti si abbandonasse ogni tentativo di raggiungere una qualsiasi certezza non rimarrebbe all’uomo altra soluzione che fare esperienza del mondo, non tentando di giudicarlo ma immergendosi in esso, vivendo cioè una condizione di parificazione e immersione esistenziale con tutte le creature che lo abitano e con tutte le diverse forme possibili di concepire il rapporto intersoggettivo tra umanità, natura e mondo-ambiente.
Mi sembra però che Marchesini getti un po’ troppo precocemente la spugna. L’unica soluzione proposta, di fronte alla perdita del filo di Arianna, sarebbe abbandonarsi nel labirinto del Minotauro, arrivando anzi a concepire la realizzazione della propria soggettività proprio nella metamorfosi uomo-animale, mantenendo il proprio corpo e ibridando la testa con quella di un toro. Ma non ci viene spiegato, in questa visione post-umanista, a) se siamo davvero legittimati a credere che non ci sia alcuna possibilità di asserire qualcosa di vero, e b) quale sarebbe il valore aggiunto epistemico dell’ibridazione. Per dare una risposta al primo dubbio non può esservi altra strada che operare un esercizio di epoché. Tuttavia, mentre Marchesini circoscrive questa epoché alla «sospensione del sé narcisistico per mettere in moto il sé sensibile dell’esperienza soggettiva», così da potersi «riconoscere nelle alterità» (ivi, p.63), una fenomenologia che si rispetti dovrebbe sospendere non solo il sé narcisistico, ma tutto il mondo e l’universo inteso come ambiente-comune in cui interrogarsi sulla propria soggettività e sulla propria individualità. Ciò riguarda perciò non solo la sospensione del sé solipsistico, ma anche la messa tra parentesi dell’esistenza dell’animalità, della tecnica e di qualsiasi altra forma concettuale dell’umano e del post-umano. Facendo questo il post-umanista si scontrerebbe subito con il primo grande problema: rendere conto della verità indubitabile del cogito cartesiano. La clara et distincta perceptio che si ottiene con il cogito (e che si manifesta solo indirettamente con il cogito ergo sum) è il primo grande risultato dell’indagine fenomenologica. È negando l’esistenza di qualsiasi pensiero che è indubitabile rendersi conto infatti della presenza di una soggettività pensante, che viene definita cosciente in virtù della sua evidenza ad essere causa giustificata di sé. Inoltre, non è affatto scontato che il risultato del cogito annulli del tutto l’elemento corporale e sensibile dell’umano. Su questo si può essere d’accordo con Marchesini: «il corpo è ricco di soglie relazionali, il corpo è un’entità intenzionale perché è sempre riferito a flussi noematici» (ivi, p.63). Queste soglie relazionali sono le prime istanze che permettono alla mente dubitante di avvertire tramite le sue propaggini sensibili una differenza nella ripetizione e nella regolarità della natura; dunque sono l’elemento indispensabile dell’attualizzarsi di una possibilità di dubbio che non avrebbe ragione d’essere se le menti fossero concepite come isolate rispetto ai loro corpi.
Adottando questa prospettiva, che è una prospettiva autenticamente fenomenologica, non si può non esperire l’importanza che il corpo ha per la mente, con cui si ritrova in un connubio congeniale, o fondamentale. Una tale visione del rapporto tra uomo e mondo non potrebbe perciò essere tacciata di antropo-centrismo, perché l’uomo dubitante si renderebbe conto della possibilità di scoprirsi come esistente nel mondo e con il mondo, nel momento cioè in cui il proprio corpo gli fornisse la possibilità di avviare l’epoché fenomenologica e risolvere il dubbio che ne deriverebbe con una nuova consapevolezza d’esserci, non post-umana ma perfettamente umana, perché è costitutivo dell’uomo essere la sintesi di capacità naturali e sovra-naturali. Esercitando la vera epoché non ci sarebbe alcun bisogno quindi di ibridazione per compiere un salto cognitivo epistemico che si rifletta anche nelle pratiche sociali. L’ibridazione, in altre parole, non darebbe alcun valore aggiunto all’umanità.
Il vero umanismo – per rispondere alle critiche post-umaniste – non consiste affatto nella negazione dell’animalità. Abbraccia semmai l’animalità, intessendo relazioni dialogiche con il sé e con l’altro in virtù della percezione di una differenza nel processo epistemico che intreccia individuo e mondo. Per questo motivo è infondato il timore delle conseguenze derivanti dalla negazione dell’essere-animale citate da Marchesini nel suo saggio, tra cui «la negazione dei prestiti dialogici nella costruzione dell’identità», «il ribaltamento del concetto di alterità» e «l’incapacità di pensare le alterità» (ivi, p.63). L’incapacità di pensare le alterità deriva infatti da un processo di assenso fideistico che nulla ha a che vedere con il percorso epistemico messo in moto dall’esercizio del dubbio. Il soggetto conoscente agisce per antonomasia nelle alterità, cercando di ricondurre questa alterità ad una forma di appartenenza soggettiva ma in grado comunque di costituire il solido terreno dell’inter-soggettività. La sfida perciò è proprio quella di ritrovare quel filo d’Arianna disperso. E farlo durare, e dargli spazio.
* Luca Pantaleone, di origini toscane, è laureato in Farmacia e Filosofia, si interessa prevalentemente di antropologia culturale, esistenzialismo e fenomenologia ed è autore di diversi libri di filosofia e narrativa, tra cui Il problema della verità (ed. Aracne) e Apnea – I misteri del Gargano (ed. Porto Seguro).
R. Marchesini, Alterità. L’identità come relazione, ed. Mucchi, 2016.