Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Questa non è una cosa

Lascia un commento

 Nell’opera di Byung-Chul Han, filosofo tedesco di origine coreana, le cose, proprio quelle modeste che accompagnano la nostra quotidianità, vengono rivalutate nella loro funzione di stabilizzazione della vita terrena, in quest’epoca caratterizzata dal fenomeno globale che egli definisce: infomania. Le cose uniscono le persone, al contrario le non-cose, nella parvenza di una comunicazione globale, generano individui isolati.

Nel suo argomentare chiama in causa un gran numero di pensatori, perlopiù filosofi ma non solo, dà delle rapide pennellate come a supporre che il tema sia ben noto al lettore, solo su qualcuno ritorna più volte. Descrive la situazione personale nella quale si trova, assieme a gran parte dell’umanità, dalla quale vorrebbe emanciparsi, senza peraltro dilungarsi nello spiegarne la via. Accenna al pensiero della filosofa americana Jane Bennett sul pericolo per l’umanità di considerare la materia come qualcosa di inerte, semplicemente da utilizzare, e spende due parole per dire che «prima dell’ecologia deve emergere una nuova ontologia della materia che la esperisca come viva» (p. 119).

Se le informazioni si esauriscono nel momento stesso in cui arrivano, le cose hanno una saldezza analoga alla verità, capace di resistere ad ogni manipolazione. Sulle cose si può indugiare  e fantasticare; la digressione finale sul juke-box (pp. 107-121) ricorda La poetica della rêverie di Gaston Bachelard, un rapporto magico con le cose, e Il diritto di sognare di cui può avvalersi anche una mente rigorosamente razionale.

Il riferimento ad Avere o essere? di Erik Fromm che l’autore riporta (p. 20) è per dire che ora «non funziona più poiché viviamo in una società dell’esperienza e della comunicazione che preferisce l’essere all’avere». L’affermazione ha un carattere paradossale, a prima vista sembrerebbe raggiunta la finalità che Fromm cinquant’anni or sono proponeva. Byung-Chul Han non si sofferma su questo punto ma certamente l’essere che caratterizza l’attuale società è ben diverso dalla modalità produttiva e creativa del nuovo umanesimo che Fromm pensava.

L’obiettivo che si propone il seguente saggio è quello di far vedere come l’uso e l’abuso del digitale ci distacchino dal nostro ancoraggio sul mondo nel suo aspetto fisico concreto e come la sovrabbondanza di informazioni provenienti dal sistema di cui siamo parte impedisca un’autentica comunicazione e condanni alla solitudine.

Questa nostalgia delle cose, questo senso di sradicamento può trovare spiegazione nei dati anagrafici dell’autore; nato nel 1959, ha vissuto certamente la sua infanzia e l’adolescenza nell’era predigitale, in un mondo dal quale è stato per così dire esiliato. Un nativo digitale avrebbe forse un atteggiamento diverso. Chi ha vissuto un prima costituito di cose e ora vive nell’universo dei messaggi è portato a fare dei confronti.

Il libro e l’ebook possono contenere la stessa opera ma abbiamo con essi un rapporto sostanzialmente diverso: il primo si possiede, al secondo invece si accede, a volte per farlo bisogna pagare ma non se ne diventa proprietari. Il primo presenta delle caratteristiche come oggetto e come tale viene collocato in una posizione della libreria, tra le sue pagine si può trovare un biglietto o un fiore essiccato messo da noi o da altri. Il libro ha una sua vita più o meno lunga che colore, odore e consistenza possono rivelare. Il testo digitalizzato è senza luogo, senza tempo e senza materia.

Un altro confronto è tra il telefono e lo smartphone; per parlare del primo fa riferimento ad un brano di Walter Benjamin tratto da Infanzia berlinese intorno al millenovecento, dove la durezza meccanica dell’apparecchio manovrata a fatica da un bambino viene contrapposta ad uno smartphone attuale. La differenza risalta ancor più che in un modello di telefono degli anni Sessanta o Settanta che potrebbe essere stato usato dall’autore nella sua infanzia. In ogni caso si delinea una situazione nella quale il rapporto con l’altro ci coglie disarmati e si impone nella sua ineludibilità.

Nello smartphone invece tutto è più sfumato; leggero, liscio, sempre a portata di mano, non richiede per l’uso manovre complicate. Si possono agevolmente porre filtri per non essere raggiunti o passaggi facilitanti a seconda delle proprie esigenze; si può anche comunicare in differita con messaggi, foto e quant’altro attraverso i social. Ma tutto ciò porta ad una chiusura in sé stessi; tanti individui apparentemente comunicanti ma chiusi allo sguardo, da non intendersi nel senso banalmente fisico, dell’altro. Leggiamo: «La digitalizzazione fa scomparire l’Altro come sguardo. L’assenza dello sguardo è corresponsabile della perdita dell’empatia nell’epoca digitale» (p. 30). Vediamo poco oltre: «I media digitali riescono a superare ogni resistenza spazio-temporale, ma è proprio la negatività della resistenza a essere costitutiva dell’esperienza autentica. L’assenza digitale di resistenze e l’ambiente smart portano a una carenza di mondo e di esperienze» (p. 31).

Per parlare della fotografia tradizionale da contrapporre a quella digitale richiama in primo luogo Rolan Barthes, con tre brevi citazioni tratte da La camera chiara, «È un “ectoplasma”, una magica “emanazione del referente”, una misteriosa alchimia dell’immortalità: “Il corpo amato è immortalato dalla mediazione di un metallo prezioso: l’argento […]. E inoltre bisognerebbe aggiungere che questo metallo, come tutti i metalli dell’alchimia è vivo”. La fotografia è il cordone ombelicale che continua a legare il corpo amato all’osservatore anche dopo la morte. Per cui la fotografia “ha qualcosa a che vedere con la resurrezione”» (pp. 40-41).

Per contro nell’immagine digitale il rapporto con la luce passa attraverso relazioni numeriche e «l’alchimia cede il passo alla matematica, smitizzando la fotografia stessa» (p. 42). Dove c’era un rapporto legato alla materia viva ora vi sono solo relazioni logico formali.

In riferimento a Benjamin, ma prendendone anche le distanze, parla dell’aspetto cultuale della fotografia, almeno per ciò che riguarda i ritratti dei propri cari defunti, questi vengono collocati in uno spazio, una camera da letto o un salotto, che ha il carattere del sacro. Non è nemmeno pensabile qualcosa di simile per un’immagine digitale, priva dell’aura della prima, è fatta per venire diffusa e presto eliminata.

Ma è il rapporto con le cose in generale ad essere cambiato, se prima queste agivano autonomamente ed anche reagivano ostacolandoci, ora sono addomesticate e assoggettate alle nostre richieste, «Non sono né calde né fredde. Sono per così dire fiacche, prive di qualsiasi vitalità. Non rappresentano più un interlocutore, un controcorpo» (p. 66). Man mano che il mondo a noi esterno perde sguardo e voce, «L’ego che va potenziandosi non si lascia più toccare dall’Altro: si limita a specchiarsi sul dorso delle cose[1]» (p.67).

In riferimento ad Heidegger fa notare che la mano che lavora come quella che scrive è contigua al pensiero, è analogica, è con la mano che si esperisce la servibilità di un qualsiasi strumento che ci lega al mondo; le dita da sole, quelle che si adoperano utilizzando una tastiera, sono solo un mezzo di trasporto di informazione.

I legami significativi illustrati ne Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry così come i riti, che ci rendono stabile e familiare il nostro abitare lo spazio e il tempo, scompaiono in un fluire continuo di cui è difficile scorgere un senso.

Il silenzio, non quello imposto imperativamente ma quello di alcune privilegiate situazioni, pare essere la via di salvezza. Il baccano comunicativo ampliato a dismisura dai mezzi informatici fa sì che nessuno sia più in ascolto. Ognuno in un certo senso si trova isolato e parla solo a sé stesso. Non si tratta di quella solitudine di chi sulla cima di un monte si trova a comunicare con la divinità, ma piuttosto di quella di chi si trova smarrito tra una folla anonima e opaca.

Ancor prima di queste esperienze limite con l’Altro che è il divino, l’indugiare silenzioso e l’attenzione ci portano a comunicare con il prossimo.

La foto Boulevard du temple, ripresa personalmente da Daguerre nel 1838, rappresenta emblematicamente secondo Byung-Chul Han l’autentico che permane e l’inautentico destinato ad essere rimosso. Il lunghissimo tempo di esposizione, sette minuti, fa sparire tutto ciò che è in movimento. Le uniche figure umane che si scorgono sono un uomo che si fa lucidare le scarpe e, vagamente, un ragazzo che spazzola, «… la percezione del lungo e del lento riconosce solo le cose ferme. Tutto ciò che si affretta è condannato alla scomparsa. Boulevard du temple si lascia interpretare come un mondo visto con occhi divini: lo sguardo salvifico si posa solo su coloro che indugiano nella quiete contemplativa. È il silenzio a salvare».

Byung-Chul Han, LE NON COSE. Come abbiamo smesso di vivere il reale, traduzione di Simone Aglan-Buttazzi, Giulio Einaudi editore, Torino 2022.   


[1] E. Bloch, “Il rovescio delle cose”, in Tracce, trad. di L. Boella, Coliseum, Milano 1989.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...