>Alberto Destasio*
Abstract: Nel presente studio verranno indagate le matrici filosofiche della teoria del male formulata da David Foster Wallace nella sua analisi del cinema lynchiano.
È proprio vero: la grande letteratura condivide una zona di indistinzione con la grande filosofia. Questa è la prima riflessione che si presenta durante la lettura di una parte dei saggi di David Foster Wallace.
Mentre la piccola filosofia contemporanea (come la chiama Alain Badiou: la filosofia in piccolo stile) si sforza di doppiare la dignità della scienza, la vera filosofia, quella in grande stile, sopravvive coraggiosa in una bella raccolta di saggi del più grande scrittore degli ultimi vent’anni.
Filosofo è, infatti, chi in una cronaca degli Oscar del porno (il saggio di Wallace titolato “Il figlio grosso e rosso”) riesce a togliere una figura, un momento dello spirito. Chi da un rovescio di Joyce (il tennista) sa estrarre una teoria dell’agire (il saggio “L’abilità professionistica del tennista Michael Joyce come paradigma di una serie di cose tipo la scelta, la libertà, i limiti, la gioia, l’assurdità e la completezza dell’essere” Wallace 2011, pp. 318-379). Questa è la filosofia, e questa è anche la grande letteratura. Certo – occorre dirlo – le incursioni filosofiche di Wallace sono disorganiche, a volte persino banali, ma vengono dispiegate con una superficialità e un’imprecisione pop tipiche del genio, le quali non impediscono di sintonizzarsi senza ridondanti mediazioni con i grandi temi che hanno deciso la storia del pensiero occidentale.
Un valido esempio di questa dimestichezza filosofica lo troviamo nel celebre saggio wallaciano dedicato al cinema di Lynch (“David Lynch non perde la testa” Wallace 2011 pp. 220-317), dove l’autore alterna una cronaca estremamente dettagliata della sua esperienza sul set del film Strade Perdute con precise considerazioni estetiche sul cinema lynchiano.
Sotto questo riguardo, ciò che ci interessa rimarcare nella sede attuale è la teoria del male che Wallace ricava dal cinema di Lynch. Essa sembra possedere, contro le volontà del suo autore, una matrice filosofica spinoziana-schellingiana. Proviamo dunque a giustificare questa suggestione.
1. L’anti-volontarismo di Lynch.
Una prima precisazione da compiere riguarda il carattere profondamente anti-teoretico del cinema lynchiano. Quest’affermazione – è giusto precisarlo – non scongiura la natura filosofica di certi motivi ricorrenti nell’arte lynchiana, bensì attesta un’impossibilità logica. In ispecie l’impossibilità logica di un’interpretazione.
Per svolgere un’esegesi cinematografica, infatti, è necessario un approccio distale prettamente teoretico tra soggetto e oggetto, sicché possa formularsi la domanda essenzialista che regola la comprensione del senso di un’opera filmica sotto il profilo tecnico, narrativo e concettuale, vale a dire: “che cos’è?”.
Ora, secondo Wallace, il cinema di Lynch «oppone resistenza al processo attraverso il quale si coglie il senso centrale di un film» (Wallace 2011, p. 243) in quanto lo spazio di osservazione dello spettatore non è facilmente edificabile. Perché? Perché le situazioni presentate nei film lynchiani non possono essere rispecchiate senza esperire personalmente quell’ironia in cui «il molto macabro e il molto banale si combinano in maniera tale da rivelare la costante presenza del primo all’interno del secondo» (Wallace 2011, p. 242). Il lynchiano non è uno stilema autoriale, bensì una circostanza da abitare, un clima da poter definire solo ostensivamente, cioè mostrando cosa intorno a noi è impregnato di questa singolare tonalità emotiva e concettuale appena tratteggiata.
Tali resistenze analitiche e auto-analitiche, tipiche di una cinematografia lontana da forme manifeste di critica metatestuale, consentono a Lynch di costruire un caratteristico sistema di personaggi: gli individui che popolano i film lynchiani, di fatti, sembrano «stolidi a livello mentale» giacché «diversamente non farebbero altro che inarcare le sopracciglia» (Wallace 2011, p. 298) per comprendere i vari simbolismi di una scena o per sottrarsi consapevolmente a una condizione nemica. In tal senso, il cinema di Lynch è un «omaggio alla realtà» (Wallace 2011 p. 301) nella misura in cui l’individuo rappresentato è privato di ogni capacità volontaristica o teleologica.
L’automatismo dei personaggi di Lynch deve essere così ricondotto alla sua peculiare concezione dell’azione.
2. «… e se proprio l’Altro fosse il Medesimo?» (Foucault 1971 p. 87).
A un primo livello analitico, l’incoscienza narcotizzata del soggetto lynchiano contrasta con l’esistenza di categorie legate all’intenzionalità quali il bene e il male. Hegel, a tal proposito, nei suoi Lineamenti di filosofia del diritto sostiene che «la qualità universale dell’azione consiste nell’affermarsi come azione saputa e voluta dal soggetto in quanto essere pensante», sicché «solo l’idiozia, la pazzia e la fanciullezza rimuovono il carattere del pensiero e della Libertà della volontà» (Hegel 2016, p. 239), stabilendo infine la non imputabilità di un’azione.
In Lynch, per converso, il male e il bene non sono i fini di una libera azione o una loro conseguenza casuale, bensì «possibilità» (Wallace 2011 p. 305) che soggiogano i personaggi, o meglio, che li indossano come «maschere», così come nel Capitale di Marx gli essere umani sono personificazioni di categorie economiche (cfr. Marx 2015, p. 43).
Male e bene, più precisamente, diventano forze impersonali esterne nel momento in cui il soggetto non può determinare coscientemente la sua azione o distinguerne dapprincipio il valore oggettivo. L’impersonalità del bene e del male, perciò, rivela l’assenza del dispositivo della differenza: bene e male sono determinazioni inassegnabili ai propositi dei personaggi in quanto vige una sostanziale indistinzione tra queste due forze. Lasciamo parlare Wallace:
Di fatto, nella prospettiva morale lynchiana, non ha molto senso parlare dell’Oscurità o della Luce isolandole l’una dall’altra. Non è semplicemente che il bene implichi il male, ma che ciò che è cattivo è contenuto all’interno di ciò che è buono, è incluso nel suo codice genetico. (Wallace 2011, p. 306)
Pur ricorrendo a un lessico più agevole, l’ipotesi di Wallace scorcia un’importante costellazione concettuale della filosofia moderna, la quale postula l’esistenza di un fondo indistinto e comune da cui originano bene e male.
Il Dio spinoziano, ad esempio, non avendo né una volontà né un intelletto, non può rivolgersi al bene o al male come fini o valori, perché in quel caso tenderebbe verso una meta o un limite esterno alla sua potenza (cfr. Spinoza 2009 pp. 829-830).La sostanza deve possedere al suo interno tutto il possibile, cioè tutto il male e il bene possibili: risiede qui la ragione della sua perfezione, quindi della sua completezza.
Bene e male, di conseguenza, non «sono tali rispetto all’Essere, ma relativamente ad una parte o punto dell’Essere, cioè ad un determinato singolo che pretende di giudicare l’essere dal suo punto di vista» (Rensi 2014 p. 161) o che attribuisce alla volontà divina ciò che è solo frutto dell’ordine dei fini immaginato dall’uomo. Ciò spiega il passaggio dal concetto di volontà a quello di produttività inconscia della sostanza: «Nessuna imperfezione macchia la faccia dell’Essere. Nulla essa toglie alla rutilante gloria di produzione con cui l’Essere getta fuori cose e vite di proprietà le più diverse» (Rensi 2014, p. 170).
Spinoza, quindi,non enuclea una tassonomia del bene e del male: esistono solo gli incontri casuali buoni o cattivi che un singolo modo dell’essere può effettuare secondo una certa «istantaneità» (Deleuze 1999, p. 197). La morte, l’imperfezione, la malattia devono essere sopportate come esperienze o produzioni dell’essere totale che ci attraversa e si declina attraverso di noi. Le azioni, coerentemente,non sono attribuibili alle essenze virtuose o corrotte degli uomini, giacché tutto il creato partecipa indistintamente del male o del bene per pura contingenza: «infatti, sotto questo aspetto, quella migliore pulsione in quel tempo non compete di più alla natura di quest’uomo che alla natura del diavolo o della pietra» (Spinoza 2009, p. 1368). Allo stesso modolo spettatore di un film lynchiano, in quanto non si dà una ripartizione immutabile delle essenze morali, è posto dinanzi al rischio costante che qualunque personaggio possa compiere in qualsiasi momento ogni atto possibile.
Schelling – com’è noto – oppone all’immanentismo e determinismo spinoziani, al fatto che essi esprimono «un inerte essere compreso delle cose in Dio» (Schelling 2007, p. 101), il concetto di divenire, articolando dunque una concezione del Dio-persona eminentemente idealistica.
Secondo questa visione le cose, essendo diverse da Dio ma comprese nella sua potenza, devono generarsi in un fondamento che «non è Dio stesso» (Schelling 2007 p. 119), vale a dire in un momento della creazione dove non è ancora sorto l’intelletto divino. Questo fondo oscuro – la natura – è la pura brama priva di coscienza da cui Dio diviene ed è, al contempo, l’origine della possibilità del male dell’uomo, inteso come volontà propria della creatura. Dio, infatti, per essere libero, per pervenire alla luce e all’esistenza, si deve determinare volontariamente traendosi via dalla «notte profonda»: «ogni nascita è nascita dall’oscurità alla luce; il seme deve essere immerso nella terra e morire nelle tenebre, affinché nasca e si schiuda ai raggi del sole una più bella forma luminosa» (Schelling 2007, p. 121).
Tuttavia, la co-generazione speculativa di Bene e Male ha esiti diversi nell’idealismo e in Lynch. Per il filosofo tedesco il male continua a permanere nella storia dell’uomo come dominio e assolutizzazione della mera volontà particolare su quella generale (Hegel spiega in modo simile la natura del Male), dato che nell’agire umano vi è una separazione del Bene e del Male che in Dio è invece unità comprensiva delle differenze. In Lynch, al contrario, Bene e Male rimangono indistinti in un fondo inconscio: non vi è la processualità dialettica che consente di passare dal buio alla luce, dal conatus alla volontà razionale, dalla caoticità improduttiva alla libertà creativa.
3. Una narrazione né finita né infinita.
L’inquietante vicina di casa della protagonista di Inland Empire, all’interno di un monologo incomprensibile, dice che: «un bambino […], passando attraverso la porta di casa, causò un riflesso: il male era nato».
Ora, noi possiamo considerare riflessiva la relazione lynchiana tra Bene e Male solo se ci riferiamo a un riflesso che non si risolve nella separazione dei due principi nell’uomo, la quale consente di decidere coscientemente per la volontà cieca (il male, l’egoismo dell’auto-posizione particolaristica) o per la volontà universale: «[…] perché la libertà in quanto facoltà effettivamente reale, cioè in quanto potere-deciso per il bene, è in sé al tempo stesso anche posizione del male. Cosa sarebbe infatti un bene che non avesse posto e assunto il male al fine di superarlo e sottometterlo? Cosa sarebbe un male che non sviluppasse in sé tutta la forza di un avversario del bene? […] Così nell’interpretazione moralistica si dimentica che bene e male non potrebbero affatto tendere a separarsi se non fossero l’uno contro l’altro, e che non potrebbero mai essere tali se non si congiungessero reciprocamente, e se non fossero fondamentale insieme come sono» (Heidegger 1998, p. 249).
Entro questa prospettiva, la ricorsività delle trame lynchiane, l’assenza di un loro sviluppo reale (ad es. nella terza stagione di Twin Peaks), deriva per necessità logica dalla confusione tra Bene e Male. Per Schelling, infatti, la storia e il continuo passaggio dal finito all’infinito ineriscono alla frizione tra il principio egoistico (male) e la volontà dell’intero (bene), ma se le due forze coesistono in un’unità indistinta sarà impossibile discernere un principio dall’altro, decidersi per uno dei due, giacché «nell’indifferenza assoluta ogni predicato ontologico è nulla» (Heidegger 1998, p. 257). La mancanza di predicati, cioè di determinazioni e di limiti, colloca pertanto una certa realtà e il suo sviluppo al di qua della distinzione tra finito e infinito.
Wallace, nel saggio che discutiamo, offre una ricca esemplificazione filmica di tale indiscernibilità etica che espropria i personaggi lynchiani della loro volontà: l’episodio più indicativo è senz’altro la scena del film Velluto Blu in cui il sadico e brutale Frank dice al giovane Jeffrey “tu sei come me”, schizzando così il motivo profondo del senso d’angoscia etica della pellicola (cfr. Wallace 2011, pp. 307-311:«Perché a noi americani piace avere un mondo morale delineato con chiarezza e dai confini ben marcati, pulito e ordinato […] Quando vado a vedere i film che presentano una serie di eventi e personaggi ripugnanti, mi piace che la fondamentale differenza tra me e i sadici, i fascisti, i guardoni, gli psicopatici e la gente malvagia sia confermata e rassicurata senza alcuna ambiguità, da quei film. Mi piace giudicare».): «la scoperta da parte del candido Jeffrey non dell’oscuro Frank ma delle oscure affinità con Frank» (Wallace 2011, p. 309).
4. “Gotta light?” (frase de il boscaiolo, stagione III di Twin Peaks).
Questa ambigua forma di uguaglianza appena discussa, un egalitarismo che nasconde una violenza molto più incontrollabile di quella rinvenibile nei rapporti manifesti di sfruttamento o sottomissione, rivela la profonda apoliticità dei film lynchiani.
«I film di Lynch non parlano affatto di tensioni etniche, culturali o politiche» (Wallace 2011, p. 285) perché l’esistenza di un’ostilità torbida e incomprensibile che unifica tutti gli automi/personaggi è coerente con l’impossibilità di localizzare i fini e i propositi dell’agire, quindi, ad esempio, i rapporti di forza a cui siamo abituati.
Il conflitto lynchiano è ingovernabile, essendo privo di effettive soggettività implicate. Esso appare spinozianamente sostanziale, fondato su un’etica anti-prescrittiva, poiché la ripartizione tra Bene e Male non è stabilita da una ferrea legalità morale ma dalla tipologia di incontri che i personaggi vivono. Incontri che possono rivelarsi propizi o funesti pur avvenendo tra gli stessi individui (ad es. i vari incontri tra Jeffrey e Dorothy in Blue Velvet). La nozione di individualità, ciò nonostante, è inutilizzabile per il cinema di Lynch. Un individuo è tale solo se è possibile attribuirgli l’intento razionale delle sue azioni: «ciò che il soggetto è, è la serie delle sue azioni» (Hegel 2016, p. 243).
Quest’indifferenziatismo etico, in conclusione, influisce su tutti gli espedienti stilistici del cinema lynchiano, persino sulle scelte luministiche: chi può dire che in Mulholland Drive, o in guisa ancor più evidente in Strade Perdute, la luce del giorno riflessa negli interni sinistri delle case lynchiane sia una vera luce del giorno, cioè un momento di distensione? È in realtà una luce abbacinante, addirittura nauseante (per es. la scena nel ristorante Winkie’s in Mulholland Drive). Pertanto, non è corretto dire che nei film di Lynch è sempre notte, perché si rinuncerebbe al momento marcatamente dialettico in cui qualcuno si accorge che giorno e notte sono, in fin dei conti, la stessa cosa.
Bibliografia
G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione, tr. it. di S. Ansaldi, Quodlibet, Macerata 1999.
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M. Foucault, La prosa di Atteone, in Scritti letterari, tr. it. di C. Milanese, Feltrinelli, Milano 1871.
G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, tr. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano 2016.
M. Heidegger, Schelling, a cura di E. Mazzarella e C. Tatasciore, Guida, Napoli 1998.
K. Marx, Il capitale, tr. it. di R. Meyer, Newton Compton, Roma 2015.
G. Rensi, Spinoza, Edizioni Immanenza, Napoli 2014.
F.W.J. Schelling, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, tr. it. di G. Strummiello, Bompiani, Milano 2007.
Spinoza, Epistolario in Opere, tr. it. di F. Mignini e O. Proietti, Mondadori, Milano 2009.
Spinoza, Etica in Opere, tr. it. di F. Mignini e O. Proietti, Mondadori, Milano 2009.
*Alberto Destasio, ha conseguito nel 2016 la laurea in Lettere Moderne al DISUM dell’Ateneo di Catania con una tesi sulla presenza del pensiero di Hegel nella filosofia di Deleuze. Attualmente studia Scienze Filosofiche presso il DISUM dell’Ateneo di Catania. Ha curato la traduzione italiana dei seguenti volumi del filosofo francese Alain Badiou: Seminario. L’infinito in Aristotele, Spinoza, Hegel (Orthotes 2018); Ribellarsi è giusto. L’attualità del Maggio 68 (Orthotes 2018).
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