Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Non distogliere lo sguardo

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La sofferenza come senso della finitudine umana.

Viviamo nella civiltà delle immagini, dove i mass media propongono modelli omologanti e irreali, permeati da una logica edonistica che tende ad esaltare piaceri superficiali e anestetizza i sentimenti spiacevoli, dove la tecnologia propone un’altra realtà, quella virtuale, che a volte sostituisce quella reale e modifica la nostra identità, dove maggiori sono le approvazioni, i consensi, tanto più l’individuo si sentirà gratificato.

 È una società che tende a sbarazzarsi di tutto ciò che è negativo, di ciò che è segnato da fragilità e debolezza, che mette al bando il dolore. Nella società dei like, in quella di Instagram, dove ciò che ha difetto non appare o è camuffato, la vita che viene raccontata è caratterizzata da una falsa positività. L’uomo nella spasmodica ricerca di conferme perde il contatto con il sé interiore e l’immagine ostentata non rappresenta la sua natura più autentica. In un contesto in cui non è possibile sottrarsi allo sguardo e al giudizio dell’altro si rischia di perdere il valore della propria individualità, nessuno ha accesso diretto alla propria interiorità. La sovraesposizione mediatica finisce per annullare lo sguardo dell’uomo su di sé, ma noi dobbiamo generare costantemente i nostri pensieri dal nostro dolore. L’uomo non può essere ridotto ad una dimensione calcolante, non esiste un algoritmo capace di provare dolore.

Il dolore non è separabile dall’esistenza, in quanto è una parte integrante e ne costituisce un fondamento costitutivo, fa parte della vita di ogni uomo e della storia del mondo. Il dolore è la condizione dell’uomo, essere limitato e mortale, che mette in evidenza il senso della finitudine, è quel male di vivere di cui ogni persona fa esperienza in un momento o l’altro della vita.

 Kant dirà che il dolore è il pungolo dell’attività e in questa noi sentiamo sempre la nostra vita; senza dolore la vita cesserebbe, dando luogo all’inerzia della morte.

 Il dolore entra nella vita prepotentemente, senza preavviso, rivelando la fragilità umana, l’impossibilità di fermare la caducità delle cose e l’accadere degli eventi.

Solo nel periodo ellenistico la sofferenza e il dolore, pensati insieme alla felicità, entrano esplicitamente nella riflessione filosofica. Il piacere come assenza di dolore è la tesi di Epicuro, ripresa in molte varianti da altri, in particolare dall’utilitarismo degli ultimi due secoli che identifica il piacere con la felicità. Se riconosciamo che godere della felicità è la massima aspirazione a cui tende ognuno di noi, dobbiamo ammettere che il termine felicità sembra escludere qualsiasi forma di sofferenza e di dolore.

In tutte le filosofie, pur così diverse si può individuare una costante: il mistero della sofferenza è sempre collegato con una comprensione del tutto.

Il modo di guardare alla realtà è strettamente congiunto a quello del comprendere o no, accettare o no la sofferenza. Nel nostro mondo modellato dai mezzi di comunicazione di massa e improntato dal modello edonistico della società dei consumi, c’è stata una scotomizzazione della sofferenza: da una parte la spettacolarizzazione della sofferenza è quotidiana; dall’altra è continuamente disinnescato il confronto reale.

Di fatto si è sempre più soli nel dolore. Abbiamo bisogno di essere richiamati a non distogliere lo sguardo dalla sofferenza, nella consapevolezza che qui è in gioco la nostra umanità, anche se la tentazione di guardare altrove è molto forte per sfuggire al dolore. Esperire il dolore è prendere consapevolezza dell’umana precarietà.

L’uomo fa esperienza di ciò che lo trascende e che non può controllare.

Esperienza della sofferenza come conoscenza della condizione umana e incontro con l’Altro

La sofferenza e il dolore non sono giustificabili sul piano etico, la vita e la storia ci offrono immagini di una tale assurdità, che ogni ricorso alla dialettica naufraga.

La sofferenza non può esser vista come l’esito di una colpa o di un peccato, quasi fosse necessaria conseguenza di un comportamento deliberatamente scelto.

Il male non è spiegabile, esso non si integra con l’armonia del cosmo. Il male è rottura, è il non integrabile per essenza, che sconvolge le leggi fisiche e disattende le nostre aspettative, tanto da sembrarci un errore di natura.

Già nella filosofia dell’antica Grecia il dolore si presenta come rottura dell’equilibrio fisico. Occorre distinguere tra un dolore che genera impotenza e un dolore capace di segnare il divenire e la crescita.

Qualunque sia la sua origine, il dolore rompe il ritmo abituale dell’esistenza, ed è insieme patimento e rivelazione. La sofferenza va oltre la possibilità della razionalità astratta, che ne cerca la giustificazione sul piano del divenire e richiede per essere intesa una considerazione che si apre al mistero dell’esistenza.

Si delineano due posizioni: quella che si ferma all’assunzione del male come dato ineludibile e quella che ne ricerca la giustificazione alla luce di una ragione aperta al metafisico. Camus, convinto dell’invincibilità del male, ha scandagliato la condizione umana nella disperazione della sua solitudine in maniera radicale.  Nel romanzo La peste il protagonista, il dottor Rieux, ha maturato la convinzione che il male non potrà mai esser vinto, perché il bacillo della peste non scomparirà mai. D’altra parte, rifiuta quanto gli suggerisce il suo amico sacerdote Paneloux, che si sforza di argomentare nelle sue prediche la propria convinzione di credente. Egli si rifiuta di credere in Dio perché, a suo vedere, il pensiero di Dio allontana dall’uomo e porta all’indifferenza nei confronti del dolore.

Essere uomo comporta una lotta snervante che affatica e lascia amareggiati e delusi. Anche gli affetti umani, ai quali Rieux, attribuiva tanto valore, non soddisfano le esigenze del cuore, perché ci si rende conto che non siamo in grado di viverli con pienezza nel breve corso della vita.

Rieux aveva conosciuto la peste, l’amicizia, l’affetto e alla fine quello che aveva guadagnato era solo l’incapacità di vivere veramente i sentimenti e quello che gli era rimasto era la conoscenza della vita e il ricordo.

Il frutto dell’esperienza connessa alla vita è la conoscenza della condizione umana, condizione di estrema povertà, che neanche gli affetti più cari riescono a riscattare. Solo alla luce di una realtà altra da quella della vita terrena possiamo trovare un senso al patire. L’apertura al divino salva dall’angoscia e dalla disperazione.

Nel patire l’io si risveglia al sé stesso più autentico. Risvegliata dalla sofferenza l’anima si trova in relazione con l’al di là del mondo.

Il contributo fondamentale a mettere in rapporto la sofferenza e il volto ci viene dall’ esplorazione filosofica di Lévinas, che avvertiva fortemente il senso della trascendenza e credeva che la lacerazione della sofferenza potesse volgerci al Bene.

La filosofia occidentale ha sempre privilegiato l’ontologia, una dottrina dell’essere, in cui la conoscenza non fa che confermare il dominio dell’immanenza, di affermazione del medesimo e di rifiuto dell’alterità. Da questo dominio occorre uscire optando per la primarietà della relazione, quella che permette al medesimo di entrare in rapporto con l’altro senza ricondurlo in alcun modo a sé.

Tra le alterità esplorate da Lévinas ci sono quelle erotiche tra uomo e donna e quella tra padre e figlio, emerge tuttavia, come nodale quella etica, tra il medesimo e l’altro. L’Altro irrompe traumaticamente nella nostra vita con il suo volto. È’ un volto senza connotati estetici, un volto che si impone alla nostra responsabilità facendo risuonare il comandamento “Non uccidere”.

Il volto è parola silenziosa che richiede come unica risposta possibile il profetico “Eccomi!”.

 L’altro mette in questione il mio possesso indisturbato del mondo. Riconoscere l’altro significa instaurare con il dono, la comunità. Il discorso che stabilisce la relazione però non è amore, Lévinas insiste su una radicale asimmetria tra l’io e l’altro, a cui tutto è dovuto. Nel volto d’altri si propone lo stesso Infinito. Senza questo infinito, l’altro è come privato della sua consistenza. Il tema della sofferenza è sullo sfondo di tutta la sua filosofia.

Se il piacere è monolitico e istantaneo, il dolore dura a lungo nel tempo e può risorgere a distanza. Le ferite hanno bisogno di tempo e di senso per guarire e talvolta lasciano tracce indelebili. Tutto ciò si esprime sempre in un volto. Il volto “appare” solo se non si volge altrove lo sguardo. Questo vale per ogni volto, in particolare per quello segnato o sfigurato dalla sofferenza.

La filosofa francese Simone Weil si sofferma sul termine sventura (malheur), la sventura fa voltare la testa, inaridisce la pietà e può trasformarsi in ostilità, come se si fosse in presenza di qualcosa di inumano e dunque da respingere.

Nel saggio L’amore di Dio e la sventura, fa dell’amore di Dio e per Dio l’unico contrappeso alla sventura. Attesa, ascolto, attenzione, silenzio si fondono in queste attitudini amorose che dispongono a Dio. La sventura costringe a porre continuamente la domanda “perché?”, la domanda è essenzialmente senza risposta. Da questo silenzio può scaturire la contemplazione. Contemplare la sventura altrui senza distogliere lo sguardo, non solo degli occhi, ma dell’attenzione. Contemplare il non- contemplabile. Weil intravede la verità del cristianesimo come religione degli schiavi. Ciò che per Nietzsche era infamia, per Weil diventa la via regia per entrare nella realtà cristiana. La schiavitù è lo stadio estremo e avrà sempre qualche cosa a che fare con il cristianesimo.

Weil considera il dolore essenziale al viaggio dell’uomo, sottolinea l’universalità del dolore come strumento di conoscenza unificante della condizione umana, tanto da affermare che solo attraverso la sofferenza si ha la conoscenza, è nella sofferenza che la vita ha valore.

Incomunicabilità del dolore

Uno dei problemi centrali nell’ambito di tutte le pratiche volte a dare un senso al dolore è che esso, nella sua irrazionalità, è difficilmente comunicabile, il dolore è refrattario al linguaggio, è difficilmente condivisibile. L’esperienza del dolore può arrivare a mettere profondamente in crisi la domanda di senso sulla propria esistenza.

 Se consideriamo il dolore come una conseguenza naturale dell’essere nel mondo, allora anch’esso può acquistare un senso. Spesso non si riesce a dare ragioni al dolore, così incarnato nell’hic et nunc della persona sofferente.

Del dolore non si può averne conoscenza senza esperienza, il dolore schiaccia, si erge a controprova del senso dell’esistenza. Se si è consapevoli di ciò si può cogliere il legame tra il dolore di ognuno e il dolore universale. Il dolore sfugge al discorso, ma chi soffre cerca le parole per rompere il muro di silenzio, per non sentirsi soli e condividere con gli altri un’esperienza che non è solo sua.

L’uomo di fronte al dolore può sublimarlo, come esperienza unica di crescita, vanificarlo come pura apparenza o percepirlo come ineluttabile e subirlo. In una realtà in cui il dolore è il protagonista dovremmo cercare risposte alle tante domande che il dolore ci pone.

 Vi è giustizia nel dolore?

Il dolore è un’esperienza cruciale, è sempre una diminuzione di sé. Fare esperienza del dolore è prendere consapevolezza dell’umana precarietà. Ma nel dolore non si è soli. Le due culture che hanno influenzato l’occidente nel modo di vivere il dolore sono la cultura greca e la cultura cristiana.

 Nella cultura greca il dolore è un cammino verso l’ineluttabile. La consapevolezza dell’ineluttabilità del dolore nella vita è un invito a vivere con pienezza la vita che ci è data. L’alternanza di vita e morte non cancella l’angoscia in chi sa che non ci sarà più. L’uomo ha sempre paura di dover morire. La paura non è solo nella consapevolezza del limite estremo, la paura è una presenza contro cui combattere nei momenti in cui siamo colpiti dalla sofferenza.

Il dolore non è che un metro dell’umano agire, se non ci si arrende, se si lotta, pur nella consapevolezza che si cadrà, si supera l’annichilimento che nasce dalla precarietà della vita.

Nel mondo cristiano, l’esperienza di Dio è una chiave di lettura del patire. La crudeltà della vita è un segno di elezione, attraverso la speranza l’uomo si riscatta. Il dolore non è cancellato, anzi può rasentare l’abiezione, ma il silenzio di Dio non è abbandono. L’uomo, nella sua imperfezione, è chiamato a rispettare il patto perché la promessa si avveri. Per i cristiani la salvezza è nel Cristo sulla croce.

Nella trasgressione di Adamo, ogni uomo guadagna il significato della propria colpa. Questa concezione della colpa frutto dell’errore, permette all’uomo di trovare una giustificazione razionale all’irrazionalità della sua sofferenza, ma gli consente anche di sperare nella salvezza grazie alla misericordia divina.

 La sofferenza ha un senso? Se la sofferenza è frutto di una colpa, allora ha un senso. Ma qual è il senso di una sofferenza senza colpa?

Giobbe ci testimonia che uomini dalla condotta esemplare, senza alcuna ragione soffrono. La sofferenza è vissuta come una vera ingiustizia. Giobbe deve recuperare il silenzio di Dio, deve sapere il perché. Giobbe è colui che sa aspettare, il tollerante, il paziente che resiste al dolore. Giobbe ha il dovere di dimostrare una fiducia incondizionata a Dio.

Perché il dolore?

Dopo Auschwitz è ancora possibile credere? Tutti gli uomini hanno da sempre cercato una risposta al problema del male. Di fronte all’insufficienza delle risposte degli uomini al problema del dolore, la Bibbia dà un valore autentico alla nostra esistenza in tutti i suoi momenti. La Bibbia risponde che il male deriva dall’uomo.

 È presente il rapporto tra l’errato agire umano e il dolore, le scienze moderne sottolineano come tante malattie siano frutto di un folle uso dei beni naturali da parte dell’uomo, così come alcune catastrofi naturali sono spesso frutto del dissennato utilizzo della natura.

Le Sacre Scritture richiamano l’uomo alle sue responsabilità nei riguardi del creato e alla necessità di un corretto rapporto con esso, nel segno del rispetto e dell’equilibrio e ci ricorda che ogni nostra singola azione ha delle valenze positive o negative nei riguardi degli altri uomini. Il messaggio della Genesi è di estrema valorizzazione delle possibilità umane, ma spesso il male non è giustificabile, la sofferenza del giusto non dipende da colpe.

La Bibbia si interroga sullo scopo del dolore e afferma che talvolta è il metodo con cui Dio educa l’uomo, lo distoglie dal male, lo mette alla prova per saggiarne e fortificarne la fede. Considerare il dolore come intervento pedagogico di Dio ci può aiutare a scoprire che anche il tempo della sofferenza può essere tempo di benedizione: il dolore può portare l’uomo a chiudersi in sé stesso, ma può anche essere occasione di maturazione e crescita.

 L’uomo della Bibbia sa che avere responsabilità nella comunità, significa anche soffrire. Nella Bibbia il dolore è portato fuori dall’individuo, è esteriorizzato, perché c’è la certezza che il grido dell’uomo che soffre è sempre accolto da Dio. La sofferenza diventa invito a partecipare all’amore salvifico di Cristo.

L’obiezione di Karamazov, nel celebre romanzo di Dostoevskij, resta il più grande ostacolo alla fede in un Dio d’amore: se Dio è buono perché permette la sofferenza degli innocenti? La spiegazione che fa della pena una conseguenza del peccato non sempre funziona.

Nelle Scritture ebraiche, la figura di Giobbe è l’esempio tipico che suscita questo interrogativo. La sofferenza di Giobbe fa emergere un problema di fede: la sofferenza del giusto, che non viene dal suo peccato. L’uomo non può capire la sapienza Divina, ma deve accettarla con la fede. Giobbe non trova una spiegazione razionale all’esistenza del male, ma ritrova la fede.

Sperare oltre la sofferenza

Bisogna fare della speranza un prezioso momento educativo che ci deve far comprendere il senso della nostra fragilità e finitezza, stimolando in noi l’aspirazione ad essere felici per la piena realizzazione di sé stessi. I momenti di dolore ci pongono di fronte al limite della condizione umana e ci conducono a una trasformazione non voluta.

L’incontro con l’altro si fa accoglienza, cura e amore, l’io guarda verso l’altro. L’incontro con l’altro, la reciprocità, l’aiuto nelle sue varie forme, l’amore, possono generare quella condizione di felicità, di dono, creando quello spazio speciale per offrire e ricambiare.

L’atto del donare è un atto di felicità che rende felici sia il donatore che il donatario.

A partire da ciò si può sviluppare un corso pedagogico capace di congiungere cura e responsabilità. Quale responsabilità morale abbiamo nei confronti dell’altro?

La pedagogia della cura e della responsabilità deve umanizzare, deve promuovere l’avvaloramento dell’individuo come essere capace di sperare, di essere aperto al dialogo, in un rapporto di vicendevole arricchimento.

Questa è l’essenza della pedagogia della relazione per l’impegno alla cura della prossimità. Il discorso pedagogico, dinanzi al problema di saper vivere la sofferenza, necessita di una nuova concezione dell’uomo e del mondo. La pedagogia suggerisce alternative possibili per la ri-umanizzazione dell’uomo, che potrà così, sperare in un processo formativo che lo faccia evolvere, portandolo alla piena realizzazione di sé. Occorre, dunque, non separare la speranza dalla consapevole accettazione del limite, che conferisce alla passività una forma educativa e morale, una speranza come forza di reagire e rispondere.

Sperare non si oppone alla sofferenza, perché non si spera contro la sofferenza, ma si spera al di là della sofferenza. Tutte le risposte razionalistiche che vogliono giustificare il non senso della sofferenza sono destinate al fallimento dinanzi all’impossibilità di ridurre a logica l’ingiustificabile, come mostra Dostoevskij quando dichiara di non poter accettare un’armonia universale al prezzo della sofferenza dell’innocente.

In questo è di aiuto la pedagogia che ci aiuta a ripensare il dolore e la sofferenza in un orizzonte che dia senso e significato al nostro esistere. L’interesse della pedagogia è nella comprensione del senso della vita umana e nelle possibili modalità d’aiuto per viverla meglio; è nella sofferenza il punto di partenza per un educare al vero senso e significato della vita e quindi ad una crescita armoniosa.

La cura come condivisione

 La coscienza è una voce, e pertanto chiama, ma questo chiamare va interpretato come la voce dell’altro, la coscienza è voce dell’altro bisognoso, che mi chiama a prendermi cura di lui. Nessuno può venire al mondo se non attraverso le cure che gli altri gli rivolgono, per tutti è necessaria la cura premurosa di altri perché si possa crescere e divenire adulto. Tale condizione di essere destinatari di cure, non viene meno con la crescita, ma muta le sue forme; il rapporto educativo, nei suoi vari stadi e nelle sue diverse forme, non è in fondo altro che un esercizio di cura rivolto ad una crescita interiore.

La costruzione di sé e del proprio carattere è connessa con la formazione della propria coscienza, e tale coscienza è una forma essenziale del rapporto ad altri. La coscienza non significa solo presenza di sé a sé, ma anche e soprattutto presenza degli altri a sé. Quanto più un individuo acquisisce una coscienza, tanto maggiormente percepisce le attese che gli altri coltivano nei suoi confronti.

 La formazione di una personalità morale comporta il rapporto ad altri, poiché solo nella relazione ad altri, l’identità individuale acquisisce progressivamente forma e si tratta spesso di una relazione di cura, di un prendersi a cuore l’altro nelle sue difficoltà e sofferenze, di un accompagnare l’altro nella sua esperienza di vita.

L’attiva costruzione di sé è apertura di sé, disponibilità a lasciarsi istruire dagli altri e dai loro bisogni. Il circolo della cura ha carattere ricorsivo: per un verso non si cessa mai di essere curato, per altro verso, la cura che riceviamo e che nutre la nostra individualità è all’origine della capacità di prenderci, a nostra volta, cura degli altri, di crescere con loro attraverso tale condivisione. La cura ha un ruolo centrale nell’esperienza etica, impone di superare la naturale concentrazione su noi stessi, presuppone il rapporto con gli altri.

 La formazione di un carattere autenticamente umano presuppone l’apertura all’altro, la capacità di incontrare l’umanità dell’altro e di farsi carico dei suoi bisogni.

Il senso della nostra dignità personale dipende dal riconoscimento che ci viene offerto dagli altri, dal fatto che ci rivolgono uno sguardo di comprensione, di benevolenza. Tale disposizione empatica non è un semplice partecipare ad un’esperienza, che in quanto altrui, ci resta estranea, è invece il tentativo di fare propria l’esperienza vissuta dall’altro, di assumere il suo punto di vista, pur mantenendo l’altro nella sua alterità. La compassione, come anche il cercare di alleviare le sofferenze dell’altro, presuppongono una disposizione a sentire e comprendere e interpretare l’altro e la sua esperienza, lasciandosene interpellare. La prospettiva dell’etica della cura invita a concepire l’io maturo come io relazionale, capace di mantenere rapporti di empatia.

Ripensamento della vulnerabilità

Si può rispondere al male con un surplus di bene, in cui trovano posto la cura, la disponibilità e l’accoglienza verso la vulnerabilità propria e altrui.

La forza di contrastare il male con il bene deve nascere dalla convinzione che spesso si tende a demonizzare il dolore solo come difesa, cioè per timore che l’altro, nella sua sofferenza, ci riconduca alla nostra vulnerabilità.

L’esistenza non può essere sperimentata in tutta la sua complessità, se pretende di sfuggire alla dialettica tra vita e morte, tra felicità e dolore.

Il dolore non è una sensazione, ma anche un sentimento, investe globalmente l’individuo, influenza le nostre esperienze e ci condiziona. Nel dolore il mondo si restringe, la struttura del mondo cambia. Più il dolore è forte e più diventa una prigione, un restringimento della realtà. Il dolore rende soli. Tuttavia, persiste la volontà di uscire da questo isolamento e unirsi agli altri. Il dolore quando diventa grido si apre al mondo di relazione dell’individuo. Se la morte è parte integrante della vita, dobbiamo saper vivere il proprio presente, vivere con serenità la vita che ci è data, non c’è nessuna garanzia di salvezza, ma la vita non si spreca. Dobbiamo imparare a convivere con il dolore, a utilizzarlo come una risorsa per trasformare sé stessi attraverso la cura di sé. In questo contesto assume primaria importanza il rapporto con l’altro, attraverso il quale si può costruire l’immagine di sé, un’immagine in continua trasformazione che solo l’altro è in grado di rifletterci. La costruzione dell’immagine di sé, passaggio obbligatorio per prendersi cura di sé, passa attraverso l’immagine che l’altro rimanda. Per questo è fondamentale che l’altro ci faccia da specchio, rimandandoci un’immagine il più possibile vera, autentica.

 La sofferenza come maestra di vita dischiude ulteriori orizzonti e suggerisce domande più profonde, rende gli uomini consapevoli, più autentici, perché li priva di tutte le illusioni, con le quali nascondevano a sé stessi la realtà delle cose.

 L’esperienza della sofferenza rende possibile guardare alla vita in maniera disincantata e accettarla integralmente.

Bibliografia

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Stein E. L’empatia, Milano, Franco Angeli 1985

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Weil Simone, L’amore di Dio, Roma, Borla, 2010

Weil S. Lettera a un religioso, Milano Adelphi 1951

One thought on “Non distogliere lo sguardo

  1. Viviamo in un mondo dove l’Altro sfugge non esiste,un mondo in cui prevale un indivodualismo ormai patologico. Le riflessioni di Emanuela Trotta ci indicano la strada per la costruzione di un mondo migliore proprio attraverso la consapevolezza che l’Altro esiste e che solo non distogliendo lo squardo verso l’Altro e riconoscendolo come elemento di crescita della nostra esistenza realizzeremo un mondo nuovo.
    Complimenti all’autrice.

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