
La nostra società sembra aver dimenticato l’importanza del pudore, è incapace di distinguere il condivisibile dall’intimo, ha mercificato anche gli aspetti più personali in una vendita illimitata di sé, del proprio corpo e del proprio spirito.
Se tutto è rivelato, nulla è più da scoprire. Il bisogno spasmodico di rendere pubblica la propria immagine, dimostra come il potere sia riuscito ad estirpare il senso del pudore, il quale è ormai visto come un ostacolo alla visibilità.
La preservazione del pudore è una forma di resistenza al potere che impone l’abbattimento totalizzante di ogni barriera dell’individualità.
Potrebbe essere importante recuperare ciò che sembra ormai fuori moda, ma prezioso come il pudore. Quel pudore non moralistico e non conformista che difende la nostra libertà, che protegge la nostra intimità dagli sguardi indiscreti e omologanti.
Ci si vergogna di vergognarsi e non di non vergognarsi, questo è il paradosso.
Si corre il rischio di subire inconsapevolmente le pressioni sociali e di interiorizzare certe norme, perdendo la propria libertà.
Coltivare il senso del pudore significa scegliere cosa rendere pubblico e cosa no, significa realizzare la giusta misura. In alcune situazioni ci vergogniamo anche per gli altri, per chi rimane del tutto indifferente al proprio comportamento.
Il tema del pudore in Mounier viene ricondotto alla eccedenza della persona rispetto alla sua apparenza esteriore. Ciò che caratterizza la persona è l’impossibilità di essere completamente affermata dall’altro, e tanto meno dallo sguardo dell’altro, proprio perché la persona sta al di là della sua dimensione esteriore. “Io sono di più di quello che appaio”. Per la filosofia il pudore esige il rimando a qualcosa che tocca l’essenza della persona. Il pudore non è solo un bisogno profondo, ma una presa di posizione sul rapporto tra interiorità ed esteriorità. La persona è il simbolo di ciò che, nella sua natura profonda, non può mai essere né conosciuta, né posseduta. Essa con la sua stessa esistenza suggerisce la necessità di istituire una zona di rispetto, indica un limite invalicabile all’esercizio del potere sull’uomo.
Il pudore rappresenta una sorta di ponte fra esteriorità e interiorità. Vi è una tensione della persona tra la spinta alla socialità e l’esigenza del ripiegamento su sé stessa, il pudore è un arretramento che tuttavia non è una resa, ma un puro e semplice respingimento dell’altro.
La persona va al di là, il pudore appare l’elemento rivelatore della trascendenza della persona, come segnale dell’irriducibilità della persona a essere posseduta da un’altra, attraverso uno sguardo. Il pudore è un segnale dell’incomunicabilità, indica la soglia oltre la quale né lo sguardo, né il contatto corporeo possono procedere.
Al pudore relativo alla sfera della corporeità Mounier affianca quella che definisce il pudore del pensiero. Non tutto può essere comunicato, in quanto vi è una sfera segreta della persona nella quale nessuno può penetrare. A partire da una ripresa della particolare concezione di Buber, Mounier intende recuperare l’importanza e la possibilità stessa della comunicazione fra gli uomini. La parola e lo sguardo realizzano la comunicazione, vi sono contatti e sguardi che non portano necessariamente all’alienazione.
Il pudore è ciò che consente alle persone di mostrare i limiti dello sguardo perché rivelando un al di là della persona, indica al contempo la sua trascendenza.
Esiste per Mounier lo spazio per un’autentica comunicazione, a condizione che essa non pretenda di cogliere la totalità della persona. Nella prospettiva dell’incontro con l’altro il pudore indica la soglia che non può essere valicata neanche nella più intensa intimità.
Sin dall’inizio della vita, la persona è apertura agli altri, Mounier pone la dialettica tra parola e silenzio, tra offrirsi e ritrarsi. Il pudore è una sorta di silenzio che si contrappone a uno svelamento che vorrebbe essere soltanto parola e ha dunque perduto la dimensione del non detto. Il pudore è custode dell’intimità, elemento costitutivo della persona. Il pudore è il sentimento che la persona ha di non essere insidiata nel suo essere da chi scambierebbe la sua esistenza manifesta per la sua esistenza totale.
In questa prospettiva il pudore non è un di meno, ma un di più, non è povertà, ma ricchezza della relazione.
Il pudore come eccedenza
L’esibizionista coltiva l’illusione del compiuto possesso e del totale disvelamento dell’altro, ma in realtà l’apparente disvelamento del corpo non è in alcun modo una rivelazione dell’essere profondo dell’altro. Segnale di questa eccedenza, il pudore è un invito ad andare oltre la pura corporeità e insieme la denuncia di ogni svelamento.
Solo questa capacità di andare oltre crea le premesse di un’autentica intimità.
Non si dà amore autentico al quale il pudore non prepari la strada, così come Simone Weil scrisse l’amore non può essere disgiunto dal pudore (Weil, 1972).
Andrea Tagliapietra, nel saggio La forza del pudore riprende l’affresco del Masaccio “la cacciata dei progenitori” per affermare che la nascita dell’uomo, avvenuta con il compimento del peccato originale ed intesa come consapevolezza di sé e come ingresso nel mondo reale, coincide con il pudore. Nel mito genesiaco non è la nudità in sé a provocare vergogna, ma è la nudità percepita, dopo aver commesso il peccato, che induce a celare l’intimità del corpo.
Prima di aver colto il frutto dell’albero nel giardino dell’Eden, Adamo ed Eva, abitano in una dimensione esistenziale di innocenza e di fiducia ingenua, nella quale l’uomo non percepisce sé stesso in relazione con l’Altro. Assaggiando il frutto proibito, l’uomo acquisisce la conoscenza del bene e del male ed è in quel preciso istante che percepisce la propria nudità.
A causa di ciò, comincia a provare pudore e sente l’esigenza di coprirsi.
Ogni essere umano viene nudo alla luce, ma solo in un secondo momento guadagna anche la coscienza di esserlo. Prima di cadere nel peccato Adamo fonda la propria esistenza sul non sapere. La vergogna di Adamo è la paura, l’angoscia che prova dinanzi alla necessità di accettare quella condizione che gli appartiene e che gli è disvelata. Nel dipinto di Masaccio, l’ombra è metafora del pudore. L’ombra rinvia al gesto di nascondersi e proteggersi, Adamo non si copre le parti intime, ma il viso, il luogo dell’identità più propria. Il gesto con cui il senso di colpa ci spinge a coprirci, è tutto ciò che ci separa dall’animale. Perciò la vergogna e il pudore sono tratti ontologicamente decisivi. L’ideale della trasparenza, della sincerità a tutti i costi è la smania patologica del mondo contemporaneo.
Un corpo e una psiche messi a nudo completamente rispondono all’ideale della modernità, in cui si deve sapere tutto, mostrare tutto. La pretesa di aver qualcosa di proprio suscita sospetto.
La privacy è diventata oggetto di tutela giuridica solo nell’epoca in cui non solo non esiste più, ma il rivendicarla è diventato un atteggiamento riprovevole. Nell’epoca in cui il diritto alla privacy è continuamente violato, l’auto trasparenza assoluta è diventata l’ideale dominante.
La soggettività è inesauribilmente trascendente rispetto a ogni manifestazione. L’ombra indica la provenienza della luce, è come lo sguardo che, per quanto penetrante, non riesce mai ad essere completo. Manifestandosi nella luce gli oggetti conservano qualcosa di non esposto e di segreto. Mentre i soggetti esposti alla luce accecante del mito contemporaneo diventano quasi oggetti. L’individuo è così indotto a non avere più nulla di proprio, a non vedere nulla di sé che gli altri non vedano.
Nella trasparenza in cui ciò che ciascuno sa di sé stesso coincide con ciò che gli altri sanno di lui, tende a zero lo scarto della coscienza individuale. In assenza di questo scarto, l’individuo non riesce più a vergognarsi. La sincerità sopra sé stessi, la rivelazione della propria interiorità, senza ombre, né reticenze, non conosce vergogna, non può nascondere il viso, dal momento che nulla è privato, ma tutto è pubblico, esposto, visibile.
Vergogna e pudore hanno a che fare con la verità dei rapporti umani e con la degradazione che è sempre possibile.
L’ethos del pudore
Il pudore non è una virtù, ma si proclama nemico del vizio che rischia di insinuarsi e di corrompere. Il pudore si manifesta come una sorta di angoscia, che permette all’uomo di proteggere dall’ostentazione e dalla condivisione ad estranei, quanto di più umano possegga. Il pudore è nascondimento e custodia di ricchezza originaria, intima e individuale, che necessariamente deve essere protetta dalla massa omologatrice.
Il pudore è uno stato di allarme, trasmette la percezione di un confine, di una linea d’ombra.
Pudore, senso di colpa, vergogna, timidezza, sono possibili solo nella misura in cui l’io non si concentra su sé stesso e sulle proprie azioni, ma immagina o percepisce sé stesso dentro un rapporto con l’alterità.
Il peccato di Adamo ed Eva segna la differenza; da quel momento la nudità suscita vergogna, paura e un senso di vulnerabilità che paralizza. La vergogna è il distacco tra il sé e il corpo. La nudità è l’estraneità del corpo a sé stesso.
Vedere sé stessi con l’occhio di un altro esprime la dissociazione fondamentale tra corpo e spirito, condizione affinché si possa provare vergogna.
La modernità ha cambiato il modo di percepire la società e il rapporto tra sé e gli altri. L’uomo moderno si caratterizza per una nuova coscienza di sé e della propria individualità, per l’amore della solitudine quale condizione per resistere all’ipocrisia che, in qualche misura, è indispensabile alla sopravvivenza della società. L’individualismo moderno utilizza l’ossequio alle convenzioni sociali allo scopo di assicurare l’affermazione personale. D’altra parte, la moderna libertà di pensiero e di parola distingue nettamente tra il comportamento esteriore, che è assoggettato alla norma morale e alle convenzioni sociali, e il pensiero.
L’uomo moderno riconosce alla società il diritto di controllare e regolamentare le sue azioni, ma esclude per principio la limitazione della sua libertà di pensare e di esprimere la propria opinione.
Pudore e vergogna infatti presuppongono una qualche partecipazione dell’interiorità e una complicità della coscienza individuale con quella collettiva.
Le due dimensioni interno ed esterno non si possono scindere, se la dissociazione funzionasse, comporterebbe la dissoluzione di ogni sentimento di vergogna e di pudore, perché ognuno si preoccuperebbe unicamente del successo delle proprie azioni, rendendo impossibile qualsiasi sentimento di colpa.
Interno ed esterno, pudore e vergogna, coscienza e società sono due campi indissolubili, distinti, ma inseparabili.
Il pudore ha la sua radice nella sproporzione che percepiamo tra ciò che siamo e ciò che dobbiamo essere, lo sguardo dell’altro suscita il disagio che avvertiamo in questa dissociazione. Solo un modello sociale può aprire il varco al pudore e risvegliare la coscienza della propria finitezza, imperfezione e insufficienza.
Nell’ammissione delle proprie colpe la collettività riprende il sopravvento e la coscienza dichiara così apertamente la propria origine e il proprio debito nei confronti di un’autorità superiore. La norma morale ha bisogno di entrambi i poli per agire con efficacia: coscienza individuale e autorità collettiva.
Se la coscienza individuale è annientata dall’immersione in una massa, facilmente l’individuo perde la coscienza di sé. Se invece, l’individuo è isolato e avulso da ogni comunità non diventa oggetto dello sguardo altrui, non può vedere sé stesso con gli occhi dell’altro.
L’esigenza di nascondere una parte di sé stessi agli altri non esprime il desiderio di isolarsi dalla società, ma solo la legittima necessità di resistere all’assedio del pubblico e di conservare una capacità di autoriflessione che, sola, permette di considerare sé stessi in modo realistico, in relazione alla società di cui si è parte.
Il diritto di mantenere il segreto su ciò che è solo nostro ci preserva dal totalitarismo e contribuisce a mantenere la percezione di sé stessi come individui autonomi e responsabili.
Pudore e vergogna, segni dell’ambivalenza della condizione umana
L’esperienza del pudore e della vergogna sono segni di una condizione umana segnata dalla fragilità e dal bisogno dell’altro.
Nella riflessione antropologica e teologica della Bibbia, si mostra come essere uomo e donna vuol dire accogliere il proprio limite, accettare la vita come dono, saper interpretare le emozioni e i desideri come luogo di apertura agli altri.
Anche nella difficoltà è importante saper cambiare il proprio atteggiamento nell’incontro con l’altro, privilegiando la cura e il riconoscimento. Solo così si può costruire un’umanità sensibile al bene di tutti.
La lettura operata dall’antropologia culturale distingue tra la cultura dellla vergogna, in cui l’onore e la stima collettiva hanno un ruolo importante, e le culture della colpa, per le quali ciò che conta è la coscienza di non aver deliberatamente violato una norma umana. Vergogna e colpa sembrano rappresentare una specie di emozioni morali, legate al fallimento e all’errore. Tali emozioni coinvolgono l’intera percezione della propria identità. Il pudore, a differenza della vergogna, consente di deviare positivamente l’emozione, le conferisce una possibilità nel cogliere il limite e convertirlo in possibilità.
Nella vergogna emerge la lacerazione di non essere all’altezza del proprio compito e delle diverse situazioni interpersonali. Il pudore segnala un di più, l’esigenza e il desiderio di non essere considerati oggetti.
Nel campo problematico delle relazioni da instaurare con l’altro, il pudore decide del grado di apertura o meno della propria intimità, e delinea i tratti di una reciprocità che non è alienazione, ma sguardo attento che sa incontrare l’altro. Il pudore può produrre una resistenza nell’affermazione di un’interiorità non manipolabile, che rende ognuno di noi unico e irripetibile.
Etica del limite
Il limite appare una variabile che urta contro la costante della nostra volontà di potenza, il cui primo criterio è rinunciare a pretendere da noi stessi la perfezione, perché l’autorealizzazione sta nel saper convivere con la difettività dell’esistenza.
Niente stanca di più del rincorrere la perfezione.
Il rifiuto del limite si caratterizza come l’incapacità di accogliere la nostra precarietà, è uno stimolo ad apprezzare il quotidiano. Evitare di sbagliare è impossibile. L’inclusione del limite, invece, facilita il recupero di una visione che fa spazio all’errore e all’imprevisto, si assume così, un’etica del limite che, mentre rende più coscienti della fragilità, lascia emergere l’importanza di introdurre comportamenti alternativi a quelli perfezionistici, recuperando valori come il rispetto, la solidarietà, il dono di sé stessi.
L’etica del limite invita ad essere consapevoli, non solo di chi siamo, ma anche ad accettare ciò che realmente siamo, ci mette in relazione con l’accettazione della nostra natura umana.
Il pudore è il simbolo della nostra precarietà, è il segno che ogni uomo è segnato dal bisogno, dal desiderio. Nell’affermazione del pudore come condizione dell’esistenza, è custodito il senso della realtà come dono da percepire e mettere in atto.
L’esperienza del pudore può tradursi nella logica della condivisione. Ogni autentico gesto d’amore rende poveri, perché ha come conseguenza una diminuzione della sicurezza. Chi ama è sempre esposto, per questo si può amare solo se si è nello spirito di povertà, capaci di non appiattire l’altro, di lasciarlo libero nella sua singolarità.
Chi non è povero rimane chiuso in sé, incapace di futuro.
La logica dell’amore non conosce confini e invita al superamento dell’individualismo, dando forma a una vita che è incontro di soggetti nella libera reciprocità e condivisione. Il pudore non annulla la percezione della debolezza e fragilità umana, ma la affianca alla tenerezza che Dio garantisce nel fare all’uomo delle tuniche di pelle.
Dio mette al centro della sua relazione il principio della cura, in grado di superare l’egoismo e la sopraffazione. La relazione all’altro è progettuale, essere uomo e donna è un itinerario mai concluso, né scontato che nell’incontro con l’altro assume la sua figura propria.
Incontrare l’altro è un compito infinito e la fedeltà richiede di legarsi per accettare di essere trasparenti, di venire cambiati dalla relazione. Non si vive mai per sé stessi e non si è in grado di amare sé, se non si è amati, per cui, la fedeltà colma le incertezze che nella chiamata dell’amore come dono possono sorgere, nutrendo la fiducia che nonostante i fallimenti e le ferite, il progetto è possibile. Nel dono prende corpo la verità dell’esistenza, non secondo la logica dell’utilità o necessità, ma nel segno di una gratuità che scaturisce dalla libertà.
Il pudore è protezione, proteggere sé dall’altro e proteggere l’altro da sé, stabilisce i confini, non è indifferenza, ma rispetto.
Bibliografia
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