Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Un percorso di filosofia comparata: Oriente ed Occidente

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Recensione a R. Capra, I flauti del cielo. Quattro divagazioni sul tema della filosofia comparata, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI), 2020, pp. 152.

I.

Il volume di Rudi Capra (I flauti del cielo, Mimesis 2020) presenta molteplici elementi di pregio che ne suggeriscono la lettura sia a coloro che, dediti alla ricerca filosofica, vogliano trovare rinnovati spunti di dialogo e di discussione critica con alcuni temi decisivi della tradizionale ricerca speculativa (la questione dell’identità e del sé nei suoi rapporti con la dimensione della volontà, o, ancora, il legame complesso fra soggetto e oggetto, o tra individuo e natura) scoprendo, in tal senso, un interlocutore raffinato, sia a chi voglia inoltrarsi verso originali e meno consuete ‘geografie’ del pensiero, grazie alla salda capacità dell’autore di solcare, con padronanza, i complessi ‘rivoli’ della riflessione filosofica orientale (di talché, il volume può fungere da ottimo saggio introduttivo). Il libro, inoltre, costituisce anche un utile strumento per un primo approccio, tout court, ai problemi filosofici, pur nella consapevolezza che l’analisi filosofica non si sostanzia certo in una semplice passeggiata al sole diurno, ma, piuttosto, in una vera e propria ‘ascesa al Monte Ventoso’, e per questo bisognosa di un approccio teorico meticoloso e di una diligente lucidità intellettuale.

L’opera, che si sviluppa in quattro capitoli, presenta un percorso articolato in alcune tappe concettuali che l’autore struttura dopo la breve introduzione – in ordine – nel problema dell’Identità e nella questione della costruzione del , inoltrandosi, di poi, nelle tematiche della Volontà e della Natura. Ciascun capitolo, invero, illumina l’altro di ‘luce propria’ («ogni capitolo, ogni paragrafo – nota Marcello Ghilardi nella prefazione – si riflette negli altri, risuona con essi», p. 10), chiedendo al lettore il (piacevole) sacrificio di frequenti “salti teoretici”, stante la intrinseca connessione dei vari argomenti trattati con alcuni, ricorrenti, nodi fondamentali. Tali “salti”, tuttavia, lungi dall’incidere sulla lettura, ne arricchiscono l’esperienza, imponendo un’opera di sintesi intellettuale prolifica e “produttiva”.

Nel primo capitolo, dunque, l’autore affronta il tema dell’identità, cercando, come nel prosieguo del testo, di mettere in relazione due diversi ‘canoni’ del procedere filosofico: il paradigma ‘occidentale’ ed il modello ‘orientale’. Giova ravvisare, in effetti, che l’elemento ‘comparativo’ – come, suggerisce, d’altronde, il sottotitolo del libro – rappresenta un criterio orientativo cruciale per l’autore, che se ne serve con acutezza, e mai per mero spirito di erudizione, bensì, piuttosto, sempre con il fine precipuo di sostenere e corroborare una determinata argomentazione filosofica.

Uno dei principali obiettivi dell’indagine di Capra risiede nel voler sottolineare l’esigenza di un tentativo di «rinuncia a un concetto forte di identità», il quale, peraltro, «prelude», teoricamente e pragmaticamente, «[…] al mitocidio della purezza: la purezza della divinità, della razza, della morale, dell’amore, dei sentimenti» (p. 46), da interpretarsi come veri e propri «miraggi abituali di un pensiero attirato, come una falena, dalle luci abbacinanti del vero e dell’assoluto, disposto a bruciare sé stesso e i propri simili nell’impossibile sforzo di ottenerlo» (p. 46), suggerendo, così, la necessità della riscoperta di una prospettiva filosofica ‘orientale’ in grado di schiudere al lettore «nuove opportunità di armonia» (p. 46).

Orbene, uno degli elementi che il metodo comparativo consente di mettere in luce concerne proprio la dimensione di opposizione che si riscontra fra la visione filosofica occidentale e quella della sapienza orientale: mentre la prima ha cercato, in modo prevalente, di «ricondurre l’aspetto caotico e mutevole della realtà alle caratteristiche della filosofia eleatica, negando il divenire e postulando unità, durabilità e immutabilità come attributi dell’identità dell’essere» (pp. 35-36), la seconda ha «tentato prevalentemente di ricondurre l’aspetto strutturato e stabile della realtà a una visione del cosmo fondata sull’universalità del mutamento, negando il permanere e postulando la natura illusoria e condizionata di ogni identità» (p. 36). La conseguenza di ciò è, naturaliter, il dominio in occidente di un concetto di identità forte, decisamente radicata nella (apparente) solidità del principio di identità, della legge di non contraddizione e della legge del terzo escluso, forme costitutive delle coordinate essenziali (le c.d. “leggi del pensiero”, p. 21) del canone occidentale, destinate a riverberarsi su ulteriori e molteplici piani della riflessione filosofica. Tuttavia, un esercizio speculativo fondato esclusivamente sulla triade identità-non contraddizione-terzo escluso, non rappresenta una necessità ineluttabile, ma una traiettoria di indagine ‘settoriale’, radicata nelle simmetrie culturali dell’Occidente e, proprio per questo, ideologicamente situata in una determinata visione di senso.

Una prospettiva filosofica, pertanto, che cerchi di gettare il proprio sguardo oltre «i limiti imposti dalla LID [n.d.r. legge di identità]» risulta, secondo Capra, «non solo concepibile, ma logica e coerente» (p. 36). Tale via alternativa può essere rintracciata negli esercizi sapienziali del buddhismo indiano, fra i quali spicca il pensiero di Nāgārjuna. In questo senso, l’autore del libro rimarca come nel «buddhismo la nozione di un’identità ontologicamente autonoma e provvista di attributi essenziali» (p. 36) – che si radica nella tendenza, tipicamente occidentale, di procedere a rigorose formule definitorie, organizzando il reale attraverso continue forme di delimitazione, generando una sostanziale tendenza ‘dicotomica’, binaria, nelle modalità di ordinazione della realtà – sia «semplicemente illusoria» (p. 36). E ciò sarebbe dovuto, secondo il buddhismo, anche all’attitudine “difensiva” della mente umana a qualificare come «permanenti, sussistenti e autonomi fenomeni che sono in realtà transeunti e condizionati» (p. 37). “Difensiva”, in quanto destinata a declinare, secondo forme di ordine logico, fenomeni tra loro contrastanti o contraddittori, attuando, così, una sorta di ‘protezionismo della ragione’.

Nella visione buddhista, invece, alla ‘staticità’ si oppone una tendenza al ‘movimento’ o, per meglio dire, al «mutamento» (p. 36) che «nei testi buddhisti viene generalmente indicato come “impermanenza”» (p. 37) e che sollecita una visione volta a porre l’accento su un’interpretazione maggiormente ‘relazionale’ o ‘condizionale’ del reale, riassumibile nel concetto, che l’autore richiama, di «genesi condizionata» (p. 39), il quale allude al fatto che «tutti i fenomeni dell’universo si generano vicendevolmente in un processo causale privo di essenze fisse, che si estende spazialmente e temporalmente come una rete infinita» (p. 39): cosicché, l’isolamento di un dato fenomeno non può che apparire arbitrario, in quanto «punto d’incontro in una rete infinita di relazioni», interno al «processo dinamico della realtà» (p. 39). A tale concetto si ricollega, altresì, quello di ‘vacuità’ (decisivo nel pensiero di Nāgārjuna), contenente in sé l’esigenza di una decisa negazione dell’esistenza di «fenomeni ontologicamente autonomi e provvisti di natura inerente» (p. 38).

Genesi e vacuità, dunque, come percorso verso una recisa opposizione al ‘paradigma dell’identità’, verso un’affermazione di un’identità debole che non rimanda ad una «negazione assoluta dell’identità ma piuttosto [ad una] […] sua ridefinizione in una ottica relativa e contestuale» (p. 41), in cui la relazione degli elementi compositivi del concetto e il suo referente nel reale giocano un ruolo basilare per la sua stessa possibilità di comprensione intellettuale: così, se «l’identità forte considera una sedia una sedia, l’identità debole considera la sedia un aggregato di materiali, organici e inorganici […] assemblato meccanicamente in un dato momento e destinato alla disgregazione, coinvolto in una rete infinita di rapporti dipendenti […], e la cui caratterizzazione come “sedia” è solo un suono inutile, flatus vocis, che traccia intuitivamente un confine in questa serie infinita di passaggi» (p. 41).

II.

La dimensione del sé, che l’autore affronta nel secondo capitolo, costituisce, in ragione dei notevoli punti di contatto, la naturale continuazione del discorso sull’identità. Anche su tale ultima questione, infatti, l’Occidente ha esercitato, nella storia del pensiero, un’influenza cruciale: l’identità forte ha generato una concezione dell’identità personale «nei termini di un sé unitario, permanente e inalterabile, che ha i connotati storici della psyche greca, dell’anima cristiana e dell’ego cartesiano» (p. 47, corsivo nel testo).

A questa tre linee direttrici, tipicamente europeo-occidentali, si oppongono, da una parte, la visione buddhista che «descrive […] l’identità personale come una proiezione delle funzioni cognitive, relegando il sé a maschera senza volto, copia senza matrice, segno privo di referente» (p. 47), dall’altra, ma in una prospettiva similare, la tradizione filosofica cinese, che pone l’accento sull’elemento armonico dell’esistente e della realtà in un «processo complementare che accosta alla naturalizzazione dell’umano, l’umanizzazione della natura […]» (p. 47).

Alla visione “inscalfibile” del sé occidentale – fondato su una precisa tradizione di pensiero che vede il convergere, nonostante alcune differenziazioni interne, dei tre momenti poc’anzi citati – corrisponde la necessità di una riconduzione ad unità dei«vari attributi dell’identità personale» (p. 58), miranti a delineare un profilo unitario, che trova nella definizione di individuo atomisticamente isolato e cristallizzato il suo tratto operativo, con centrali ricadute pratiche di carattere giuridico, politico-economico, culturale.

La costruzione del sé scopre, così, nella tensione del suo realizzarsi, nello scacco fra realtà e idealità, la sua cifra determinante, radicando il convincimento comune che «l’identità personale conserva un grado di atomicità che persiste al tempo e resiste ai mutamenti sensoriali, mentali, sociali» (p. 59). Ma la via verso la realizzazione del sé svela una frattura, una «distanza tra il sé ideale e il sé attuale» (p. 59), che il canone occidentale si propone l’obiettivo di eliminare, attraverso rinnovellate proposte di realizzazione del sé, laddove «la strategia di alcune filosofie orientali prevede […] più radicalmente l’annullamento del sé» (p. 59, corsivo mio).

In quest’ottica, alla tendenza ‘ipertrofica’ della costruzione dell’ego «il buddhismo oppone invece una ortoprassi fondata sullo svuotamento del sé» (p. 62), attraverso la ricerca della vacuità come «stato mentale», che «non equivale a una inerte apatia», ma alla «ricollezione di una consapevolezza scevra da impulsi discriminatori e centrata sul momento presente» (p. 62-63).

Seppur secondo orientamenti diversi, anche il ‘sé focale’ della tradizione ruista si inserisce in questo medesimo scorcio prospettico, strutturandosi nei termini di una ‘entità locale’ che trova concretizzazione sempre e soltanto attraverso forme relazionali quali «esperienze, desideri, influenze, credenze, sensazioni […]» (p. 69), causando uno spostamento da una visione ‘sostanzialista’ del sé ad una lettura ‘funzionalista’: «la meccanica ruista degli affetti sociali illustra come sia possibile coltivare una dinamica mondana senza postulare la sussistenza ontologica di una sostrato identitario permanente» (p. 70). Puranco il ‘sé mimetico’ della tradizione daoista pone l’accento sulla dimensione fasulla dell’identità personale quale entità stabile, perorando la visione, attraverso un processo di ‘coinvolgimento distaccato’, di un modello di «agire privo di agente» (p. 74), che sappia operare nel mondo senza, tuttavia, una rigida volontà da opporre od obiettivi specifici da conseguire, ma ‘mimeticamente’ adattandosi – in modo ‘psicologicamente distaccato’ – alle esigenze contingenti del complesso contesto esperienziale in cui il soggetto si trova catapultato.

Se il mondo occidentale si è sforzato di concepire, unilateralmente, la sfera dell’identità personale in stretta correlazione con l’identità in generale, le visioni orientali, come quella buddhista, hanno «destituito il sé al ruolo di simulacro, presentandolo come effetto piuttosto che come causa» (p. 74), così come il ruismo e il daoismo si sono impegnate in una critica delle tensioni egoistiche, da interpretarsi come forme di cieca affermazione della ‘volontà personale’.

III.

È quest’ultimo aspetto che apre, infatti, il terzo passaggio fondamentale dell’opera – quello della ‘volontà’ –, destinato ad approfondire i profili di connessione delle prime due tematiche trattate. Tema che dimostra, fin da subito, con i primi, un intrinseco legame, dacché una «concezione forte dell’identità personale implica un’affermazione altrettanto incisiva della volontà personale» (p. 75). L’autore affronta questo capitolo articolando la questione attraverso tre linee direttrici: da una parte, l’eroe tragico in cui si scorge, nel conflitto “insanabile” tra volontà e fato, l’assoluta incapacità di porre un argine alla tendenza, invero infrenabile, alla soddisfazione della propria volontà desiderante; dall’altra, la non-volontà (o ‘nolontà’) ascetica che si impegna nella rinuncia radicale ad ogni esercizio volontaristico. Fra queste due vie intermedie l’autore colloca una terza prospettiva: la ‘mente equanime’, che, attraverso la ricerca di un «prospettivismo contestuale» (p. 101), non conosce forme di effettiva opposizione tra volontà individuale e orizzonte del fato.

L’eroe tragico – che trova una sua rappresentazione simbolica in molteplici figure che abitano la storia della letteratura occidentale, come l’Amleto di Shakespeare, o il personaggio di Aiace Telamonio – struttura la propria identità nella «realizzazione di un obiettivo a costo della sua stessa distruzione» (p. 75), attraverso una costitutiva “incapacità di rinuncia” che ne delinea la sua sostanziale drammaticità: la dimensione desiderante riflette una modalità strategica di affermazione totale della volontà, la quale, però, discostandosi «periodicamente dalla propria soddisfazione man mano che viene esaudita» (p. 80), replica l’assurda e celebre immagine del supplizio di Tantalo, quest’ultimo destinato, in eterno, a non veder mai saziato il proprio appetito (p. 80), in ottemperanza all’insindacabile e inappellabile giudizio degli Dei.

Se dunque l’eroe tragico è destinato a rimanere coinvolto in un conflitto insanabile ed autodistruttivo (p. 84), anche l’altra figura delineata dall’autore, quella dell’asceta, orientata alla risoluta negazione della volontà, non sembra destinata a raccogliere frutti positivi. Ciò in quanto l’ascetismo non determina un vero superamento del problema ma, piuttosto, un suo mero spostamento: segnatamente, «l’ideale ascetico previene l’insorgenza di conflitti esteriori […] interiorizzando però la conflittualità insanabile che oppone la volontà di non volere alla compulsione meccanica della volontà» (p. 87). In sostanza, dunque, l’asceta certamente esercita una forma di negazione radicale della propria volontà, ma, al contempo, afferma una diversa identità, che egli individua nella totale soppressione delle pulsioni e dei desideri: ancora una volta, un modello di identità forte «fondato su uno specifico ideale morale» (p. 88). Nel far questo, dunque, l’asceta cade, anch’egli, in una contraddizione insanabile che si sostanzia nell’affermazione di una volontà di secondo grado (p. 88).

L’unica strada per il raggiungimento di una concreta serenità sapienziale non può che ravvisarsi in una ‘terza via’, alternativa rispetto alle due tendenze antitetiche appena citate: se l’eroe tragico rimane incatenato nel dominio del desiderio, e se l’asceta rimane bloccato all’interno di un ideale morale, la mente equanime, invece, percorre il proprio sentiero verso la conoscenza attraverso «l’abbandono della parzialità egoica» (p. 95), seguendo gli insegnamenti di Laozi, e avviando un cammino finalizzato all’estinzione della volontà, che consenta di «contemplare il reale nella sua incessante potenza creatrice» (p. 96) e percependo «l’unità dinamica che abbraccia l’inesauribile molteplicità dei fenomeni» (p. 96). Ciò, tuttavia, non conduce alla obliterazione totale del desiderio (come vorrebbe la più rigida visione ascetica), ma ne impone la sua «integrazione in una bilanciata dialettica di partecipazione e distacco» (p. 96).

Anche nella traiettoria speculativa di Zhuangzi affiorano elementi stimolanti per questa visione prospettica, in cui la propensione alla ‘equidistanza’ si tinge di coloriture morali, psicologiche, emotive ed esistenziali: la dimensione ‘equanime’ di Zhuangzi, che richiama l’atarassia pirroniana, conduce alla imperturbabilità, che non allude alla completa «immunità da sentimenti ed emozioni», ma alla «capacità di mantenere un distacco salutare rispetto agli stati psicologici che potrebbero inquinare e stravolgere una condizione di equilibrio» (p. 99). L’accettazione del fato come necessità, e la decisione di evitare la coincidenza del proprio sé con la volontà, conduce ad un’accettazione ‘impersonale’ degli accadimenti fisici, astenendosi dalla interiorizzazione degli eventi negativi, così come degli eventi positivi. Insomma, nella consapevolezza dei limiti dell’esistenza, il soggetto ‘equanime’ cerca con la totalità cosmica non già forme di recisa opposizione quanto di integrata armonia.

IV.

Dimensione armonica che conduce all’ultimo capitolo del libro, denso di maggiori ricadute pratiche, diremmo quasi etico-politiche. Questo perché il tema della ‘natura’, nei suoi rapporti con l’individuo, pone interrogativi cardinali anche per i fertili terreni del dibattito contemporaneo – ci si riferisce al problema ambientale – in cui l’autore si inserisce, con acutezza e consapevolezza della problematicità delle diverse posizioni teoriche, mettendo subito in evidenza come nella storia della filosofia occidentale il mondo della natura sia sempre stato interpretato in termini prevalentemente strumentali. Esito, quest’ultimo, proprio della riflessione moderna e contemporanea, ma parzialmente anticipato da vari paradigmi dominanti nella storia del pensiero occidentale: su tutti, quello della ‘custodia’ (dell’uomo sulla natura), veicolato dalla tradizione giudaico-cristiana (p. 103).

È nelle filosofie orientali, ad avviso dell’autore, che si rintraccia un diverso e possibile spazio di riflessione, il quale, piuttosto che porre l’accento sulla dimensione verticistica e gerarchica dei rapporti fra uomo e natura, configura questi ultimi nei termini di un «circolo simbiotico di mutua dipendenza» (p. 103).

Uno dei concetti chiave, in tal senso, è proprio quello di armonia, centrale nella tradizione filosofica orientale, soprattutto cinese. Esso si distanzia dal concetto, apparente similare, che incontriamo nella filosofia greca e «che pure rinvia all’analogo significato [di] “connessione favorevole”, “accordo”, “concordia”» (p. 105), poiché mentre quest’ultimo tende a delineare una modalità di conformazione ad un ordine essenzialmente pre-esistente, l’idea di ‘armonia’ nell’universo cinese designa invece «un processo in cui l’ordine si genera dal caos spontaneamente» (p. 105). L’orientamento di senso, dunque, si connota di elementi ulteriori, che ne determinano un ‘surplus’ ideativo.

Il concetto di ‘armonia’, pertanto, nei termini della tradizione orientale, secondo l’autore, potrebbe esercitare influssi benefici verso molte branche, afferenti principalmente alle scienze sociali (quali diritto, economia, scienze diplomatiche), che si trovano ad operare in un contesto multiculturale e globalizzato. Inoltre, Capra rimarca come, per il pensiero cinese, il concetto di armonia si differenzi nettamente da quello di ‘identità’, giacché laddove «armonia implica progressivo accordamento di discordie e differenze in un processo di mutuo rinnovamento, […] identità significa affermazione di molteplici unità strutturalmente differenti tra loro e dunque un fondamentale rifiuto del processo di mutua trasformazione» (p. 105). L’armonia valorizza le differenze senza il conflitto, mentre l’identità evita il conflitto sopprimendo le differenze.

Inutile sottolineare come questo paradigma dell’armonia possa fornire un ausilio fondamentale per mettere in atto un compiuto pensiero critico diretto ad interrogarsi su una pluralità di questioni, fra cui, ad esempio, il problema – capitale per il pensiero filosofico del Novecento europeo – della ‘tecnica’, che trae le proprie radici proprio da una visione gerarchicamente orientata fra uomo e natura, allocando l’essere umano al vertice della piramide. Ancorandosi a questi aspetti, è necessario, secondo l’autore, «ripensare il nostro rapporto con la natura, a cominciare dal tecnocentrismo che ha condizionato la tradizione occidentale» (p. 110): un modello che trova i propri prodromi nel pensiero giudaico-cristiano (nonché, secondo l’autore, in alcuni aspetti del pensiero greco), per poi percorrere tutta la storia della riflessione occidentale che ha posto le problematiche ‘epistemologiche’ in primo piano, a scapito di quelle ‘ecologiche’ (p. 111).

Tale preminenza ha determinato una ‘oggettivizzazione’ della natura – oggetto per gli scopi, infiniti ed illimitati, della volontà umana – provocando conseguenze devastanti all’ecosistema e all’ambiente in cui l’uomo si trova a vivere e ad operare. Una natura, cioè, come «fondo disponibile» (p. 116-117) per le diversificate necessità di natura scientifica, o per le forme del potere economico e tecnologico. La logica del concetto di ‘natura’ come “fondo disponibile”, in questo senso, parrebbe proprio la conseguenza della scissione, costruita teoreticamente nei secoli, fra individuo e natura (riflesso della più ampia frattura tra soggetto e oggetto). In tale ottica, l’opposizione non può che condurre a un esercizio di dominio strumentale dell’oggetto, che appare come un ‘totalmente estraneo’.

La riconduzione del legame tra individuo e natura verso forme di compiuta unitarietà può trovare appunto un momento di risoluzione proprio nel concetto di ‘armonia’, il quale invece di porre l’accento sul momento conflittuale e fagocitante del dominio dell’uomo sull’oggetto-natura, ne valorizzi la «tensione creativa», perseguendo «un equilibrio dinamico anti-essenzialista e anti-gerarchico» (p. 121). Ciò consentirà, altresì, di comprendere – anche grazie all’ausilio delle stesse ricerche scientifiche che, negli anni, stanno sempre più corroborando tali intuizioni non-dualiste dei rapporti fra uomo e natura (p. 125-126) – come la natura non appartenga «al genere umano più di quanto il genere umano […] [appartenga] alla natura» (p. 126), e che tale consapevolezza, che conduce a ravvisare nella natura non alcunché di estraneo e ‘lontano’ ma un “riflesso” del proprio stesso essere, non può che comportare benefici fondamentali per una relazione profonda fra l’uomo e ciò che lo circonda.

Il volume di Rudi Capra, dunque, fornisce spunti essenziali sotto molteplici traiettorie prospettiche, sollecitando il lettore ad un ripensamento dei rapporti, spesso poco in evidenza, tra filosofia occidentale e filosofia orientale, e contestualmente invitandolo a ragionare su determinate prospettazioni di natura dualistica che, sovente, piuttosto che esser fondate su precise coordinate teoretiche, rappresentano il sostrato di presupposizioni ideologiche inveterate.

A questo obiettivo l’autore giunge attraverso considerazioni di rimarchevole rilievo concettuale, volte a dipanare, con accorta perizia, i profili essenziali che la visione orientale porta con sé, incoraggiando gli studiosi, in tal modo, a coltivare nuove forme di analisi comparata che possano consentire l’edificazione di più fertili e fruttuosi dialoghi fra la riflessione occidentale e la ricerca speculativa orientale. Il libro offre, così, l’occasione per destrutturare alcuni paradigmi, apparentemente saldi, della filosofia occidentale, restituendo elementi di riflessione e di possibile discussione anche per una “critica” del contemporaneo, delle sue logiche di gestione dell’esistente e delle sue forme (più o meno velate) di dominio e di esercizio del potere.


R. Capra, I flauti del cielo. Quattro divagazioni sul tema della filosofia comparata, con prefazione di Marcello Ghilardi, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI), 2020, pp. 152, euro 14,00.

Autore: Jacopo Volpi

Jacopo Volpi (1993). Dottorando in 'Ordine giuridico ed economico europeo' presso l'Università 'Magna Graecia' di Catanzaro. Si è laureato presso l'Università di Pisa con tesi in Filosofia del diritto. A settembre 2021 ha conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione di Avvocato, presso la Corte d'Appello di Firenze. Si occupa, principalmente, di storia del pensiero giuridico del Novecento e dei profili filosofico-giuridici sottesi al processo di integrazione europea.

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