di Gianluca Valle *
Il volume del giovane studioso Fabrizio Li Vigni si presenta come una breve introduzione al pensiero della complessità, impreziosita da un’intervista – prevalentemente di carattere biografico – al filosofo e sociologo francese Edgar Morin. Il libro risulta diviso in due parti: la prima, in cui Li Vigni ripercorre le matrici culturali del paradigma della complessità, soffermandosi sul contributo di Morin che di esso ha fornito una compiuta teorizzazione filosofica; la seconda, in cui Morin risponde alle domande di Li Vigni, Jean Foyer e Christophe Bonneuil sul suo variegato itinerario intellettuale, sugli incontri che più lo hanno influenzato, sulla gestazione della sua opera più sistematica Il metodo (6 volumi composti in un arco temporale compreso tra il 1977 e il 2004), sulle difficoltà di ricezione del suo pensiero, in particolare in Francia e soprattutto da parte delle istituzioni accademiche.
Scorrendo le pagine di questo agile libretto, scritto con uno stile lineare e accantivante, si è subito positivamente colpiti dalla dimensione interdisciplinare del pensiero complesso, il quale emerge dall’integrazione di tre campi di studio differenti: 1) la “scienza del controllo e della comunicazione” meglio nota come cibernetica, sorta negli Stati Uniti negli anni ’40, ad opera di Norbert Wiener e Warren McCulloch, basata sulla nozione di feedback (retroazione); 2) la sistemica, approccio nato sempre negli Stati Uniti fra gli anni ’30 e ’50 per iniziativa del biologo e filosofo Ludwig von Bertalanffy, basata sul tentativo di descrivere matematicamente i sistemi complessi viventi e sociali; 3) le teorie dei sistemi dinamici e delle reti, rispettivamente inaugurate dal matematico francese Henri Poincaré alla fine dell‘800 e dal fisico ungherese Albert-Lázsló Barabási, i cui programmi di ricerca hanno dato origine a numerosi centri di studio, primo fra tutti il Santa Fe Institute, sorto negli Stati Uniti nel 1984.
È difficile, e forse nemmeno appropriato, tentare di circoscrivere la natura poliedrica del paradigma della complessità, che si è consolidato nel tempo anche grazie al contributo di numerosi altri intellettuali e scienziati afferenti ai campi disciplinari più disparati. Giusto per limitarsi ai nomi che Morin stesso cita nella propria intervista, occorre ricordare le figure del biologo e fisico Heinz von Förster, per il quale il vivente è un sistema autoreferenziale che «computa la sua stessa sopravvivenza», dei neurofisiologi e espistemologi Humberto Maturana e Francisco Varela, promotori della teoria dei sistemi autopoietici, del biologo Jacques Monod e del biofisico Henri Atlan, a cui si deve un’importante riflessione sul rapporto tra aleatorietà e determinismo nei fenomeni fisici, per cui da sistemi caotici possono prodursi effetti di «ordine per fluttuazione» (order from noise).
Nato come sociologo del cinema, poi profondamente segnato dal periodo di studio (1969-70) trascorso presso l’Istituto californiano John Salk dove ha potuto riflettere sui più attuali sviluppi della biologia molecolare e respirare le idee di Bateson e della Scuola di Palo Alto, Morin ha sempre cercato di combattere il riduzionismo proprio della scienza classica e di rinnovare l’allenza tra scienze della vita e scienze umane, convinto della «inseparabilità, nell’uomo, fra dimensione biologica e dimensione culturale» (p. 65). Prendendo le distanze dai fautori del paradigma lineare della scienza moderna, Cartesio, Newton e Laplace – che sostengono rispettivamente il metodo della scissione analitica delle idee, l’esistenza di leggi universali e un rigido determinismo – Morin indica i principi essenziali della forma mentis complessa: 1) il principio dialogico, in base al quale due o più visioni concorrenziali di un determinato fenomeno non si devono annullare in una sintesi superiore, ma «si completano pur opponendosi» (p. 38); 2) il principio di ricorsività, in base al quale ciascun effetto è allo stesso tempo prodotto e produttore (causa) di ciò che lo produce; 3) il principio ologrammatico, secondo cui il tutto è presente nelle parti, come ad esempio accade nelle cellule, ognuna delle quali contiene la totalità dell’informazione genetica dell’intero organismo. Per avere accesso alla realtà nella sua caleidoscopica ricchezza, occorre dunque attenersi alla regola dell’unitas muliplex, «che invita a non dissolvere il molteplice nell’uno, né l’uno nel molteplice» (p. 37) e che – sulla scia della dialettica negativa intrapresa da Eraclito e rinnovata da Adorno – suggerisce di mantenere la tensione tra elementi antagonisti, allo scopo di rivelarne la complementarietà e la reciproca interazione.
Criticato in Francia da intellettuali del calibro di Michel Serres e Bruno Latour, spesso in mancanza di un adeguato dibattito sulla sua opera, mal visto da Bourdieu e dai sociologi bourdieusiani, perché accusato di «biologizzare» il sociale, Morin è invece «adorato come un guru in America latina» (p. 47) e in generale assai noto presso il grande pubblico, non solo in Francia, ma anche in Italia, dove il suo pensiero – a tratti un po’ vago sul piano del rigore scientifico – viene spesso evocato all’interno del dibattito pedagogico. Il più prezioso insegnamento che possiamo infatti trarre da Morin consiste nel sapere che – per diventare cittadini dell’«Era planetaria» – occorre acquisire una visione complessa del mondo nel quale abitiamo, della nostra posizione nella rete di interelazioni dalle quali è costituito. Solo a patto di non voler spiegare tutto, ma di voler capire meglio, e cioè di non avere una «testa ben piena» ma una «testa ben fatta», ognuno sarà nelle condizioni di capire come pensare ed agire localmente.
Il libro di Li Vigni è del 2016, l’intervista del 2012: occorre, pertanto, osservare come sarebbe stato opportuno rendere conto di altri lavori pubblicati da Morin in quei quattro anni, al fine di delineare il recente assetto pedagogico assunto dalla sua originale prospettiva epistemologica. A tal proposito, basti ricordare – tra gli altri – due testi molto significativi, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione (2014; trad. it. 2015) e Sette lezioni sul pensiero globale (2015; trad. it. 2016), che proseguono idealmente la riflessione inaugurata da La testa ben fatta (1999; trad. it. 2000), la cui lettura ha affascinato il nostro autore spingendolo ad occuparsi di Morin. Quel testo-chiave del filosofo francese deriva dalla sua esperienza di consulente dell’allora Ministro francese dell’Educazione Nazionale, da cui era stato chiamato (1997-2000) per realizzare un progetto di riforma della scuola secondaria. L’invito di Morin a connettere le conoscenze, a superare l’ottocentesca dicotomia tra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften per sviluppare un «sentimento della complessità» (p. 49) indispensabile per orientarci nel mondo, per sua stessa ammissione, è rimasto inascoltato e non è stato tradotto in prassi educativa: la base e il vertice delle istituzioni sono più inclini al cambiamento di quanto non lo sia l’immobile corpo intermedio. Una ragione di più per dar voce alla pedagogia eco-costruttivista proposta da Morin e per puntualizzarne la forza innovativa.
* Gianluca Valle, nato nel 1971, è docente di Filosofia e Scienze Umane presso il Liceo “G. Caetani” di Roma. Ha conseguito la laurea in Filosofia presso l’Università degli studi di Pisa e il dottorato di ricerca in Filosofia presso la Scuola Internazionale di Alti Studi “Scienze della Cultura” del Collegio San Carlo di Modena. È autore di numerosi saggi di estetica e fenomenologia, del volume La vita individuale. Etica ed estetica in Georg Simmel (FUP 2008). Di recente ha curato l’edizione italiana del volume Ipseità e quasi-niente di Vladimir Jankélévitch (Solfanelli 2017). Svolge attività di consulenza editoriale per opere scolastiche di ambito filosofico. È traduttore dal francese di testi saggistici (filosofia, storia, sociologia, critica letteraria).
Fabrizio Li Vigni, Intervista a Edgar Morin. Il pensiero complesso e l’incertezza del sapere, Diogene Multimedia, Bologna 2016.