Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

La logica che è pensiero. Il pensiero che è logica. E la vita che è altro.

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In ricordo di Bruno Celano.

Il 18 Maggio 2022 ci ha lasciato il giusfilosofo Bruno Celano, personalità di spicco della filosofia analitica del diritto italiana.

In ricordo di Bruno Celano.

Il 18 Maggio 2022 ci ha lasciato il giusfilosofo Bruno Celano, personalità di spicco della filosofia analitica del diritto italiana.

Tralasciando il discorso sulla malattia che ne ha condizionato pesantemente metà della sua esistenza, sia per delicatezza sia perché lo stato di salute non determina la bontà di una prospettiva teoretica, vorrei qui offrire il mio personale ricordo del filosofo palermitano. Nella convinta persuasione che si tratterà soltanto di un ricordo parziale tra i moltissimi altri possibili ed egualmente legittimi.

Rammento che agli inizi del 2002 scrissi una mail ad un rinomato esperto internazionale di logica deontica, non ne sono sicuro, ma mi pare fosse il filosofo Antonio Martino, perché ero al momento alla ricerca di strumenti e di consigli riguardo a questa particolare branca della ricerca logica contemporanea. E lo studioso, altro esemplare modello di ingegno a tutto tondo, nella sua disponibilità e nella sua bonarietà, mi rispose che non avevo alcun bisogno di raggiungerlo a Pisa dal momento che a Palermo potevo contare sulla figura di Bruno Celano. Non lo conoscevo, e soprattutto ignoravo i suoi esordi sul nesso tra logica deontica e analisi del linguaggio normativo. Lo cercai online, trovai l’email e gli scrissi, pensando tra me e me che mai e poi mai avrei ricevuto una risposta. Si trattava, a tutti gli effetti, almeno sulla base della mia presunzione, di una sorta di mail a fondo perduto, giusto per rimanere in pace con la mia coscienza, ci avevo almeno provato. Ed invece mi rispose praticamente subito, dandomi appuntamento nella sua stanzetta presso il dipartimento di afferenza. Ne rimasi stupito, rapido, cordiale, disponibile. Non avevo problemi a orientarmi nella città universitaria perché avevo già avuto modo di utilizzare la biblioteca di quel dipartimento dal momento che ero già alle prese con la mia tesi di Laurea. Avevo già dovuto cercare il dipartimento, non erano ancora efficienti le reti wireless e i sistemi di geolocalizzazione, ma a tentoni mi recai nella zona palermitana ove insiste la facoltà di giurisprudenza e da lì proseguii lungo via Maqueda in direzione del Politeama. Per fortuna, o per caso, finii a Scienze Politiche, altra facoltà a me sconosciuta, e, dopo aver vagato un po’ per i suoi augusti e vuoti spazi interni, incontrai due studenti e chiesi loro dove si trovava il Dipartimento DPDS (l’ex dipartimento di studi sulla politica, il diritto e la società). Gentilmente mi spiegarono che dovevo tornare indietro sino ai quattro canti e risalire da Corso Vittorio Emanuele sino a poco prima della Cattedrale e che sulla sinistra avrei trovato una piazza, il DPDS era lì. E così feci. Memore di quella esperienza, mi recai all’appuntamento, salii sino al secondo piano e da lì, via scale, al terzo ed ultimo piano. Bussai alla porta della stanza e venni inviato ad entrare. Trovai un uomo adulto seduto ad una scrivania e un collaboratore, più giovane, seduto di fronte. Non sapevo che Bruno Celano fosse lui e così esordii dicendo solamente che stavo cercando il professor Celano. Con un balzo, si mise in piedi e mi disse “Lei è il signor Pizzo, giusto?”. Mi aveva riconosciuto. Congedò il collaboratore, non ricordo con quale compito, e mi invitò ad accomodarmi. Mi sedetti e mi presentai. Cominciò ad armeggiare con una pipa, e poi con una gamba. E parlammo, di logica deontica e dintorni. Scoprii però quel che temevo: come tanti altri, dalla logica deontica aveva migrato verso altri interessi. “Se ci pensi – mi diede subito del tu – è perfettamente naturale, la logica deontica da sola non è in grado di soddisfare il nostro bisogno di comprendere la forza degli atti normativi. Gran parte dei logici deontici della prima ora sono passati alle scienze sociali”. Il nostro sodalizio da quel momento ruotò attorno a tre poli interconnessi, la logica delle norme, la filosofia analitica e la differenza tra essere e dover essere. Illuminante! Esattamente, com’era in ogni nostro informale incontro. Divenni un frequentatore abituale del dipartimento, così come del suo ricevimento settimanale. Ogni volta dissipava dubbi e illustrava nuovi orizzonti. Mi rivelò anche che quella non era la sua scrivania, ma di Francesco Viola, la sua era lo sgabuzzino frontale, un vano molto stretto, con un computer piazzato lì a forza e con una sedia che non entrava dentro, “d’altra parte è uno spazio che hanno ricavato dal cesso”, quello adiacente alla stanza. Ironico. Avrei voluto che mi facesse da correlatore, ma non volle o non poté. Scoprii anche che inizialmente era stato allievo di Giuseppe Nicolaci, docente del mio dipartimento di afferenza. E fui stupito nel constatare come improvvisamente avesse abbandonato la facoltà di Lettere per approdare a quella di Giurisprudenza. Un giorno gli formulai anche questa mia curiosità e lui, franco e libero, mi disse che stimava Giuseppe Nicolaci ma che aborriva la variante palermitana della filosofia teoretica. In effetti, almeno allora, era molto hegeliana e difficilmente appetibile a palati non ermeneutici. Con il tempo, ebbi modo di constatare che anche un altro laureato in filosofia, alcuni anni prima di Celano, aveva abbandonato Lettere per approdare a Giurisprudenza, parlo di Tecla Mazzarese. Certo due casi non costituiscono una prova, ma è quantomeno singolare. Di che cosa con esattezza non saprei, e ciò non costituisce per me più un argomento di riflessione.

Mi laureai intanto e cominciai a pensare al dottorato. Nel prepararmi, continuai a frequentare la stanza di Bruno Celano. Ora cominciava ad utilizzare un bastone da passeggio. Non prestai molta attenzione alla cosa, ero più interessato alla riflessione. Chiesi una bibliografia di massima per tentare il dottorato in filosofia analitica e teoria generale del diritto, lo stesso da lui conseguito tra la fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni ’90. Non disse di no, ma mi mise in guardia. Ad ogni modo, mi consigliò una bibliografia essenziale per prepararmi al meglio, offrendosi anche di presentarmi come un suo allievo. Mi trattò da allievo, anche se, a tutti gli effetti non lo ero. Poi non lo provai, entrando invece a Filosofia presso il Dipartimento FIERI, il mio. Nondimeno, continuai a frequentare la stanzetta al terzo piano. Al termine di uno di quei contatti mi disse “ma quando mi hai conosciuto, camminavo ancora?”. La domanda mi turbò. Camminava, in che senso non più? Poi vuotò con serenità e garbo la sua condizione, “soffro di una malattia degenerativa per la quale non esiste una vera cura, periodicamente faccio massaggi e fisioterapia ma l’unica vera speranza è la ricerca scientifica”. Erano i tempi della legge n. 40 del 2004 e del periodo immediatamente precedente. Ma erano anche i tempi durante i quali stavo esplorando l’ipotesi di trasformare la razionalità espressa dalla logica deontica in una logica giuridica o delle norme. Scoprii che presso la facoltà di Giurisprudenza era attivo un insegnamento di logica giuridica e gli chiesi lumi. La sua risposta, probabilmente, fu quella che ciascun giovane studioso vorrebbe ricevere almeno una volta nella vita, “sono io il responsabile di quell’insegnamento, se vuoi, non appena avrai terminato il dottorato, torna qui che te lo affido”. Non lo feci. Per viltà o per mancanza di sana incoscienza. Il mio ultimo ricordo è che mi disperavo di non riuscire ad ottenere una copia del volume Dialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla Legge di Hume. Apparentemente fuori catalogo, introvabile al prestito. E allora candidamente esposi questa mia difficoltà a Bruno Celano. E lui, garbato e sensibile come pochi, mi rispose esclamando “ma come! Non gliene avevo donato una copia?”. Aprì un mobiletto e mi donò una copia. Che lessi avidamente e con un sentimento di profonda delusione, non perché non fosse un buon testo ma perché andava lontano dai miei interessi. Il discorso s’inerpicava lungo l’irto sentiero della dicotomia tra fatti e valori, snocciolando esempi e controesempi. D’altro canto, altre fonti indirizzavano unanimi al lavoro di Celano in merito alla Is – Ought Question, qualificandolo come un’opera monumentale in merito alla questione. Il perché mi fu subito chiaro, anche se eterogeneo ai miei interessi. D’altro canto, la conclusione appare inequivocabile: «La si dovrà considerare, piuttosto, come uno degli elementi grazie ai quali diviene possibile un’intesa reciproca. GD, la dicotomia di credenze e prescrizioni, è uno dei criteri, il più rilevante, grazie ai quali diviene possibile capire che cosa vuol dire trovarsi in accordo, o in disaccordo, sulla risposta da dare a un problema pratico»[1]. Per Celano, la giustificazione pratica ha sempre intersecato due piani distinti, ma non irrelati, ovvero il piano formale e il piano storico. Questa linea evolutiva è presente sin dagli inizi del suo percorso di ricerca. La si ritrova, ad esempio, nella monografia del 1990 sull’ultimo Kelsen, e merita di essere citata.

La considerazione della norma come ‘norma pura’, insomma falsa l’effettività delle norme come fatto sociale. L’eventuale giustificazione di un punto di vista normativistico in sede di teoria del diritto non può risiedere né nella fondatezza teorica di un’analisi ‘pura’ del dover essere, né nella specifica forma di senso della norma ‘valida’ in quanto senso ‘oggettivo’ di un atto di volontà autorizzato, ma nel fatto, di ordine storico, che il diritto, ed in particolare il diritto moderno dopo la codificazione, è quella pratica sociale al cui interno vige la convenzione (relativa a determinati valori ed a precisi scopi politici) che l’ordine delle ragioni che giustificano la posizione di una norma, l’insieme degli scopi alla luce dei quali essa appare sensata, vada nettamente disgiunto dall’ordine delle ragioni in base alle quali una norma deve essere applicata dalle istituzioni competenti, ovvero dai criteri in base ai quali una norma è detta appartenere all’ordinamento giuridico. Questa disgiunzione non è radicata nel senso del ‘dover essere’, ma in un contesto storico, e nell’adozione dello specifico punto di vista – l’applicazione del diritto – al quale una certa cultura chiede di operarla[2]

Questo passo mi riporta indietro negli anni, e in modo particolare a quando credetti di poter mediare la logica delle modalità normative con la dottrina pura del diritto di Kelsen. Non propriamente un errore, ma sicuramente un abbaglio cui, e di certo non da solo, lo stesso Kelsen condusse nel corso degli anni ’30 – ’60 del secolo scorso, salvo infine approdare ad una concezione volontaristica della norma giuridica, confinando quest’ultima nell’alveo dell’irrazionalità normativa, per come efficacemente colse Losano[3]. Il punto era che inizialmente nella sua dottrina pura il giurista inglobò una sana dose di logicismo, quel particolare costrutto, molto forte in ambito tedesco, che tiene assieme Kant ed Hegel e che informò la cultura tedesca di inizio XX secolo. Un logicismo che, ad esempio, possiamo trovare anche in Heidegger, e che afferisce più ad una vaga nozione di razionalità onnicomprensiva che a porzioni specifiche, oltre che settoriali, della ragione umana. Logicismo qui non sta per logica, ma per pensiero. Peraltro, è illuminante la distinzione operata da Celano nel passo summenzionato proprio là dove distingueva tra la validità formale e la vigenza fattuale di una norma. Che una norma sia valida, non implica infatti che sia anche vigente, pesa in merito una ben nota fallacia che il divisionismo vieta. Allora, perché una norma valida sia anche vigente è necessario che la sua validità formale riposi su delle convenzioni, di ordine storico, non razionale. Le convenzioni sono state il vettore lungo il quale l’intera ricerca di Celano si è sviluppata nell’ultimo trentennio, di per sé con molta probabilità debitrice di un’eredità che discende dal secondo Wittgenstein e che negli ultimi anni ha cercato di evolvere ulteriormente verso una vera e propria naturalizzazione della ragion pratica.

In un periodo imprecisato, ricordo che manifestai anche l’intenzione di candidarmi per il dottorato in Diritti Umani, del quale proprio Celano era il coordinatore. Con mia sorpresa, si mise le mani in testa ed esclamò con veemenza che non potevo, non dovevo. Infine, però, cambiò posizione e mi disse che potevo tentare, che sarebbe stato difficile ma che nessuno poteva negarmi di tentare. Non tentai. In fondo, si trattava di un settore disciplinare davvero lontano dal mio.

Nel frattempo, conseguii il dottorato in Filosofia, non senza difficoltà, e rammento che il professor Martino mi aveva messo in guardia al proposito, “senza sensibilità, ti giudicheranno a partire dalla loro ideologia”. Cominciai ad insegnare a scuola e si concluse l’intervallo temporale di possibilità accademiche. Non mi giunse alcuna offerta dal mio dipartimento di afferenza.

Ci misi una pietra sopra, pur cullandomi nell’illusione, tramite una prolifica produzione scientifica, di poter tornare un giorno nel mondo accademico. Ed anche questo ricordo è, a suo modo, una parafrasi di un dialogo avvenuto con Bruno Celano riguardo al suo passaggio dal Liceo all’Università nei primi anni ‘90.

Nel 2010 curai una collezione di miei articoli e la dedicai ai miei due maestri, il professor Roccaro e il professor Celano[4]. Mi proposi anche di fargli avere una copia, confidando nel fatto che gli avrebbe fatto piacere. Ma era già troppo tardi. Dopo il 2006 circa non lo vidi più. Anni dopo lo scoprii sulla sedia a rotelle, avverando a posteriori il timore di un ricercatore il quale mi aveva confidato “Bruno è un genio, ma sta male e temiamo che un giorno finisca in carrozzella”. Continuai a seguirne la produzione scientifica, sempre più distante dalla mia, e su Academia.edu. Lì non potei non notare la sua foto di profilo, in carrozzina, apparentemente in un bar, con due braccia esili. Un’immagine triste, foriera di quel tragico ed infausto epilogo che si è compiuto da pochi giorni. Purtroppo. Ma una vita impegnata a provare non è una vita sprecata o che possa essere fonte di angustia o di sensi di colpa. Potremmo limitarci ad osservare il nostro ombelico, ed invece abbiamo scelto di fare altro, nonostante tutto.

Avremmo potuto limitarci a vivere, ma vivere non è abbastanza. Bisogna anche pensare, o, forse, e meglio ancora, vivere e pensare. Perché la logica è pensiero. E il pensiero è logica. Via le convenzioni, Celano ha sintetizzato, peraltro in modo assai originale, e con una prosa sofisticata, mai banale, quella porzione di verità che molti decenni addietro aveva colto Georg Henrik von Wright. È sicuramente vero che la logica deontica amplia il regno della logica[5], estendendone il dominio oltre i valori di vero e di falso, così come la sua stessa nascita può essere considerata come un’estensione dell’analisi del linguaggio, ma è altrettanto vero che la logica deontica cattura soltanto una minuscola porzione della razionalità operante in ambito normativo[6]. Da qui, forse, le defezioni di molti, sicuramente non di von Wright, il quale, a suggello del suo itinerario di ricerca, amò ripetere che il pensiero pratico è pur sempre pensiero, e come tale deve soggiacere alle leggi della logica[7], benché indubbiamente questo studio costituisca un notevole ampliamento della logica stessa. Agli inizi degli anni ’80, infatti, facendo nel contempo un ideale bilancio dei suoi trent’anni nel labirinto della logica deontica[8], von Wright riformula la sua nozione di logica deontica trasformandola in un logicismo molto simile a quello kantiano, ma anche kelseniano: la logica deontica non è più solamente una logica delle modalità deontiche, ma una razionalità del linguaggio normativo. Per usare le parole di Antonio Incampo, essere e dover essere non si escludono vicendevolmente, ma si coimplicano, nel senso che l’essere appartiene al dover essere e il dover essere appartiene all’essere[9].

Ebbene, parafrasando Celano, ciò non basta. Affinché una legislazione valida possa anche essere effettiva, è necessario un piano storico che nessuna logica o nessun pensiero può contenere o giustificare a sua volta. La giustificazione pratica dice qualcosa, non tutto di come la razionalità possa anche essere pratica.

Al professor Celano, per tutto quello che è stato. Così come per tutto quello che non è mai diventato.

Bibliografia

B. Celano, Asserzioni e prescrizioni, in G. Nicolaci (ed.) Evento e senso nel pensiero contemporaneo, Jaca Book, Milano, 1990, pp. 107 – 120.

B. Celano, Dialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla Legge di Hume, Giappichelli, Torino, 1994.

B. Celano, Dover essere e intenzionalità. Una critica all’ultimo Kelsen, Giappichelli, Torino, 1990.

B. Celano, Filosofia analitica ed etica, in “Per la filosofia. Filosofia e insegnamento” 23, 1991, pp. 2 – 18.

B. Celano, Per un’analisi del discorso dichiarativo, in “Teoria”, 1, 1990, pp. 165 – 181.

S. Cremaschi, L’etica del Novecento. Dopo Nietzsche, Carocci, Roma, 2005.

A. Incampo, Identità non contraddizione. Sul fondamento della validità deontica, Laterza, Roma – Bari, 1996.

A. Pizzo, Logica del linguaggio normativo. Saggi sulla logica deontica e l’informatica giuridica, Aracne, Roma, 2010.

G. H. von Wright, Introduzione, a: G. Di Bernardo (ed.), Logica deontica e semantica, Il Mulino, Bologna, 1977, pp. 33 – 37.

G, H, von Wright, Logical Studies, Routledge and Kegan Paul, London, 1957.

G. H. von Wright, Norme, verità, logica, in “Informatica e diritto”, 3, 1983, pp. 5 – 87.


[1] Cfr. B. Celano, Dialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla Legge di Hume, Giappichelli, Torino, 1994, p. 715.

[2] Cfr. B. Celano, Dover essere e intenzionalità. Una critica all’ultimo Kelsen, Giappichelli, Torino, 1990, p. 316.

[3] Cfr. M. G. Losano, La dottrina pura del diritto di Kelsen, dal logicismo all’irrazionalismo, Introduzione, a: H. Keksen, Teoria generale delle norme, Einaudi, Torino, 1985.

[4] Cfr. A. Pizzo, Logica del linguaggio normativo. Saggi sulla logica deontica e l’informatica giuridica, Aracne, Roma, 2010.

[5] Cfr. G, H, von Wright, Logical Studies, Routledge and Kegan Paul, London, 1957, p. vii.

[6] Cfr. S. Cremaschi, L’etica del Novecento. Dopo Nietzsche, Carocci, Roma, 2005, p. 240: «la logica deontica è rilevante per il ragionamento pratico, ma solo se vi facciamo rientrare sia la logica del dover essere sia la logica del dover – fare, e comunque soltanto per un suo ambito ristretto».

[7] Cfr. G. H. von Wright, in G. Di Bernardo (ed.), 1977, p. 37.

[8] Cfr. G. H. von Wright, Norme, verità, logica, in “Informatica e diritto”, 3, 1983, p. 5.

[9] Cfr. A. Incampo, Identità non contraddizione. Sul fondamento della validità deontica, Laterza, Roma – Bari, 1996.

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