«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot
Il sentire. Ecco il punto fondamentale. Con gli ultimi sviluppi di una certa fenomenologia novecentesca tale atto assume un ruolo centrale. Non si tratta più di mera questione conoscitiva bensì di individuare in legame primigenio al mondo, l’esperienza fondamentale che caratterizza il nostro esistere, o meglio il nostro vivere. Così, il testo di Vincenzo Costa, ormai noto studioso di fenomenologia si presenta come, cosa già specificata nel titolo, un percorso interessante attraverso quegli snodi fondamentali della fenomenologia (quelle che Ricoeur definiva come le sue “eresie”) che caratterizzano il progredire di questa corrente fino ad oggi. Continua a leggere →
A chi spetta la precedenza in filosofia: al sentire, o al pensare? A chi va la priorità, a quel sentimento tipicamente associato al soggettivo, o alla ragione oggettiva e universale? In realtà – conclude Sentire e pensare. Tra Kant e Husserl, volume edito da Mimesis a cura di Maria Teresa Catena e Anna Donise – si tratta di un falso problema: la questione infatti non è schierarsi a favore dell’uno o dell’altro, perché pensare e sentire (“ragione e sentimento”, se si preferisce la coppia austeniana con la quale Giuseppe Cantillo, Professore emerito di Filosofia Morale all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, apre il volume) non sono affatto rivali né antagonisti, né ancora facoltà distinte che operino nell’uomo (e dunque nel filosofo) in maniera separata. Al contrario, più l’indagine antropologica si approfondisce, più si scopre che esse “vanno a braccetto”: non c’è alcun pensiero filosofico che prescinda dalla soggettività del pensatore, né sentimento “immediato” che possa venir ritenuto estraneo all’intelletto, alla cultura di chi lo vive.
Non si può parlare di Arnold Gehlen (1904-1976) senza fare riferimento a J. G. Herder (1744-1803) da un lato e Max Scheler (1874-1928) dall’altro.
Il primo fu allievo di Kant all’Università di Königsberg, contemporaneo di Diderot e D’Alembert, nazionalista, anti-illuminista (più esattamente anti-enciclopedista) ma nonostante ciò massone umanista sui generis.
Un personaggio singolare, insomma.
Herder sottolineò, forse il primo a farlo, un fondamentale aspetto della natura umana: l’uomo è stato in grado di compensare un’evidente e quasi inquietante debolezza biologica e carenza fisica con delle capacità razionali e linguistiche (un proto-Wittgenstein?).
Il secondo, Max Scheler, soprannominato da Troeltsch il “Nietzsche cattolico” (benché figlio di un’ebrea e di un protestante), fu autore de La posizione dell’uomo nel cosmo, testo fondamentale – se non fondante – dell’antropologia filosofica, che faceva il verso a Il posto dell’uomo nella natura del darwiniano Thomas Henry Huxley (valido scienziato praticamente sconosciuto in Italia) che affermava, diversamente dal primo, l’animalità dell’uomo.
Assieme a Scheler e a Helmut Plessner, Gehlen è considerato il fondatore di questa affascinante scienza della natura umana che ha provato a dare una risposta ontologica all’idea di uomo. Non che corresse buon sangue fra questi ultimi tre (escludo Herder perché cronologicamente precedette gli altri; di fatto solo un precursore dell’antropologia filosofica, al pari dell’idealista Schelling, almeno secondo G. Cusinato): si rinfacciarono più volte accuse di plagio per l’utilizzo di materiali e teorie spacciate per proprie.