Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Il male di vivere

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L’uomo è un animale sociale e in quanto tale ha bisogno di interagire e di trovare il proprio posto all’interno della comunità, ha bisogno di relazioni gratificanti, potremmo definire la solitudine come quel sentimento che proviamo nel momento in cui questo bisogno non viene soddisfatto.

 Quando non riesce ad interagire ed instaurare legami significativi, l’uomo entra in crisi, mettendo in discussione tutto il proprio mondo. Eppure, la solitudine non viene considerata come si dovrebbe: ovvero come un male pericoloso, trascuriamo i rimedi contro il male oscuro della solitudine, che in realtà non colpisce solo le persone anziane, ma i giovani. Ogni solitudine ha una sua storia, un volto, un racconto, un dolore. C’è la solitudine del dolore, della mancanza e c’è la solitudine di chi sente di non avere la forza per farcela e si rassegna all’isolamento.

Eugenio Borgna nel suo testo “La solitudine dell’anima”, sostiene che si debba distinguere tra una solitudine interiore, creatrice, e la solitudine negativa vissuta come isolamento. Egli la descrive come una solitudine svuotata di interiorità e inaridita, a causa dei valori dominanti della società di oggi come individualismo, separatezza e mancanza di una comunicazione autentica. La solitudine viene vissuta come qualcosa che spaventa, da cui fuggire, percepita come assenza e mancanza, come un vuoto che deve essere riempito in fretta e con qualsiasi cosa. Parlare della solitudine significa entrare in contatto con l’isolamento e con il senso di vuoto generato dall’incomprensione, dal sentirsi diversi dagli altri, dall’inquietudine e dal male di vivere. Mentre nell’esperienza di solitudine interiore si continua a essere aperti a ciò che ci circonda ed è presente la nostalgia della relazione con l’altro, nell’isolamento questo aspetto viene meno e si è chiusi in sé stessi, ci si allontana dal mondo e l’indifferenza e il rifiuto di ogni comunicazione prevalgono sulla speranza.

Nella sofferenza della solitudine si annulla e viene compromessa la comunicazione con il mondo esterno. Il rapporto dell’io con il mondo è in crisi, la realtà è distorta, ci sono delle ombre davanti agli occhi, visibili solo all’interno, che appiattiscono il reale, vissuto come ripetizione e monotonia. Si cade in una sorta di oblio.

Eugenio Borgna parla di un silenzio della parola capace di comunicare attraverso il corpo un disperato aiuto, con il volto, con lo sguardo, che chiede di essere ascoltato. Se non il linguaggio delle parole è quello del corpo ad esprimersi e continua a mantenere un incessante dialogo con il mondo. Il corpo diventa, quindi, portatore di significati a cui è necessario prestare attenzione.

 Entra così in gioco il discorso ermeneutico della quotidianità: l’essere in continuo contatto con l’altro e l’interpretazione derivata dal confronto con esso. Il singolo, in questo suo vagare in silenzio, crede che non ci siano più sguardi che lo facciano essere nel mondo e tra gli altri. Inconsciamente diventa prigioniero di sé stesso, avendo creato un muro di silenzio che non gli permette più di relazionarsi con tutto ciò che lo circonda. Questi segnali chiedono attenzione, ma per accogliere questa richiesta di aiuto bisogna avere occhi per osservare e per comprendere oltre l’evidenza.

Empatia, sensibilità e presenza possono aiutare a riportare nel mondo anche un’anima smarrita. Si può migliorare la vita di una persona solo standole più vicino. Molteplici richieste di aiuto silenziose chiedono ascolto, un ascolto urgente e doveroso a cui non ci si può sottrarre. Non ci si salva da soli, si ha bisogno dell’altro per sopravvivere. L’inspiegabile vuoto di senso della propria vita è una ferita che ha bisogno di presenza e di cura.

La presenza è insostituibile, una stretta di mano che trasmette coraggio, una spinta a cogliere la bellezza della vita, malgrado le difficoltà, le crisi, le insicurezze.

Solo la presenza autentica può dare un senso all’esistenza di chi la vita la vuole lasciare, può fornire un’alternativa a chi nella propria disperazione non vede altra soluzione, perché nessun altro riesce a far scorgere possibili alternative.

Ogni individuo sente di esistere e di valere qualcosa come essere umano, se riesce a stabilire relazioni positive dove sentirsi riconosciuto, considerato e rispettato per quello che autenticamente è. Il bisogno di adeguarsi al gruppo per sentirsi accettati può superare la spinta all’autorealizzazione. La paura di differenziarsi dal nucleo familiare o da un gruppo di appartenenza può produrre confusione, perché il senso di colpa è sempre presente. Il tentativo di focalizzare un proprio desiderio si scontra con la difficoltà ad individuarlo con chiarezza. Ci si sente schiacciati dai limiti propri della rete sociale di appartenenza; si rinuncia alla propria esistenza libera per paura di rimanere soli. Per timore della solitudine si rinuncia alla propria ricchezza interiore, per paura dell’emarginazione si sopportano umiliazioni e prevaricazioni.

La dimensione della solitudine, come un vissuto di vuoto e mancanza totale di affetti, scatena sentimenti di angoscia e impotenza, capaci di sopprimere la speranza.

Ci si trova nell’età del nichilismo dove il futuro non è una promessa, mancano le risposte necessarie a domande essenziali. Si vive in un eterno presente per non guardare l’ansia che viene dal futuro. Questo vuoto deriva dalla mancanza di obiettivi, dal non sentire una necessità impellente di migliorare la propria vita, che si vive giorno per giorno senza un progetto che guardi lontano, la nostra società non insegna l’uso e l’impiego del tempo, non dà ai giovani la possibilità di esplorare e capire, tutto è veloce. Conta poco l’originalità, conta solo arrivare primi, competere su tutto, questo è l’unico traguardo. I giovani sono fortemente influenzati dal mondo degli adulti, dai costanti giudizi di chi li circonda e dall’incomprensione generale che tende ad evidenziarsi, come causa dei loro atteggiamenti.

Solitudine come disagio culturale

L’uomo, come afferma Goethe, è un essere volto alla costruzione di senso, nell’atmosfera nichilista del nostro tempo, il disagio non è più psicologico, ma culturale, il futuro non è più una promessa, oltre a non motivare, paralizza, spegne l’entusiasmo. Occorre, quindi, agire sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale.

La solitudine oltre che un vissuto intrinseco all’esistenza umana, oggi diviene sempre di più una condizione sociale. Con l’avvento della globalizzazione, abbiamo assistito ad un processo di indipendenza individuale sempre più imponente. L’indipendenza e la globalizzazione sono due fenomeni in netto contrasto. La quotidianità ci spinge a ottimizzare i tempi ad essere sempre più autonomi, indipendenti, quindi è necessario mantenere questo status, gestendo le nostre vite tra i diversi impegni.

Le relazioni diventano di breve durata, superficiali, perché per entrare in una relazione profonda e duratura ci vuole tempo ed energia, e questo non è possibile, bisogna ottimizzare il tempo e le energie per stare al passo. Si tende ad affidare i propri pensieri, le proprie parole e i propri rapporti umani a strumenti capaci di raggiungere un pubblico sempre più ampio. La comunicazione perde di contatto fisico, divenendo una finta comunicazione che favorisce l’isolamento, in quanto aiuta a perdere la capacità di sostenere un reale rapporto con l’altro da sé.

Il periodo della vita maggiormente a rischio è l’età adolescenziale, momento dell’esistenza di passaggio, in cui da una condizione di infantile illusione si passa alla realtà responsabilizzante dell’adulto. Per questo passaggio sono necessari elementi di stabilità e solidità che portino alla formazione di una personalità adulta e matura.

Cosa che diviene sempre più complessa in un contesto socioeconomico e affettivo in continuo mutamento, le famiglie perdono il ruolo di guida, in quanto rese fragili dai mutamenti sociali, dalle assenze, dalle carenze nella comunicazione e nel dialogo.

L’oggetto diventa, così, il surrogato privilegiato di un appagamento illusorio della propria solidità, infatti va a sostituire l’autostima: io sono ciò che ho. Viene sempre meno il tempo da dedicare alla cura e alle attenzioni all’interno della famiglia, dove la presenza fisica non è presenza emotiva e spesso manca anche la presenza fisica, genitori sempre più assenti cercano di compensare al vuoto della mancanza con oggetti e regali, spesso inutili, superflui, che non si rivelano appaganti, perché nessun regalo può appagare il bisogno primario di presenza e di affetto, regali al posto delle parole mancanti, che generano indifferenza. Al tempo stesso, l’attaccamento eccessivo, l’ansia rendono il figlio insicuro. I figli non sono delle estensioni dei genitori, molti finiscono per proiettare su di essi le loro frustrazioni, le loro paure e indirizzarli verso quello che ritengono più giusto in base alle loro esperienze di vita personale, un bambino che interiorizza le aspettative dei genitori rischia di diventare un adulto poco maturo, soggetto ai condizionamenti. Nei racconti biblici la terra promessa, che simboleggia la madre è descritta traboccante di latte e di miele; il latte è simbolo dell’amore che si riferisce alle cure e all’affermazione, il miele simboleggia la dolcezza della vita, l’amore per essa. Solo una minoranza di mamme è capace di dare anche miele, cercando il giusto equilibrio tra protezione e libertà, quel compromesso che guidi all’autorealizzazione e che contemporaneamente faccia sentire amati.

 I comportamenti dei genitori condizionano la formazione di ogni essere umano e oggi non si ha più tempo per le relazioni, i giovani vengono privati delle basi sulle quali costruire la propria identità, lasciandoli, perciò facili prede dei mass-media, delle mode, dei gruppi social e del virtuale, che portano l’individuo ad un isolamento sempre più profondo, in quanto non si sceglie di restare soli, non si sceglie la condizione di solitudine, ma diventa obbligata, sprofondando in un virtuale di relazioni superficiali, verso un isolamento immodificabile.

 I nostri sono i tempi delle relazioni liquide, dell’assenza di impegno e responsabilità, una società pervasa da un individualismo sfrenato, dove vengono meno i valori della comunità. Una modernità che si regge sull’immagine, sull’apparenza, ma mancano basi affettive solide, dove tutto è destinato a dissolversi in fretta. Il consumismo non mira all’appagamento attraverso il possesso di oggetti di desiderio, che diventano in poco tempo obsoleti, quanto piuttosto al passaggio da un oggetto all’altro.

 Il vero allarme non è nella solitudine di per sé, che è un’esperienza umana, ma nel come quell’esperienza viene percepita e supportata. La percezione di solitudine può generare odio e disapprovazione verso sé stessi, intrappolando la persona in un circolo vizioso di autodenigrazione, insicurezza, mancanza di autostima che inibiscono la persona dall’intraprendere attività sociali.

Ci si può sentire inadeguati e incapaci di affrontare le situazioni della vita, diventa perciò, necessario rielaborare la nostra storia, perché questa sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un cedimento culturale, di cui i giovani parcheggiati nelle scuole, nelle università, nel precariato, sono le prime vittime. Confrontarsi con i propri limiti e i propri fallimenti, affrontare le proprie insicurezze, le proprie difficoltà può provocare sofferenza, richiede impegno, coraggio, e a volte si preferisce fuggire, isolarsi, evitando il confronto, tanto temuto. Il malessere ha sempre alla sua base l’evitamento, un’interruzione del contatto con la realtà. Dilaga la tendenza alla distrazione, a spostare l’attenzione da un oggetto all’altro, mentre c’è bisogno, al contrario, di concentrazione.

 Il disagio ha, quindi, origine culturale, l’esistenza non appare priva di senso, perché costellata dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile perché priva di senso.

 La negatività del nichilismo è la percezione dell’insensatezza del proprio esistere, una cultura che anziché alimentare, ha spento i sogni dei giovani. Galimberti descrive con chiarezza come i giovani siano divisi tra un nichilismo passivo della rassegnazione e un nichilismo attivo, di chi non si rassegna e si promuove nel tentativo di non spegnere i propri sogni, con una sola preghiera rivolta agli adulti: non ci spezzate le ali e non proponeteci le vostre esperienze, perché l’unica utile è quella che ciascuno fa da sé.

Le lezioni di sano realismo fatte dagli adulti spengono la passione necessaria per trovare la forza di superare questa stagione nichilista.

Noi siamo esseri relazionali che nascono e si sviluppano all’interno di relazioni significative. Spesso è la nostra storia di relazione che struttura in noi l’idea di essere soli, di non riuscire ad essere in contatto più profondo con gli altri. Rielaborare la nostra storia significa ripercorrerla, riuscendo a liberarci dalle catene emotive che ci legano al passato. Solo se so da dove vengo posso comprendere dove sono. Questa conoscenza è il primo passo per il cambiamento nella direzione desiderata. Più diventiamo consapevoli di noi stessi e più riusciamo ad accorgerci di ciò che accade nel qui ed ora della vita. Prima di riconnetterci agli altri è importante iniziare a prendersi cura di sé stessi.

Solitudine e interazione sociale

Nel nostro mondo iperconnesso, la solitudine sarebbe dovuta svanire, per il proliferare dei mezzi di comunicazione, ma purtroppo non è così. Negli ultimi anni, le nuove forme di comunicazione ci hanno dato una maggiore capacità di connetterci con gli altri istantaneamente, eppure, sembra chiaro che non ci sia modo di alleviare quella esigenza di contatto attraverso uno schermo. È il contatto fisico che prevale per stabilire una vera unione con l’altro.

 La nascita dei social si è avuta con lo sviluppo di internet, divenendo un mezzo di comunicazione di massa, fino a rappresentare una modalità di espressione della propria identità sociale. Attraverso i social, si ha la possibilità di connettersi ad una rete infinita di utenti con i quali si condividono gli stessi interessi.

La loro presenza è diventata parte integrante della nostra realtà quotidiana. Tutto questo ha portato inevitabilmente anche ad una rivoluzione delle modalità d’interazione sociale. Anche il concetto di amicizia si è alterato, diventando un indicatore di status sociale.

 Si può organizzare la propria presentazione del profilo in modo da trasmettere l’immagine di sé che più ci piace, esaltando le parti che più ci convincono e offuscando le altre, così da rispondere alle difficoltà dell’accettazione fisica, tipica di quest’età, cercando così di ricevere quante più approvazioni sociali possibili che si esprimono nei like, ma dietro la condivisione c’è un gran bisogno di allontanare la sofferenza e il malessere. La condivisione dovrebbe essere un’intesa, ma la condivisione sui social è solo apparente, è un mettere in mostra che nasconde un vuoto, un’insicurezza personale, è un monologo collettivo, dove ciò che si mostra nella vetrina virtuale è quanto vorremmo che gli altri vedessero. La vita condivisa on line è una serie di momenti felici, queste versioni ritoccate e filtrate di noi stessi sono troppo spesso estremamente lontane dalla realtà, viene presentata un’immagine sempre meno autentica, meno aderente alla realtà.

 In questa solitudine di una generazione iperconnessa, il giudizio dei coetanei conta e ha un valore altissimo, capace di rassicurare, ma anche somministrare un dolore profondo, con un impatto devastante sulla costituzione dell’immagine di sé e dell’interpretazione della realtà circostante, influenzando anche l’identità sociale.

I mezzi informatici incidono sui processi emotivi, in quanto sono dei condizionatori di pensiero, modificano il modo di pensare, non mettono in contatto con il mondo, ma con la sua rappresentazione. Nel proliferare delle connessioni informatiche si nascondono tante solitudini, si rifugge il legame, l’intimità, l’incontro emotivo autentico. Si dà valore all’approvazione esterna a scapito della propria individualità e delle proprie emozioni. La società iperconnessa non è stata creata dagli adolescenti, che cercano di adattarla alle loro esigenze, ma viene alimentata ogni giorno dagli adulti che l’hanno costituita, diventa quindi necessario avviare una riflessione sul senso della prevenzione. Per quanto possa sembrare paradossale, la nostra era della comunicazione è anche l’era della solitudine.

La solitudine fa paura, è questo il male di vivere, il quotidiano malessere, il dolore intimo che si vive in silenzio, ma il dolore non è fine a sé stesso, è un mezzo per produrre certi effetti, accompagna verso dimensioni dell’esistenza di cui si era inconsapevoli, ci guida verso un senso ancora più profondo delle cose. Il dolore scuote le nostre coscienze, è la ricerca di uno scopo, di un perché. Il percorso che conduce alla scoperta del nostro personale scopo della vita non può che essere impegnativo e irto di ostacoli.

La ricerca di un fine che possa dirsi autentico, può solo nascere da una profonda inquietudine. Quando avvertiamo in noi stessi la presenza di qualcosa di più elevato che preme per manifestarsi, viene inevitabilmente a crearsi un conflitto. Il pieno successo in questa ricerca non è sempre garantito.

Solitudine come responsabilità sociale

In una società in cui si rompe la solidarietà sociale, la solitudine dilaga. Si costituisce una società fragile con una popolazione amorfa, emotiva, in cui gli individui sono più esposti al rischio della manipolazione. Le relazioni interpersonali e affettive registrano difficoltà, diventano fatica di vivere, Solitudine, male di vivere non sono aspetti riconducibili solo a caratteristiche biologiche dell’individuo, anzi, probabilmente riflettono un malessere sociale dovuto alle trasformazioni strutturali del modo di vita. Si indeboliscono le reti relazionali sociali. L’accelerazione frenetica della vita, la velocità del consumo individuale di essa non aiuta l’intreccio relazionale né, soprattutto, la costruzione di legami di amicizia e solidarietà stabili e duraturi nel tempo.

 Il capitalismo, attraverso l’aumento costante della produttività ha costretto a vivere in una frenesia tale da diventare distruttivo, anche chi non produce vive nell’ansia spasmodica della ricerca di un lavoro.

 La frantumazione del tessuto sociale ha sottratto agli individui quel reticolo collettivo grazie al quale potevano ancora condividere la solitudine e il mal di vivere. Oggi si è da soli e non più assieme agli altri; dentro una società caratterizzata dalla perdita di senso e di prospettive, senza più idee, progetti e utopie.

La crisi di empatia evidenzia l’egoismo, il prevalere di relazioni strumentali stabilite per tornaconto personale, pertanto deboli e vulnerabili. Nei luoghi relazionali siamo sempre più a disagio. Una società frantumata rende più difficile la presa d’atto collettiva delle contraddizioni nelle quali si è intrappolati. Mentre ci dicono che finalmente siamo tutti liberi di scegliere ciò che siamo, saremo o potremmo essere, poche persone scelgono e decidono indipendentemente da noi. Non siamo più artefici, ma spettatori impotenti e spesso disinteressati.

Bisogna ricostruire reti sociali reali, luoghi di partecipazione e confronto, che diano senso all’origine comune. Solo ritornando assieme si può riconquistare la libertà personale, perché essa non può nascere e sostenersi se non in un progetto comune e condiviso.

È necessario un cambiamento economico, politico e sociale e, al contempo, prendere atto della responsabilità personale di ognuno. Bisogna che le persone siano viste e ascoltate. Costruire un futuro, in cui riconciliare il capitalismo con la comunità e la compassione, assicurandosi di ascoltare di più le persone, consentendo loro di avere una voce, costruendo una comunità inclusiva e tollerante.

Bisogna ritrasformarsi da consumatori a cittadini, da osservatori indifferenti a partecipanti attivi. Più a lungo trascuriamo la nostra responsabilità di prenderci cura l’uno dell’altro, più perderemo la capacità di fare queste cose, meno umana sarà la nostra società.

L’antidoto alla solitudine può essere sintetizzato nell’esserci per l’altro.

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