Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

La psicoanalisi non è una scienza. E allora?

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di Gianluca Valle

Filippo Fracas, CRITICHE EPISTEMOLOGICHE ALLA PSICOANALISI. LE TESI DI WITTGENSTEIN E POPPER, Primiceri Editore, Padova 2020.

Il volume di Filippo Fracas costituisce un’agile introduzione al dibattito sullo statuto epistemologico della psicoanalisi, mettendo a fuoco le critiche di due influenti filosofi del Novecento – Wittgenstein e Popper – al metodo freudiano. Il suo scritto è godibile, senz’altro all’altezza di quanto promette nel titolo, anche se costellato di refusi (alcuni gravi, come nel caso di “casualità” al posto di “causalità”, p. 35, o “tesi di Duhem-Quien” al posto di “tesi di Duhem-Quine”, p. 68). La prima sezione fornisce una panoramica della biografia di Freud e della nascita della psicoanalisi, soffermandosi poi sui suoi presupposti epistemologici, dal punto di vista del suo fondatore. La seconda sezione, invece, passa in rassegna le critiche alla teoria psicoanalitica di Wittgenstein e di Popper, dopo averne brevemente ricostruito la vita e le opere, e fornisce gli strumenti concettuali necessari a sancirne la non-scientificità.

Se l’intento era quello di riepilogare la triangolazione Freud-Wittgenstein-Popper, il lavoro appare storiograficamente corretto, corredato da opportune e forse troppo ampie citazioni dalle fonti. Alcune perplessità insorgono nel lettore, però, non appena ci si sposta dal piano della ricostruzione storica a quello dell’analisi teoretica. In questo ambito, la scelta delle fonti utilizzate per delineare l’impianto epistemologico della psicoanalisi (essenzialmente due: Il metodo psicoanalitico freudiano, 1904, e Costruzioni in analisi, 1937) risulta quanto meno discutibile: dal Progetto di una psicologia (1895) al Compendio di psicoanalisi (1938), Freud è incessantemente ritornato sui suoi assunti teorici, sottoponendoli spesso a revisione, soprattutto quando venivano messi in crisi o falsificati dall’esperienza clinica. Per di più, non ci sembra affatto scontata l’affermazione dell’autore del volume, secondo cui Freud sarebbe stato “un convinto positivista e materialista, erede dell’Illuminismo” (p. 66). Ci sembra invece più ragionevole osservare, sulla scia di Ricoeur, che “i concetti dell’analisi devono essere giudicati come condizioni di possibilità dell’esperienza analitica, in quanto questa si svolge nel campo della parola. Non quindi alla teoria dei geni o dei gas la teoria analitica va paragonata, ma a una teoria della motivazione storica. Ciò che la specifica tra altri tipi della motivazione storica, è il fatto che essa limita la propria indagine alla semantica del desiderio” (Della interpretazione. Saggio su Freud, p. 409, corsivo nostro). Lo studioso di Freud sa bene che la disciplina da lui fondata non aspira a configurarsi come un sistema compatto di teorie, ma come un cantiere in evoluzione, dove sono frequenti le fughe in avanti e le battute in ritirata, le intuizioni inaspettate e i ponderati ripensamenti. Nella teoria freudiana, il piano energetico e quello ermeneutico risultano intrecciati ab origine, per cui le cariche e le scariche psichiche vengono ad un tempo scoperte e interpretate dalla coppia analista-paziente al lavoro: “la psicoanalisi non si pone mai di fronte a forze nude, ma sempre a forze alla ricerca di un senso; è questo legame della forza con il senso che fa dell’istinto stesso una realtà psichica o, più precisamente, il concetto limite al confine tra organico e psichico” (Della interpretazione. Saggio su Freud, p. 165). Dalla scoperta dell’inconscio alla teorizzazione del sessuale, dalle topiche psichiche al narcisismo, dall’esplorazione dei meccanismi di difesa dell’io (rimozione, negazione, diniego) al dualismo pulsionale di Eros e Thanatos: ecco solo alcuni esempi tratti dall’immenso deposito di concetti freudiani, cui attingere e da rilanciare – come è stato fatto dalle successive generazioni di psicoanalisti (da Klein a Winnicott e Bion, da Lacan a Green, da Kohut a Bollas) – per modellizzare e avvicinare i diversi funzionamenti della mente.
Come giustamente ricorda Fracas, rispetto alla psicoanalisi freudiana Wittgenstein oscilla tra il netto rifiuto di annoverarla tra le scienze oggettive e l’apprezzamento delle sue potenzialità terapeutiche, in quanto anch’essa “come qualsiasi altra scienza naturale, è una pratica umana, una forma di vita e di linguaggio” (p. 47). Ma partiamo dalla raffica di critiche che l’autore del Tractatus indirizza a Freud, dopo la lettura de L’interpretazione dei sogni, e quindi di una parte minimale – e ci sia consentito aggiungere, “aurorale” – del corpus freudiano: la psicoanalisi non è una scienza perché a) non ricerca le cause di un evento psichico o di un’azione, ma le sue ragioni o motivazioni, quindi non è controllabile; b) l’analista gode di una superiorità rispetto al paziente, al punto che le sue interpretazioni – anche se non coincidono con quelle dell’analizzando – sono sempre corrette; c) se il paziente è in disaccordo con la ricostruzione offerta dall’analista, ciò viene da lui interpretato come una resistenza o un inganno dell’inconscio; d) la tecnica delle associazioni libere è facilmente pilotabile (chi decide quando ci si deve fermare?); e) non tutti i sogni comportano l’appagamento allucinatorio di un desiderio, poiché quest’ultimo si manifesta in esso solo parzialmente o in maniera deformata; f) infine, appare difficile stabilire se l’inganno riguardi il desiderio rimosso che parzialmente riemerge nel sogno o la censura che lascia comunque “passare” qualcosa di vero e di inconfessabile: né il desiderio né la censura possono infatti venire soddisfatti. Al netto di questi addebiti, puntuali e ricchi di risvolti, sebbene dovuti ad una scarsa conoscenza della pratica analitica, configurabile invece come un lavoro di co-costruzione e di trasformazione del paziente e dell’analista, compiuto attraverso le stratificate dinamiche del transfert e del controtransfert, Wittgenstein assume la psicoanalisi come un gioco linguistico finalizzato alla cura, mettendo sullo sfondo la questione del suo statuto di scientificità. Se si adotta questo angolo visuale, l’interpretazione dei sogni non equivale a smascherarne la verità nascosta, ma a inserirlo in un contesto di significati in cui cessa di essere enigmatico. Allo stesso modo, il gioco analitico può essere compreso come una peculiare forma di vita che consente al paziente di trovare le parole per dire quello che sente, senza per questo esaurirne l’interiorità. La cosa rilevante è che non si può esprimere uno stato d’animo senza disporre di un gioco linguistico, per sua natura pubblico e condiviso, che ci consenta di farlo: “proprio questo è il compito primario dell’analista, ovvero fornire al paziente gli strumenti concettuali adatti a parlare della propria interiorità” (p. 51). Se la psicoanalisi, come pare suggerire Wittgenstein, è un gioco linguistico con regole sue proprie, non ci sembrano pertinenti le conclusioni di Fracas che, “per la centralità della componente soggettiva nel processo analitico” (p. 73), la sospende in un limbo tra scienza e filosofia, rifiutata da entrambe, ancora in cerca di una collocazione stabile. Lo stesso filosofo austriaco ha in definitiva mostrato come sia la scienza che la filosofia siano dei giochi linguistici, apparentati da somiglianze di famiglia, non gerarchicamente organizzati a partire da un centro o da un vertice, dei “saperi senza fondamenti” il cui scopo è di strutturare la multiforme esperienza umana attraverso codici, pratiche e metafore (cfr. A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti). Ovvero, attraverso delle decisioni umane: intransitive, criticabili e revocabili. Che la teoria freudiana, come rileva Fracas nelle conclusioni, aspirasse a inglobare in se stessa ogni aspetto della realtà ci pare quanto meno contestabile e che essa possa essere riassorbita all’interno della “teoria” dei giochi linguistici non ci sembra un male. Wittgenstein aveva d’altronde dichiarato di considerarsi un seguace di Freud, in quanto – a suo dire – lo avrebbe compreso meglio di quanto quest’utimo avesse compreso se stesso. Come ricorda opportunamente Gargani, al filosofo austriaco il metodo della psicoanalisi appariva affine alla propria “tecnica linguistico-concettuale, che si propone non di spiegare i fenomeni – cioè di ricondurli mediante relazioni causali ad una struttura più profonda e sottostante – bensì di descriverli, cioè di fornire una visione perspicua (übersichtliche Darstellung) e coerente di una varietà di fatti che si presentano slegati e irrelati tra loro” (Lo stupore e il caso, p. 118).
La tesi di Popper, avanzata in Congetture e confutazioni, è così riassunta da Fracas: “il miglior criterio per testare la validità e verità di una teoria non è il sottoporla a infiniti casi di verificazione, ma determinare il singolo caso che può falsificarla: solo le teorie che possono essere falsificate sono scientifiche” (p. 55). Secondo questa prospettiva, la psicoanalisi (da lui assunta nelle versioni formulate da Freud e da Adler, lo scissionista che diede vita alla psicologia individuale) non soddisferebbe il requisito della falsificabilità, essendo piuttosto assimilabile ad un racconto mitico o all’astrologia per la sua pretesa di risucchiare ogni fenomeno o sintomo umano all’interno di una teoria onnipotente e onnicomprensiva della mente. Detto altrimenti, per essere scientifica una teoria deve “rendere espliciti i suoi caratteri di debolezza, ponendo dei limiti alle proprie capacità di previsione: più limiti ha, dice Popper, tanto migliore essa è” (p. 65). In questo quadro, le osservazioni cliniche fornite dagli analisti non servirebbero a mettere in difficoltà la teoria, perché non la espongono al rischio di prevedere accadimenti incompatibili con le ipotesi, ma la rafforzano, magari aggiustandola tramite l’invenzione di ingegnosi “stratagemmi convenzionalistici”. Data l’asimmetria logica tra verificazione e falsificazione, in base a cui una teoria – per quanto confermata – resta sempre confutabile, appare più utile individuare i possibili errori per stressarla e vedere se resiste (Popper direbbe “corroborarla”) o, in caso contrario, sostituirla con una migliore. Fin qui la ricostruzione, quella che viene solo adombrata da Fracas è la problematizzazione della confutabilità come criterio di demarcazione tra teorie scientifiche e teorie metafisiche. E non solo, o non tanto, per la nota critica dell’olismo epistemologico di Duhem-Quine, secondo cui è impossibile scorporare da un sistema di teorie – tutte correlate tra loro – una singola ipotesi da controllare sperimentalmente, senza ricorrere ad ipotesi ausiliare che potrebbero in seguito risultare sbagliate, ma soprattutto perché la falsificazione stessa non è mai definitiva, sul piano metodologico. Per falsificare una teoria, c’è bisogno di asserti osservativi accettati per veri, il che però non significa che siano effettivamente veri: anche i cosiddetti “enunciati protocollari”, infatti, non sono immuni dall’errore, per cui ad essere falsa potrebbe non essere l’ipotesi da controllare ma l’asserto usato per falsificarla.
Chi si lascia irretire all’interno di una concezione della verità come corrispondenza (rei et intellectus), troverà molti concetti psicoanalitici ambigui e tendenziosi, imprecisi o ingannevoli, e comunque incapaci di cogliere “la” realtà. Chi, invece, riconosca la necessità di rinunciare al mito del dato, ammettendo che non sia possibile – né auspicabile – uscire dal linguaggio o evitare la mediazione dei contesti e dei codici, non avrà difficoltà a considerarli come delle metafore vive, almeno fintantoché aiutano a comprendere e a ridurre la sofferenza umana. Come avverte Nietzsche, senza per questo sprofondare nello scetticismo o peggio ancora in una forma di illusionismo post-moderno, “la «cosa in sé» (la verità pura e priva di conseguenze consisterebbe appunto in ciò) è del tutto inafferrabile per colui che costruisce il linguaggio, e non è affatto degna per lui di essere cercata. Egli designa soltanto le relazioni delle cose con gli uomini e ricorre all’aiuto delle più ardite metafore per esprimere tali relazioni” (Su verità e menzogna in senso extramorale, p. 359). In questo quadro, mentre Popper – nonostante la netta presa di distanza dall’induttivismo e dall’osservativismo – appare saldamente legato ad una strategia epistemologica corrispondentista, Wittgenstein instaura un confronto con la psicoanalisi ben più articolato e complesso, inaugurando promettenti e inediti orizzonti interpretativi.

BIBLIOGRAFIA

  • M. Balsamo, Ascoltare il presente. Tempo e storia nella cura psicoanalitica, Mimesis, Milano 2019.
  • A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti, Einaudi, Torino 1975.
  • A.G. Gargani, Lo stupore e il caso, Laterza, Roma-Bari 1986.
  • A.G. Gargani, Freud, Wittgenstein, Musil, Sheakspeare & Company, Milano 1992.
  • F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Id., Opere di Friedrich Nietzsche. Vol. III, t. 2 La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, ed. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1990, pp. 353-372.
  • P. Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 2002.

			

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